La riproposta de La Wally di Catalani, coprodotta dal Comunale di Piacenza con i teatri di Modena, Reggio e Lucca, si inserisce nella recente sensibilizzazione per la cosiddetta “Musica proibita”, cui largo spazio abbiamo dedicato negli anni scorsi. Bandita dai cartelloni importanti come da quelli secondari a causa dell’ideologico atteggiamento di alcuni direttori d’orchestra italiani e non solo, perché tacciata, in sintonia con una certa musicologia, di provincialismo e scarsa intellettualità era titolo di repertorio in cui, al contrario, la tradizione direttoriale italiana da Campanini ( Storchio, De Marchi, Pini Corsi, Gaudio, Stracciari, 1905, Scala ) e Toscanini ( Burzio, Calleja, Amato, De Angelis 1907, Scala ) in giù amava cimentarsi con passione. Questa tradizione, attraverso i più rilevanti nomi della scuola direttoriale italiana come Panizza, Santini (Caniglia, Lauri Volpi, Tagliabue , 1943, Scala), De Sabata ( era lui il designato per l’edizione scaligera con la Tebaldi ma diede forfait per motivi di salute ), sino a Molinari Pradelli, Cleva, si è cimentata a vario livello nel secolo scorso sui palcoscenici italiani e americani soprattutto. La scomparsa recente di Bruno Bartoletti, e prima ancora di Gianadrea Gavazzeni, ha messo la parola fine ad una tradizione esecutiva tanto che teatri importanti come La Scala hanno finito per perdere infinite occasioni per eseguire, ad alto livello, un Catalani avendo a disposizione la Freni, la Chiara, la Dimitrova, la Caballè, la Kabavanska etc. Nell’ultimo tentennio del novecento ad ascoltare Catalani ci si recava in provincia per assistere al debutto dell’ultima indiscussa regina della Musica proibita, la sessantaduenne Magda Olivero in quel di Bergamo ( era il 1972 ), oppure ci si rivolgeva alla sua stupenda emula, Raina Kabaivanska, nei teatri emiliani, diretta da Veltri, altro membro del club direttoriale italiano di cui sopra, oppure…. niente.
Oggi tentiamo di rimediare a questa stortura culturale, ma il punto è proprio quello cui vi accennavo prima, a chi affidare operazioni complesse e difficili di direzione e concertazione, oltre che di canto, come questa. E’ inutile parlare dell’amore, della stima professionale oltre che dell’amicizia di Toscanini per Catalani e La Wally in particolare, citando i nomi dati ai figli dal maestro, le occasioni in cui Toscanini eseguì opere del compositore toscano ed altre curiosità che la moderna comunicazione poi sfrutta e consuma al mero fine di reclamizzare il prodotto teatrale contemporaneo, quando i contenuti di quella tradizione, la perfetta consapevolezza e competenza di quei direttori e di quelle interpreti, non riaffiorano nella proposta messa in campo. Perché la Olivero o la Kabaivanska o i Gavazzeni e i Bartoletti avevano gli strumenti professionali, il sistema dei rimandi e le chiavi dell’interpretazione per stare con la Storchio e la Muzio, con Campanini o Toscanini, ognuno essendo se stesso e facendo ciò che era nei propri mezzi. Oggi tutto questo sapere è perduto, tanto che ci accontentiamo che la riproposizione di un‘opera desueta si esaurisca nella mera proposta del titolo come dimostra il grande successo di questa Wally, nella resa musicale molto distante, a mio avviso, dalla sua essenza, anzi, a tratti persino irriconoscibile rispetto a qualunque documentazione fonografica ciascuno di noi possegga. Non abbiamo sentito chiaramente espressi dalla direzione e concertazione d’orchestra prodotta dal maestro Ivan Ciampa la fondamentale dualità dell’opera, quella contrapposizione che ben descrive proprio Giuseppe Segantini, tra natura, in Catalani trasfigurata, potente, panica e divina, bellissima e spaventosa al tempo stesso, e realismo della vicenda umana, quella della piccola Wally, della sua solitudine, dell’amore dapprima non corrisposto, del bacio, dell folcklore che riecheggia nello jodel di Walter come nel canto corale dei compaesani, dualismo che è l’essenza, venata di decadentismo, dell’opera come della pittura contemporanea a Catalani, più volte ricordata dai comunicatori, che non hanno mancato di citare il ritratto del musicista di Tranquillo Cremona. Esattamente un anno dopo la prima di Wally, nello scritto Sentimento e natura, Segantini affermava quanto Catalani aveva già messo in musica: “ …la natura [..] suscita il sentimento del contemplante allorquando le sue forme perdono i limiti dei contorni ed i colori si fondo sicchè essa perde ogni realtà precisa lasciando in chi guarda il pensiero libero ad ogni interpretazione, secondando il sentimento che si espande. Giacchè il sentimento non risiede nella natura ma nell’animo nostro, in date condizioni..”, ossia la natura come specchio del sentire umano.
