Mariss Jansons torna alla Scala: dopo la Settima di Šostakovič (con la BRSO) e la monumentale Terza di Mahler (con i Wiener Philharmoniker), è la volta della Nona Sinfonia, estremo capolavoro del compositore boemo e suo testamento musicale – salvo il frammento completato della Decima. Torna con un concerto straordinario che ha tenuto inchiodato alla sedia un pubblico straordinariamente numeroso (il teatro era quasi pieno e accade di rado con la sinfonica, soprattutto se si tratta di una domenicale pomeridiana), attento e ammaliato da quanto sentiva. Già, perché non è tanto frequente, soprattutto a Milano, ascoltare un tale livello esecutivo e interpretativo. La Nona, dicevo, è l’estremo capolavoro di Mahler: l’ultima sinfonia che riuscì ad ultimare (della Decima rimane compiuto il solo Adagio iniziale e quasi l’intero secondo movimento, lasciando gli altri in stadi incompleti e mancando del tutto una revisione finale), ma che non riuscì mai ad ascoltare, dato che fu eseguita per la prima volta nel giugno del 1912, a Vienna, diretta da Bruno Walter, un anno dopo la sua morte. E’ un lavoro complesso e, in un certo senso, atipico: il compositore vi mise mano in un periodo molto triste della sua esistenza, dopo la morte della sua amata figlia Maria Anna e prossimo a lasciare la sua Vienna. Ma fu anche un periodo di nuove speranze e ritrovata energia che convivono con il senso di commiato intrinseco alla composizione. Eppure nell’architettura musicale della sinfonia il dolore pare filtrato attraverso l’accettazione del proprio destino ed una rassegnazione che diventa ricordo, malinconia, nostalgia, senza mai trasformarsi in rabbia o rimpianto. Un vero “testamento” musicale che non possiede i tratti dell’inquietudine o del titanismo vitalistico di sue altre composizioni orchestrali, ma che piuttosto porta a riflessioni intime e ad uno sguardo malinconico alla propria vita. Perfetta, in questo senso, la lettura di Jansons che, potendo contare su di uno strumento eccezionale come la compagine bavarese (ad oggi, forse, la migliore orchestra europea) dipinge un quadro di morbidezze e sfumature, porgendo un suono ricco, caldo, vibrante (cosa sono gli archi all’inizio dell’adagio conclusivo…o la perfezione degli ottoni nei movimenti centrali o quei tromboni che irrompono con dolcezza nel climax del finale…). Il primo movimento, dunque si sviluppa in un grande crescendo, dall’esitazione iniziale, con il ritmo sincopato, quasi un battito cardiaco (come suggeriva Bernstein) su cui si innesta il tema annunciato dalle arpe per poi crescere, espandersi, contrarsi in un virtuosismo che lascia l’ascoltatore col fiato sospeso. I due movimenti centrali sono resi in una perfezione mai ascoltata dal vivo: precisione mai fine a sé stessa, ma gioco tra danze, variazioni che richiamano una parodia agrodolce di folklore. Infine l’Adagio conclusivo, uno dei vertici assoluti della musica mahleriana (e non solo): un elegia smisurata che dai soli archi iniziali (indimenticabile il suono prodotto dall’orchestra di Jansons) si conclude spegnendosi in poche note e particelle sonore. Un finale estremo, quasi “ineseguibile” nel senso che necessita di una sospensione, di silenzio assoluto che diventa musica. Poco altro vi sarebbe da aggiungere ad uno dei concerti più belli mi sia stato concesso d’assistere. Poco altro, senonché da diverse parti del mare magnum della rete, si sono levate critiche inspiegabili (e assai “milanesi” diciamolo…) ad un’esecuzione definita “troppo” perfetta e sostanzialmente vuota di contenuti, sino a spingersi a definire Jansons il direttore più sopravvalutato degli ultimi anni o proponendo risibili confronti con le letture – incredibilmente ritenute superiori – di Gatti o Luisi, nel segno OVVIAMENTE, del sempiterno omaggio al Divo Claudio, convitato di pietra d’ogni esecuzione mahleriana, almeno in certe consorterie… Nulla voglio togliere al Mahler di Abbado (splendido, certamente, ma non tra i miei preferiti) tuttavia trovo questione oziosa, tra le tante che ho letto, cronometrare il tempo trascorso tra la fine della sinfonia e il primo applauso (cinque minuti cinque – dicono loro – per Abbado; cinque secondi scarsi per Jansons), quale indice di chissà cosa…. Ma basta, non voglio far polemica con chi non la merita. Torno a Jansons, al suo Mahler straordinario (da annoverare tra le più grandi interpretazioni del XX secolo) e suggerire l’ascolto dell’Adagio finale diretto nel 1982 da un Karajan in stato di grazia con i Berliner appena ritrovati.
L’ascolto:
Gustav Mahler: Sinfonia n. 9 – Herbert von Karajan (Berliner Philharmoniker, 1982)
IV movimento: Adagio
Della decima, il movimento quasi compiuto è il terzo, il cosidetto “purgatorio”. Non il secondo, del quale in molte parti non rimane che una linea sola.
Beh il secondo movimento presenta sì una partitura orchestrale completa, ma non sono indicati gli strumenti… Il terzo e il quarto sono abbozzati su quattro pentagrammi (tranne le prime 23 battute del secondo) con poche indicazioni strumentali. Il quinto è abbozzato su quattro e cinque pentagrammi.