Voglio credere, certo, però, di illudermi che coloro i quali si sono ora sdilinquiti ora esaltati per l’esecuzione bavarese di Semiramide, radiotrasmessa ieri sera, fosse la prima volta che ascoltassero il capolavoro rossiniano.
Semiramide così come offerta ieri sera è la più completa declinazione della condizione fallimentare del canto rossiniano al giorno d’oggi. Canto rossiniano che è stato, con la poetica del maestro pesarese, pre romantica e neoclassica nel contempo, l’ultima e più esaltante stagione del melodramma. Stagione durata un ventennio scarso e di cui oggi restano le rovine, maldestramente sfruttate a fini commerciali, contrabbandando produzioni come questa di Semiramide per l’autentica interpretazione ed esecuzione.
Le prime storture vengono proprio dalla bacchetta sulla quale leggo e sento da altri solo peana e per parte mia provo noia e fastidio. Mariotti junior (tutti sanno che è il figlio di Gianfranco Mariotti sovrintendente del festival, dove il figlio dirige dal 2010) crede che il Rossini tragico consista solo in clangori di banda, tempi meccanicamente scanditi, nessun abbandono, uso arbitrario delle edizioni critiche presentate dall’altro fondatore del festival Alberto Zedda come la lucerna per una seria esecuzione. Qui abbiano una lucertola!
Purtroppo l’edizione critica spiega perché la nota sia minima e non semiminima, perché l’ornamentazione in partitura sia una acciaccatura e non un trillo, non spiega, però, all’insipiente concertatore come si effettuino i tagli. Sicché oltre ai clangori orchestrali da banda abbiamo sentito tagli maccheronici come la soppressione del da capo di “Trema il tempio” (precedenti anno 1961 da Santini in Scala e poi nel settembre scorso a Firenze da Antony Walker, poi riprovato dal pubblico), la soppressione dell’aria di Idreno all’atto primo. Eppure oltre alle scritture autografe esistono anche scritture non autografe, ma coeve che comprovano come si eseguissero quei titoli ed insegnano che i tagli erano di numeri, molto raramente di sezioni di un singolo numero. In Semiramide desterà stupore che uno dei numeri più sacrificati nell’800 fosse il duettino “Alle più care immagini” per sollevare dal peso di un’ora e più di presenza in scena la protagonista, sulle cui spalle pesa l’intero finale primo. E, poi, non è concertare uno spettacolo, ossia dargli unità stilistica, dove si eseguono trasporti, alcuni tutt’altro che esaltanti specie ad opera della protagonista, omettendo, alla fine della famosa barcarola “Giorno d’orror”, qualsiasi cadenza. Nessuno richiede uno dei fastosi reperti delle sorelle Marchisio, ben codificati e apprezzati da Rossini, ma la cadenza è un dovere irrinunciabile per rispettare lo stile del tempo.
Quanto ai cantanti sono a parte lo stato di decozione esattamente uguali, cantano con voci dure e fibrose, con palesi limitazioni nelle zone estreme della voce, che suonano aperte e spinte in basso, forzate e dure in alto, abborracciano i passi di agilità, spacciano per variazioni dei da capo semplificazioni, non sanno cosa significhi legare e cantare con morbidezza sia gli andanti che i passi di agilità. Poi solo chi non ha mai ascoltato una Semiramide cantata professionalmente può esaltarsi per il centro svuotato di Daniela Barcellona, ormai esausta che ripropone, lei vera voce di mezzo soprano, le varianti di un mezzo acuto come la Dupuy perché il centro non esiste più, dei parlati di Alex Esposito, (recitativo di Assur al finale) che sono da basso parlante e non basso cantante o dei trasporti verso l’alto di una protagonista, sedicente mezzo soprano, spacciata per nuova Colbran.