La montagna interiore di Catalani è perfettamente descritta, spaventosa come nell’epopea tedesca delle raffigurazioni alpine, immagine sonora trasfigurata dal compositore, che ci fa sentire, con la musica, le luci abbaglianti delle grandi altezze, la solitudine di chi attraversa un paesaggio sterminato e deserto, la durezza spietata delle pareti incombenti, insomma la natura che alla fine della vicenda spazza via l’uomo. C’è una componente decadente, a tratti simbolista, nel personaggio della protagonista di cui Catalani tenta, appunto, la trasfigurazione: nella grande scena che chiude il primo atto l’evocazione nostalgica e dolorosa dell’esilio produce un’immagine in cui Wally si fonde con la natura e non è un caso che il motivo ritorni al terzo e quarto atto, quando la vicenda si compie tra i ghiacci. Io credo che per questo Wally fosse tanto amata dai grandi direttori che vi vedevano non tanto il wagnerismo di cui Catalani venne tacciato dai contemporanei, ma l’immagine divisionista della natura che percorre l’opera e la aggancia a certa musica francese oltre che tedesca. Era la visione della natura uscita della Triennale di Brera proprio nel 1891, contemporaneamente alla scrittura di Wally, quando il Divisionismo italiano spinto da Vittore De Grubicy venne ufficialmente presentato al pubblico. Il preludio al 4° atto, tanto per esemplificare, è l’abbagliante visione delle cime coperte dai ghiacciai, una potente ed edonistica descrizione della montagna che termina in modo quasi spaventoso, non quel risottino informe ed incolore, ora senza suono e senza forza ora chiassoso e rumoroso, udito l’altra sera a teatro da parte del maestro Ciampa con un’orchestra non all’altezza del compito. E’ indubbio che l’opera sia alterna e che l’elemento coloristico della vita alpina, ossia tutto ciò che accompagna il canto corale dei compaesani, sia difficile da restituire mantenendo la medesima tensione evocativa delle restanti parti dell’opera. La Wally contiene, però, anche numerosi episodi di grande lirismo e cantabilità che l’orchestra prima di tutto non ha saputo rendere: penso al canto amoroso, legato e suadente del baritono, con la sua dichiarazione d’amore del 1° atto; al duetto d’amore finale, con il canto di Hagenbach; la dolce canzone di Walter fuori scena che introduce l’ultimo atto e, soprattutto, all’intero canto di Wally, ora suggestivo, ora dolce, ora angosciato. La varietà espressiva delle grandi interpreti del ruolo non fu esclusiva invenzione di una diva, bensì del compositore. Se tutto questo viene spazzato via da un direttore che non sa bene quale sia la cifra di questa musica e che, conseguentemente, non suggerisce nulla agli interpreti, che hanno poche o nulle intenzioni di fraseggio, è chiaro che l’opera non può convincere. Le perplessità che ho sentito in vari spettatori mi sono parse legittime, di fronte ad una protagonista dalla voce spessa che, del tutto priva di dolcezza e di quel lirismo che la tradizione esecutiva è andata a cercare nelle Storchio fino alle Tebaldi, ha esibito limitate capacità di legato, men che meno di piegare la voce ai pianissimi, per tentare di rendere il suo personaggio meno muscolare e duro, più lirico o addirittura trasognato, come sarebbe almeno al primo atto, dove le continue prese di fiato hanno rotto l’eleganza della linea di canto. Non erano preconcetti i timori di Catalani che la Darclée, creatrice del ruolo, potesse risultare eccessivamente statica e monocorde. Soprano molto avvenente, dalla voce bellissima, ma molto importante, la Darcée era molto celebre per le sue prove belcantistiche ed il fraseggio aulico e distaccato: non a caso aveva debuttato a Milano con Tannhauser. Seppe poi risolvere il personaggio di Wally incontrando il volere del compositore e risolvendo il personaggio interamente sul piano lirico tramite una dinamica espressiva languida e molto sfumata, perchè era una grandissima cantante in grado di piegare lo strumento ai nuovi modi espressivi. Le prerogative del canto della prima interprete sono completamente mancate alla Wally della Saioa Hernandez. Quando poi alla protagonista spettano alcune frasi vigorose, che spesso passano per la prima ottava, le