Produzione di successo quella dei Meistersinger von Nurnberg scaligeri, che sembra avere accontentato tutti, wagneriani e “gattiani”, nonostante la mancata occasione di vedere dal vivo la produzione salisburghese di Stephan Herheim. Tutti hanno superato la delusione regalata da nostro sovrintendente, che da Salzburg ha acquistato il peggio lasciando il meglio, preferendo attingere dalla natìa Zurich la discreta produzione di H. Kupfer. Spettacolo garbato e senza scandali, che è piaciuto al pubblico, senza peraltro entusiasmare. Musicalmente così così.
Il regista tedesco ha traslato l’azione nella Norimberga bombardata del dopoguerra, al centro della scena il rudere di una chiesa gotica, forse S. Caterina ma non troppo, una serie di tubolari a stilizzare le case di Norimberga e quindi gli spalti per il coro. Sullo sfondo le immagini della ricostruzione della città, gru e palazzi moderni. Dalla metafora wagneriana, dove il mondo tardogotico-rinascimentale e la rigidità delle regole corporative dei Meistersinger sono la maschera teatrale della narrazione autobiografica delle difficoltà professionali del compositore, un po’ Walther ed un po’ Sachs, l’allestimento passa a quella sociopolitica di Kupfer, della Germania postbellica, che deve trovare un nuovo Lied, cioè un nuovo corso politico dopo la tragedia del nazismo. La serenità e l’armonia che danno grande respiro ai Meistersinger calzano fino ad un certo punto con la collocazione temporale adottata dal regista berlinese che nega la possibilità di un recupero dell’originario significato dell’opera fuori dai ranghi della solita autocritica postbellica, consumata da più di mezzo secolo di riedizioni. In questo il lavoro di Kupfer suona anodino e talora obsoleto, incanalato su binari già troppe volte percorsi ed abusati nella storia della rappresentazione wagneriana moderne. Herheim a Salzburg aveva voluto far coincidere il XVI secolo degli ultimi Meistersinger con il Biedermeier, ossia un’età d’oro guidata da una società borghese cristallizzata e chiusa alle nuove istanze politiche e sociali che i moti del ’48 avevano messo in discussione. Dopo più di mezzo secolo di Regietheater per spogliare l’opera dalle sovrastrutture ideologiche appiccicatevi dal nazionalsocialismo occorreva mettere in gioco maggiore dimestichezza con l’Ottocento, le sue analogie e le sue contraddizioni. Forse le valenze sociopolitiche da riscoprire risiedono nella concezione dell’arte come porzione della storia sociale, nel modo di intendere le corporazioni medioevali e, quindi, l’artigianato come humus della produzione artistica ma anche industriale, in analogia con l’Arts and Crafts inglese, ma anche nel modo tipicamente semperiano di vedere gotico e neogotico come manifestazioni di un funzionalismo troppo rigido, cui contrapporre l’apertura ed il respiro dell’arte rinascimentale, corrispondente ad un atteggiamento cosmopolita e di una coscienza nazional liberale ( G. Semper , Der stil in den technischen und techtonischen Kunsten, 1863-69). Idee già in nuce negli anni di Dresda nei due compagni di rivoluzione, ma a cui sia Wagner che Semper diedero compiuta espressione negli anni ’60 alla vigilia del boom industriale tedesco. La Cronaca di Norimberga di Wagenseil, immancabilmente ricordata come nucleo genetico del libretto, catalizzò l’ispirazione di Wagner nel momento in cui nella cultura tedesca andava prendendo forma una concezione meno idilliaca del medioevo. Hans Sachs aveva portato la poesia fuori dalla cerchia ristretta dei Maestri, editando per primo i propri Lieder, ampliando la poesia alle tematiche della storia, alle favole, ma soprattutto incentrando la sua poetica su popolo e moralità, potendo così incarnare l’ambizione di Wagner a diventare artista di riferimento della nuova arte nazionale. Il gioco dei rimandi, delle allusioni e dei simboli, tutto ottocentesco nel continuo oscillare tra dimensione politica generale e vicenda personale, finisce appiattito nella produzione di Kupfer, che si accontenta di enunciare lo slogan sulla ricostruzione di una nuova Germania positiva ed il buon cittadino che si comporta eticamente. Per questo l’intero finale, dopo il quintetto, non funziona per nulla ed il regista rimane impigliato nel crudo realismo di una brutta sagra di paese, mentre l’orchestra affresca il quadro delle corporazioni che però in scena non esistono. I celebri versi finali di Sachs sulla patria tedesca che non si deve contaminare con i latini, suona in Kupfer un po’grottesco, come dicesse “ mo’ ci riproviamo!”, mentre è un momento assolutamente ottocentesco, quello della morale della favola: la celebrazione della conquistata unità nazionale dei principati protestanti, finalmente indipendenti dall’impero cattolico, coincide con l’affermazione del nuovo teatro musicale sul melodramma italiano, il rondò finale della megalomania wagneriana.