Mi fermo nella lamentela sui tre protagonisti che sono, mi ripeto, l’immagine del canto antirossiniano di oggi venduto per canto rossiniano. Da sempre si parla di Isabella Colbran come di un mezzo acuto e quindi esplode la ricerca spasmodica di un mezzo acuto per quelle parti. Vogliamo parlare di urla e trasporti di una Ganassi (Elisabetta ed Ermione), di una Aldrich (Zelmira) ed ora dei suoni buchi, mal sostenuti e dall’accento plebeo e verista della di Donato, un tempo decorosa Cenerentola e per contro vogliamo ascoltare il suono rotondo, morbido, ampio del reperto archeologico di Giannina Russ o di Celestina Bonisegna nel ruolo di Semiramide o del suono sempre a fuoco ora mordente, ora insinuante della giovanissima Maria Callas. Eppure la Callas, la Boninsegna e la Russ, come nell’800 le grandi Semiramide Grisi, Boccabadati, Ronzi erano soprani e soprano era pure, a fugare ogni dubbio, Giuditta Pasta, che nel ruolo contraltile di Tancredi trasportava di terze e che scriveva a Rossini, senza gir di parole, che mai avrebbe cantato, pur trasportato, Arsace. Solo che i nostri cacciatori di novelle Colbran dimenticano che il gusto rossiniano fosse estraneo a suoni che apparissero spinti, forzati, innaturali e non consentissero o compromettessero la possibilità di flettere, sempre e comunque, la voce soprattutto negli andanti e di cantare senza peso e con fluidità assoluta i passi fioriti e di declamare i recitativi senza che nulla potesse somigliare al parlato (ben praticato dalla signora di Donato). Appena i compositori romantici alzarono per tenori e soprani le tessiture, i maestri di canto, i critici parlarono di suoni forzati e duri, di incapacità a modulare perché quel cantare una terza sopra impediva i suoni delle Colbran e delle Bassi e dei Filippo Galli. Solo questo: quei cantanti sapevano bene che si cantava al centro della voce e con il centro della voce si esprimeva e si costruiva il personaggio.
Ieri sul face del Corriere abbiamo proposto un pezzo del “bel raggio” di Rosalia Chalia, che credo sia la prima registrazione della cavatina di Semiramide, ci è stato detto che ascoltiamo solo quei loculi, quei funebri reperti. Sbagliato e superficiale: quei reperti ci dicono altro, ovvero che solo quel suono sempre alto di posizione, sempre sostenuto sul fiato, sempre esente da forzature e da fibrosità consente di cantare senza fatica ovvero consente di essere interpreti di Rossini. In difetto si tradisce Rossini. Gli ascolti rossiniani ed a 78 giri (tanto per non offrire sempre i soliti signori di cui siamo ritenuti gli adoratori) testimoniano suoni leggeri, sonori ed ampi sia nei tempi veloci che in quelli lenti. Basta cantare con il centro al suo posto, ben sostenuto e la caccia al mezzo acuto Colbran piuttosto che al contralto stile Pisaroni si rivelerà uno specchio per allodole.
4 pensieri su “Sorella radio: Semiramide da Monaco, ripartire dal centro della voce.”
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Quale sarebbe l’uso arbitrario dell’edizione critica? L’edizione (critica), va usata PUNTO, perché riporta un testo corretto e, in molti casi, numeri e brani alternativi (non Semiramide che non ha conosciuto revisioni e alterazioni d’autore). Quanto ai tagli di Mariotti trovo scandaloso vengano fatti! In un’esecuzione spacciata come “epocale” da molto su internet (che evidentemente hanno ascoltato l’opera sotto effetto di sostanze)…
Esecuzione di una pochezza imbarazzante: tre protagonisti bolliti adatti ormai a cantare ruoli di contorno (suggerisco Flora per la Joyce, Giovanna nel Rigoletto per la Barcellona e Ambrogio nel Barbiere per Esposito) e un tenore pallido e mignon che, però, è comunque migliore degli altri. Mariotti questa volta non fa danni (a parte i tagli discutibili), ma conferma che ha un dono nel trasformare ogni opera in un minestrone diluito e insapore. E il pubblico applaude parlando anche di ripristini di tonalità originali (!!!)…
Non ho ancora ascoltato questa Semiramide. Forse guarderò la diretta streaming. Non voglio quindi mettermi a difendere Mariotti, cha sinceramente non stimo un granchè. Però va detto che, soprattutto in Germania, i tagli li decide il regista e il direttore d’ orchestra non ha voce in capitolo su questo punto. Sapevatelo
ma il taglio di un da capo precisamente trema il tempio quando fai ad esempio “si vendicato il genitore” credo sia una scelta direttoriale