difficoltà nell’uso della voce di petto, prerogativa della primadonna tra otto e novecento, hanno fatto il resto. Non parliamo del protagonista maschile, che più che i fasti di Del Monaco, anche quello crepuscolare della registrazione ufficiale, ha rinverdito quelli di Tarzan, urlando a più non posso tutta l’opera: mancavano l’albero e la mano a lato della bocca ! Passi per certe frasi difficili della scena del II atto o del duetto finale, ma almeno il canto amoroso poteva tentare di risolverlo diversamente, non “ringhiando” come al duetto finale con la povera Wally. Inutile cercare di convincere il pubblico perplesso che sarebbe colpa della parte e non del tenore, come ho assistito nel foyer del Valli, perché potremmo fare esempi migliori di Giuseppe esemplificando con tenori qualunque, come il Michael Sylvester di Bregenz, per smentire queste affermazioni. Davvero inaudito. Un filo meno peggio ma sempre fuori di stile Claudio Sgura nella parte di Gellner, bello da vedere, ma che ha sempre una emissione gutturale e tanta difficoltà a legare, suonando così più truculento ed aggressivo di quanto vorrebbe realizzare, perlomeno stando alle intenzioni che si percepivano qua e là. Meglio di tutti Serena Gamberoni, cui è riuscita la canzone di Walter, eseguita con allegro piglio giovanile, anche se, a dirla tutta, i piani le sono tutti puntualmente caduti sui piedi, senza suono, perché anche lei, come tutti i suoi colleghi, canta “spingendo” e non sostenendo la voce.
Lo spettacolo di Nicola Berloffa, fedele al libretto, funziona diversamente dalla parte musicale, perché riesce a rendere climi e narrazione, pur senza spingersi mai a tentare di imporre la presenza dell’elemento naturalistico e la sua trasfigurazione sulla narrazione della vicenda. Tutto funziona e sorregge lo spettatore nella comprensione dell’azione, ma, come detto, il problema della produzione era altrove, ovvero nella parte musicale.
In conclusione, ritengo che la direzione artistica di Piacenza anziché ricorrere sempre alle proposte dell’agenzia che lì va per la maggiore, sarebbe dovuta partire dalla ricerca ( difficile) di un direttore d’orchestra diverso per le ragioni di cui sopra, quindi pensare ad altra e diversa protagonista rispetto a quella originariamente prescelta o a quella rimediata, in grado di cantare al centro con dinamica e lirismo, per portare in porto un’operazione realmente meritoria. In difetto, nessuna riscoperta, ma solo una proposta che non ha reso molta giustizia a Catalani.
Per la direzione d’orchestra di P. Steinberg
Della Wally bergamasca con la Olivero esistono dei frammenti che sono stati riportati in calce al doppio cd Gala contenente la Siberia di Giordano diretta da Belardinelli ed eseguita dalla Maragliano e da Zambon.
per fortuna la Wally della MAdga c’è tutta, pure sul tubo!!!! FOrse qualcuni dira per sfortuna perchè è uno di quei confronti insostenibili o quasi!
Vista e sentita al Municipale di Piacenza. Complimenti alla sig.ra Grisi. La recensione è perfetta. Come tutti noi melomani vorremmo sentire e vedere la Wally. Ma, dato i tempi che corrono, mi sento di dire che questa Wally è dignitosa sia in fatto di visione che di ascolto. Le perplessità sono venute ovviamente anche a noi melomani presenti e le condivido. Ma penso che anche gli applausi quasi “trionfali” alla fine dell’opera fossero più indirizzati ad uno spettacolo finalmente degno della lirica piuttosto che acclamare un vero e proprio “trionfo” nel senso stretto della parola. Per quello è tutto rimandato a quando non si sa.
….credo che già con una bacchetta diversa avremmo avuto uno spettacolo nettamente convincente pur coi medesimi cantanti.
Buongiorno Sig.ra Grisi,
grazie mille per il bell’articolo. Purtroppo, ho potuto leggerlo solo ora. Non sono d’accordo su tutto. Quello che posso dire è che quest’opera mi ha letteralmente stregato. E sono convinto che recuperare titolo così ingiustamente caduti nel dimenticatoio rappresenta una buona occasione per farmi conoscere e rendere “giustizia” ai compositori in questione. Ci vuole coraggio e si fa quello che si può con ciò che si ha a disposizione. Chissà che un giorno non potremo assistere a questo titolo alla Scala…