Per il secondo titolo della stagione 2017 del teatro felsineo verrebbe voglia di riciclare sic et simpliciter quanto scritto l’anno scorso per un Barbiere non meno deficitario e soprattutto per la proposizione pesarese di agosto, atteso che lì è nato l’allestimento e dal florido vivaio adriatico provengono, in massima parte, i solisti di canto, nonché il direttore, che salvo nostro errore è stato, per un periodo, bacchetta di fiducia del divo Florez. In fondo, a conferire al quadro anche le ultime pennellate di “colore locale” mancavano solo il direttore musicale del teatro, in ogni senso figlio della manifestazione marchigiana, e la di lui consorte. Peraltro il Turco bolognese avrebbe dovuto essere diretto da Alberto Zedda, scomparso nei giorni scorsi, cui la produzione è dedicata. Non è sicuramente la prima volta che lo scriviamo, ma a volte si rende migliore omaggio agli scomparsi con il silenzio e la discrezione.
Siccome non vogliamo si possa dire che quelli della Grisi sono pari in fantasia e inventiva ai signori che assemblano titoli e cast dei cartelloni teatrali, proviamo a fare qualche riflessione sul pezzo, scusandoci anticipatamente di eventuali ripetizioni, atteso che l’oggetto della riflessione, con i suoi pregi e i suoi limiti, sempre più evidenti con il passare del tempo, è per l’appunto sempre il medesimo.
È stato riproposto il solito patchwork di versioni (milanese con innesti della romana), e fin qui nulla di strano, non fosse che sfugge il senso di offrire al secondo tenore, messo alla corda da un paio di frasi negli ensemble, il pretesto per l’esibizione di suoni malfermi e di dubbia intonazione, che solo pochi anni fa avrebbero scatenato l’ilarità generale. Suscita stupore ritrovare Aya Wakizono, in predicato per una parte di vero contralto nella prossima estate pesarese, nei panni della comprimaria Zaida, certo il più sacrificato dei personaggi dal punto di vista delle occasioni vocali. In fondo era prassi comune, nell’Ottocento, che la primadonna musico si sostituisse al tenore contraltino nelle parti di amoroso, di preferenza sfortunato in amore. Ma anche qui, come per Albazar, bastano frasi come “Hanno tutti il cor contento” all’introduzione, il duettino con Selim al finale primo e il quintetto della festa per notare come della primadonna rossiniana (poco importa se contralto o mezzo acuto) la signora abbia ben poco. Caratteristica che contraddistingue peraltro anche la protagonista, Hasmik Torosyan, la quale induce a rimpiangere l’onesto mestiere di una Graziella Sciutti, non solo, ma soprattutto l’oggettiva e prudente capacità di giudizio di quei concertatori che, di fronte a una Fiorilla formato soubrette, cassavano senza tanti complimenti la grande scena del secondo atto. Siccome la Torosyan canta seguendo il modello proposto dalla Fiorilla pesarese ultima scorsa, il naufragio nella coloratura prevista e parcamente rimpolpata di “Squallida veste e bruna” è scontato, così come lo è l’assenza del carattere ora piccante, ora malioso del personaggio, qui “condito via” con suoni aperti al centro, sguaiati nel registro medio acuto, incapacità di legare all’entrata al fnale primo (uno di quei momenti, assieme appunto alla grande aria, in cui Rossini direttamente omaggia l’estro drammatico di Francesca Maffei Festa e indirettamente di tutte le grandi interpreti che si sono entusiasticamente impadronite della capricciosa consorte di don Geronio).
Tra le voci gravi, accanto al pallido Selim di Simone Alberghini (di voce precocemente senescente e claudicante nei melismi) e al Geronio non meno usurato di Nicola Alaimo (davvero scarso il volume alla sortita, passata senza un solo applauso al pari della cavatina di Fiorilla, e per tutto il primo atto, un po’ più presente al duetto con Selim e soprattutto nell’aria del catalogo, nonostante la fatica del sillabato, di nuovo evanescente alla scena della festa), spicca facilmente il Poeta di Alfonso Antoniozzi. Spicca soprattutto perché, a differenza dei compagni di avventura, la voce si ode sempre e risulta, nel contesto, persino importante. Peccato che si assista più a una declamazione intonata (tipo Sprechgesang, per intenderci) che non a un saggio di canto lirico. L’anziano Stabile, vocalmente al capolinea, cantava sempre e soprattutto riusciva a legare i suoni, conferendo al personaggio, sornione burattinaio della vicenda, autentica autorevolezza.
Fra tanto duolo, qualche nota positiva dal primo tenore, Maxim Mironov, che la felliniana (…) regia tramuta in giovane prete. I problemi sono quelli di sempre (voce di timbro comune e limitata ampiezza, suoni sistematicamente eunucoidi nel registro medio-alto), ma il tutto viene gestito con sufficiente intelligenza e musicalità, tanto da cattivare al solista caldi applausi al termine di entrambi i numeri solistici. Musicalità che sembra invece un mistero poco glorioso per Christopher Franklin, abbastanza preciso nell’ouverture (in cui peraltro non sono mancati i clangori di prammatica in luogo di crescendo), assai meno nel coordinare solisti e orchestra in passi come il terzetto “Un marito scimunito”, la chiusa del quartetto atto primo, il primo finale e la citata scena della festa. Molto discutibili anche alcune scelte di tempo, non ultime quelle che riguardano la grande scena della primadonna, staccata con andamento letargico, forse per favorire una solista in evidente difficoltà con la scrittura fiorita, ma che ha finito per restarci, come suol dirsi, in mezzo.