Les Huguenots con secondo cast alla Deutsche Oper di Berlino

Il 29 gennaio la Deutsche Oper ha ripreso Les Huguenots di Meyerbeer, la cui prima nello scorso novembre, con cast “stellare”, è già stata recensita su questo sito. Sono tornato a vedere questa produzione sperando che, rispetto ai nomi blasonati di Michele Mariotti, Patrizia Ciofi e Juan Diego Florez, i quali si erano mostrati del tutto inadeguati al capolavoro meyerbeeriano, i loro sostituti giovani e piuttosto sconosciuti avrebbero rivelato delle qualità superiori.

Ho trovato l’inutile messinscena di David Alden ridotta ad un trattamento ancora meno curato. Ostaggi della sciocchezza dell’approccio, gli attori riproducevano con desolante svogliatezza i movimenti ritmici che Alden ha voluto accompagnassero una gran parte della musica dei primi tre atti, di cui non era stato in grado di cogliere senso e funzione. Ancora più statica, vuota e contro intuitiva l’introduzione del terzo atto, con le scene di genere e di balletto in cui Meyerbeer e Scribe dipingono un polifonico affresco sociale di Parigi.

Quanto alla direzione, pensavo fosse impossibile scendere sotto il livello di Mariotti o di Mazzola (direttore del Vasco de Gama berlinese). Ma con il giovane americano-israelita Ido Arad ci siamo trovati davanti ad una non-concertazione totale: attacchi sistematicamente sporchi, assenza assoluta di sintonia fra gli strumenti, per tacere di quella fra buca e palcoscenico, lasciando i cantanti a se stessi, compromettendo sia protagonisti che coro per l’incapacità o di seguirli o di guidarli, dimostrata catastroficamente nella Chanson huguenote di Marcel o nel Rataplan. Trasformando lo spartito raffinatissimo di Meyerbeer, che è un capolavoro di caratterizzazione quasi da litografia, in una poltiglia indistinta, pesante e rumorosa, ha coperto i cantanti e portato al limite del caos i vari complessi passaggi corali, mentre nei momenti che avrebbero richiesto più verve ed anche volume teatralmente fracassone, ha creato una sensazione di impotenza sonora e dinamica da assoluto anti-climax, specie nei finali. Se avesse diretto nello stesso modo un repertorio più conosciuto ad un pubblico tedesco, per non parlare di un’opera di Wagner, sarebbe stato coperto di buh e di insulti, mentre con Les Huguenots si è salvato con corti e fiacchi applausi di cortesia. Dopo ben tre scelte disastrose di direzione musicale (lasciando da parte quella di regia e compagnia canora), rimane pochissimo da sperare per Le Prophète dell’anno prossimo. Sembra che la Deutsche Oper di Berlino non abbia ancora capito che la direzione di un grand-opéra non si affida a chiunque, il che la dice lunga sul persistente atteggiamento arrogante verso questo repertorio.

La gran parte del cast vocale essendo rimasto uguale, bisognerebbe forse solo ripetere i giudizi sul Marcel dell’ingolato Ante Jerkunica, che è quasi afono in acuto e quindi crolla nelle arie del primo atto, mentre in specie nel quinto atto la scrittura più centrale del Grand Trio gli dà l’occasione di fraseggiare liberamente ed in modo abbastanza commovente. Uguale alla prestazione della prima anche l’appassionata Valentine di Olesya Golovneva con acuti potenti, mentre la zona centrale e grave rimane del tutto aperta e volgare. Grazie alla facilità in acuto, riesce a procurare ad una buona parte del suo ruolo una base puramente “materiale”, necessaria per soddisfare le esigenze drammatiche di una figura come Valentine.

Al posto di Juan Diego Florez il ruolo di Raoul è stato ripreso dal coreano Yosep Kang, che ha l’unico pregio di essere almeno un tenore lirico pieno che non sparisce nei pezzi d’assieme come era sparito Florez dalla scena del duello in poi. Voce sonora, ma grossa al centro, perde sostanza e brillantezza appena sale, canta tutto su un mezzoforte o forte monotono, dimostra specialmente nella sua romanza di essere molto lontano da un’adeguata comprensione delle particolarità stilistiche franco-italiane della scrittura vocale e cala sistematicamente dai primi acuti in su.

Anche la nuova Regina Marguerite, incarnata dall’australiana Siobhan Stagg, ha il pregio che a differenza di Patrizia Ciofi non parla con voce afona nel registro medio e grave, mentre il suo strumento come tale rimane quello di una soubrette: poco sonoro, con contrazioni di gola poco piacevoli negli acuti e sopracuti. Riprende la stessa cadenza postmoderna che integra Lucia e Regina della Notte alla fine della stretta di “O beau pays”, però senza la convinzione che ad una Ciofi aveva permesso di lanciarsi a squarciagola in urla fisse o ballanti, e quindi la giovane australiana non lascia nemmeno l’impressionante traccia dell’orrore affascinante.

Quale ultima stazione della cosiddetta “Meyerbeer Renaissance” Berlino aspetta Le Prophète di cui non si conoscono ancora gli interpreti. In considerazione dell’incapacità dimostrata da parte dei dirigenti del teatro nelle scelte artistiche riguardanti ruoli o soluzioni musicali e sceniche che in teoria non sarebbero stati insormontabili, dati i molti indizi forniti da Meyerbeer e Scribe stessi per facilitare la riuscita dello spettacolo anche con mezzi inferiori, c’è abbastanza ragione di essere molto pessimisti in vista di un’opera come Le Prophète, che pone come minimo un problema quasi insolubile, ossia il ruolo di Fidès.

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