E dopo i peana della critica, scandolezzata per l’arretratezza socioculturale del pubblico italiano, che si permette di dubitare della panacea costituita dal cosiddetto teatro di regia, la mesta realtà dell’esecuzione teatrale, in una pomeridiana in cui la platea della Fenice, densamente popolata all’inizio, è andata svuotandosi con il trascorrere del tempo, così come il pubblico è sembrato scivolare lentamente nell’apatia: salutata da parchi fischi la conclusione del primo atto, applausi non più che di circostanza al finale secondo, fino al consenso, franco ma non esattamente travolgente, a spettacolo ultimato. Merito, in eguale misura, di regia e bacchetta. Il dirompente (sulla carta dei comunicati stampa e degli articoli, che da quel genere letterario traggono ispirazione) allestimento di Calixto Bieito è il nulla dilatato per tre ore e un quarto: zero idee, scarsa coerenza e abborracciata realizzazione. Soprattutto, banalizzazione e anestesia di quei contrasti che dell’opera romantica di Wagner sono l’essenza stessa. Il grandioso “ritratto d’artista”, il tributo al Medioevo germanico tra slancio della fede cristiana e nostalgia del paganesimo, il dualismo perenne quanto enigmatico fra la sensualità sfrenata e il desiderio ardente proprio perché inappagato: di tutto questo rimane, nella regia dello spagnolo, a malapena il contrasto fra il Venusberg (qui una foresta, che ricorda quella proposta, con ben altre suggestioni almeno visive, da Romeo Castellucci nel primo atto del “suo” Parsifal) e la Wartburg (la solita struttura prefabbricata, che nel terzo atto degenera in discarica abusiva), nonché quello, se possibile ancora più trito, fra la “santa” Elisabetta (abbigliata, come tutta la corte, in stile Oviesse, con sottoveste e scarpe di vernice da pomeriggio al circolo) e la “vacca” Venere (una sorta di junkie, anch’ella in sottoveste, scelta che ben poco si confà al fisico, diciamo un po’ robusto almeno nella parte inferiore del corpo, della cantante scritturata per l’occasione). La regia si delinea fin da subito come una collezione di atti mancati: il baccanale è di fatto omesso, le torride evoluzioni di ninfe, satiri e altre creature fantastiche mancando del tutto a favore dei vagabondaggi boscherecci della ninfa Venere, che ingaggia successivamente con il suo cantore (in tuta da ginnastica) una schermaglia pseudoerotica a base di palpeggiamenti così grevi, e simulati così male, che finiscono per evocare non una sensualità sfrenata e ancestrale, bensì il più trito repertorio dei film cochon anni Settanta, da “Giovannona Coscialunga” a “La dottoressa alle grandi manovre”. Non va meglio con l’evocazione del mondo dei trovatori, dipinti come un’accolita di fanatici che, prima della tenzone, si denudano (anche qui, ben poco di piacevole viene rivelato al pubblico) per cospargersi di vernice rossa. Nella “felice stanza” in cui si svolge la competizione, gli amanti cantano la gioia del nuovo incontro stando a svariati metri di distanza l’uno dall’altra e senza guardarsi in faccia, i cantori si sfidano palpeggiando, ancora una volta, le gentili signore presenti fra il pubblico e finiscono per mimare un maldestro stupro di gruppo ai danni di Elisabetta, che giustamente li prende a calci nelle parti basse (anche qui, si voleva evocare un mondo di fascinoso degrado alla “Eyes wide shut” e si è finiti in zona “Benny Hill”). Il terzo atto si caratterizza per l’immagine dei pellegrini che tornano da Roma avanzando more ferarum, mentre la santa eroina (quasi accoppata da Wolfram nella prima scena) non muore, ma avanza al proscenio, condividendo con Venere (presente in scena fino all’ultimo, a dispetto del libretto e del buonsenso) una postura differente da quella di tutti gli altri personaggi. C’è davvero bisogno di evidenziare che la donna, oppressa da una società patriarcale e maschilista, non merita un simile trattamento? E soprattutto: che cosa c’entra tutto questo con Tannhäuser? Non un gesto, non una soluzione visiva capaci di raccontare anche solo un aspetto del mondo poetico e musicale dell’autore: un allestimento buono (o meglio, pessimo) per ogni opera, come il pitale evocato da un celebre proverbio. Ben poche soddisfazioni regala la direzione e soprattutto la concertazione di Omer Meir Wellber (al suo primo impegno in un titolo wagneriano): se non replica gli autentici disastri prodotti nel repertorio italiano (Tosca e, più ancora, Aida e Trovatore), fatica non poco a reggere le fila di una partitura così complessa sotto ogni punto di vista, pasticciando i momenti di maggiore concitazione (chiusa del baccanale, finale