Detto ciò, ho apprezzato abbastanza la direzione del maestro Gatti, meno pesante e rozza di quella imbarazzante fatta sentire a Salzburg. L’orchestra della Scala non brilla in fatto di sound wagneriano ma ha suonato bene e forse l’amore del maestro per la lentezza in Wagner gioca a suo favore. Con Gatti abbiamo un direttore che, singolarmente, sortisce esiti catastrofici in Verdi ma funziona abbastanza in Wagner ( con i direttori di un tempo era più probabile il contrario ). Abbastanza, perché mancanza di tocco e lentezza non sono esattamente i corrispondenti della monumentalità e della poesia, soprattutto in un’opera come questa dove le dinamiche contrappuntistiche sono straordinariamente ricche ed articolate. Il clima solare, l’ironia e la precisione della descrizione orchestrale dei vari personaggi, inclusi quelli secondari, lo slancio che il nuovo, impersonato da Walther, porta in scena non sono stati compiutamente resi dal maestro milanese. Il terzo atto sembrava molto più ispirato dei due precedenti per l’afflato poetico e lirico, complice il compositore che affida proprio alla melodia il nuovo canto della musica nazionale tedesca (….). Sono mancati varietà ed ironia alla commedia diretta da Gatti, soprattutto laddove i singoli personaggi necessitavano di essere caratterizzati dall’orchestra come al primo atto. Del resto il cast era quello che era. Solo il signor Volle è un cantante primo, in grado di trovare accenti ed intenzioni, sebbene la voce non sia più quella di un tempo ed al terzo atto fosse visibilmente affaticato, talora anche in difficoltà. Ha dominato la scena trascinando con sé tutti i colleghi. Il signor Werba come Sixtus mi è sembrato elegante, molto curato e forse scenicamente fin troppo zelante: la sua non è voce da Wagner, ma comunque ci ha dispensato dalle pernacchie dei Beckmesser troppo caricaturali di certa tradizione, sebbene nel confronto con Sachs e con l’orchestra più volte sia stato coperto. Nota dolentissima il Walther del sostituto signor Caves. Senza di lui i Meistersinger non possono che essere zoppi. Ho assistito alla sua prima recita, seconda della produzione, e francamente non c’era nulla da sentire: voce piccola, fibrosa, acuti indietro, niente legato e problemi di intonazione. Il suo Preislied è stato un mezzo disastro, complice anche il maestro che insisteva con un tempo troppo largo per i mezzi di questo cantante. Nessuno di meglio era libero sul mercato? Molto meglio di lui ha fatto il signor Sohns come David, non senza problemi di intonazione qua e là, ma almeno con una voce decorosa. Monotono e senza intenzioni il Pogner di Dohmen, anche con un’emissione più raccolta e composta del solito: qualche maggiore sforzo ce lo avrebbe anche potuto regalare. Poco interessanti le donne, la Eva della sign. Wagner era passabile al terzo atto, mentre in precedenza pareva che la parte fosse troppo bassa. Avrebbe anche una parte con dei cantabili, un duetto con Walther, musica assai ispirata ma…la musica va’ anche ben cantata per essere bella…
In generale, la Scala ha offerto un cast dove la tendenza a parlare e a non coprire il suono pareva il leitmotiv tecnico di tutti questi signori, specializzati wagneriani perché parlanti ed inimmaginabili nell’applicazione al canto italiano. Il grandioso cimento di Wagner con la commedia, dove il comico non fa poi molto ridere e l’ironia non esiste ( ma vogliamo mettere questo libretto con una Pietra del Paragone, ad esempio?), col suo ipertrofico e poco teatrale primo atto, porta a casa il successo perché tanto tutti si sono dimenticati di come questa musica straordinaria penetrava le nostre orecchie quando eseguita dai Patzak, dalle Mueller, dai Proaska etc etc etc e diretta dai grandi come Furtwaengler. Felicissimi tutti i gattini che vorrebbero il loro idolo direttore stabile della Scala, dimentichi, mentre criticavano Santi, di quale peggior naufragio fu la Traviata del loro idolo. Del resto si sono trangugiati un’ Anna Bolena che andava avanti a suon di strilli e gorgoglii, giusto che siano stati molto felici di questa serata wagneriana alla milanese. A mio giudizio solo passabile.
Grazie per la bella ed equilibrata recensione.
Corrisponde totalemente all’impressione che ho avuto vedendo lo spettacolo, ma che non avrei saputo rendere con la sua stessa proprietà e competenza. Complimenti!
Forse sarei stato più cattivo nel giudizio sulla regia che ho trovato semplicemente brutta, oltre a non condividere il collegamento dell’opera di Wagner con i presupposti storico-ideologici che hanno ispirato il regista.
Ho visto lo spettacolo domenica e concordo pienamente, solo aggiungo alcune impressioni personalissime su cui si può tranquillamente dissentire: pur piacendomi la direzione di Gatti, mi è parso che l’orchestra tendesse spesso a coprire i cantanti (o forse colpa delle piccole voci…); Walther disastroso oltre ogni limite, compresa la stonatura al 3 atto; Eva (come detto sopra) accettabile al 3 atto ma davvero poca cosa nei primi due. La chiesa in questione mi è parsa la Kaiser-Wilhelm Gedächtniskirche di Berlino, piuttosto che una chiesa di Norimberga (giusto un dettaglio).
Gatti ha vissuto un processo di maturazione artistica notevole negli ultimi anni. Devo ammettere che anni fa non ero tra i suoi massimi estimatori. Dopo averlo sentito recentemente (Tristan und Isolde e il paradiso e la peri) lo considero a pieno titolo nel ristretto novero dei più grandi direttori in circolazione. Ora, probabilmente certe scelte nello stacco dei tempi si addicono più al repertorio tedesco che a quello verdiano. Tuttavia, diciamo pure che le sue direzioni non sono improvvisate: possono non incontrare il nostro favore ( effettivamente certo verdi è discutibile) , ma ci è un pensiero, una ricerca. Io credo che da questo punto di vista cammini mezzo metro sopra ad altri direttori, in primis Chailly, che forse suona bene in certo repertorio italiano, ma mi sembra uno che non ha veramente nulla da dire….
Saluti
….però il fatto che nell opera italiana faccia sfracelli non è mica poca cosa….
Diciamo che il fatto in sé non è grave. Piuttosto lo rende incompatibile con una posizione da direttore musicale della scala. Deve dirigere il “suo” repertorio e bisogna chiamarlo per fare soltanto quello. Però ti assicuro che questo anno a Roma è stato davvero strepitoso.