primo, conclusione dell’opera) e quelli in cui è richiesta una certa solennità, qui ridotta a sbrigativo fragore (entrata degli ospiti al secondo atto, finale del quadro della tenzone). Il vero e autentico limite della lettura di Wellber è che si tratta per l’appunto di una semplice lettura: in Tannhäuser non basta eseguire (o meglio, barcamenarsi nell’esecuzione), ma occorre descrivere, trovare atmosfere capaci di restituire, ad esempio, il passaggio dal mondo ipogeo di Venere all’orizzonte bucolico della canzone del pastorello, quello dalla scena degli amanti al secondo atto all’ingresso, pomposo quanto fantastico, della corte, il progredire lento e inarrestabile della tenzone canora verso una violenza (che non è quella carnale, a dispetto di quello che pensa il signor regista) destinata a sfociare nella sofferta perorazione di Elisabetta, e ancora, nel terzo atto (il più complesso sotto questo punto di vista), la malinconia struggente della preghiera e della scena di Wolfram, il dolore senza rimedio del racconto di Tannhäuser e la sublime esaltazione del finale. Dalla buca non è venuto nulla di tutto questo, e basta ascoltare il baccanale composto, educato, agreste di Venezia e paragonarlo a uno di quelli che proponiamo in appendice per rendersi conto dell’abisso che separa il giovane direttore (assurto al rango di star, ma di fatto promessa ormai più che quinquennale del podio) dalla grande scuola (altri, confusamente, direbbe: ortodossia) wagneriana. Costretti a muoversi come automi o, più spesso, come dementi, ben poco sostenuti e guidati dal golfo mistico, i cantanti facevano quel poco che le loro modeste possibilità consentivano di esprimere. Applausi a prescindere a Paul McNamara, che dopo la defezione di Stefan Vinke (che ha cantato solo la prima rappresentazione) ha sostenuto l’onere dell’intero ciclo di recite, ma la voce, timbricamente più adatta a un Loge che non all’eroico cantore, ha scarsa espansione, accusa difficoltà in zona medio-alta e risulta, con il progredire della recita, sempre meno sonora, fino a sparire, inghiottita dall’orchestra, nelle fasi finali della disfida e nel monologo dell’ultimo atto. Scarse soddisfazioni anche dal folto gruppo dei trovatori, in cui spicca Christoph Pohl quale Wolfram, il solo ad avere un poco di volume (l’ampleur e soprattutto il fraseggio, nobile e ardente, che spetterebbe al personaggio gli sono estranei): anche lui arriva alla fine della parte (ossia alla grande romanza) in letterale debito d’ossigeno e fatica a mantenere l’intonazione. Elisabetta, Liene Kinca, sarebbe una passabile Mimì in provincia: discreto il giro della voce al centro, sistematico il grido nelle frasi più acute e drammatiche del finale secondo, mentre la preghiera è risolta, se non altro, con apprezzabile controllo e castigatezza d’accento (nonostante la regia, che in questa scena descrive la nipote del Langravio, di fatto, come una menomata psichica). Non ci sono parole per descrivere lo sfacelo della Venere di Ausrine Stundyte, il solito soprano lirico che malamente boccheggia nella zona grave della tessitura e risolve le invettive della dea innamorata e offesa a furia di suoni gutturali e striduli. Buona la prestazione del Coro del Teatro, assai meno quella delle voci bianche cui sono affidate le parti del pastorello e dei paggi: davvero in questi casi non si comprende come mai non si sia fatto ricorso alle ben più salde voci femminili del coro.
7 pensieri su “Tannhäuser a Venezia: tra anestesia e pubblicità ingannevole.”
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insomma tradotto in donzellese “una insopportabile trippa”
Perché offendere una cosa tanto sublime? Parlo della trippa, ovviamente…
Ma Benny Hill è meglio di Bieito! Molto più divertente e raffinato.
Quanto ad Omer Meir Wellber ricordo sempre con orrore un’Aida scaligera radiotrasmessa in cui ascoltai il solo terzo atto. Di più non reggevo. E per fortuna me ne ero persi i primi due! Mai sentito dirigere Aida così male. Giustamente Tamburini la ricorda come un vero disastro.
Altro che disastro…un acchiappamosche. Volli vedere quell’Aida solo per le scene e i costumi della De Nobili….per il resto c’era da tapparsi le orecchie
e no signori altra e peggio diretta Aida ha avuto la scala in tempi recenti ossia quella di baremboim… finì a fischi
non so se in questi anni in scala sia stata più mal messa tosca o aida
Si battono bene tutte e due…..avevo sentito anche quella di Barenboim (avevo rimosso)….e non mi entusiasmó…ma di quella Aida ho ben presente INDELEBILE ricordo della prima scena del quarto atto…..Smirnova come Amneris……aiutooooooo