“Le Grand Macabre” alla Philharmonie di Berlino: Give Ligeti a chance!

Prosegue la collaborazione fra Peter Sellars e i Berliner Philharmoniker: dopo le Passioni bachiane e il Pelléas, è il turno dell’opera di György Ligeti, proposta nella sua seconda versione, al cui primo allestimento (Salisburgo 1997) aveva collaborato il regista statunitense, pare con limitata soddisfazione da parte del compositore. Quella berlinese era, sulla carta, un’esecuzione semiscenica: in effetti Sellars è riuscito a trasformare l’intera, immensa sala della Philharmonie nel mondo (immaginario, ma non troppo) di Breughelland, disponendo l’orchestra sul lato destro del palco e solisti, strumentisti e coro praticamente in ogni punto dell’auditorium, dalle gallerie ai corridoi della platea. Prima ancora che l’opera abbia inizio, i maxischermi installati sul palcoscenico presentano il logo di “Clean Futures”, un summit internazionale a proposito del nucleare, e Piet The Pot esordisce rivolgendosi al pubblico con gli abiti formali e il piglio di un conferenziere. Verosimile frutto delle allucinazioni (radioattive?) di cui dice di soffrire il personaggio sono tanto la coppia di amanti (due tecnici di laboratorio, entrambi donne, con la peculiarità che è Amanda a portare, letteralmente, i pantaloni) quanto lo stesso Nekrotzar, ambigua eminenza grigia di natura squisitamente politica. Siamo in una realtà parallela alla nostra (Berlino-Londra 2017, ribadiscono gli schermi – e l’opera è cantata in inglese), in cui gli incubi del Novecento assumono l’aspetto aggraziato e ineluttabile delle visioni: Amando e Amanda, al pari di Mescalina e Astradamors, vivono una passione mediata dai rispettivi computer, Venere è abbigliata e si muove come Rita Hayworth in Gilda, mentre le immagini che accompagnano l’uccisione della moglie dell’astronomo di Corte mostrano l’escalation dei test nucleari dalla seconda guerra mondiale a oggi. Nel secondo atto, l’imbelle Principe Go-go e i suoi intercambiabili Ministri tentano una disperata (auto)difesa indossando ridicole quanto inutili protezioni (enormi recipienti di scorie nucleari, a malapena dissimulati da teli semitrasparenti, ingombrano il palcoscenico), mentre il Capo della Polizia Segreta è, con ogni evidenza, già contagiato dalle radiazioni (la sua grande aria è un memorabile momento di teatro, esilarante e al tempo stesso terribile). Il finale, sospeso nella rarefazione delle luci magistrali di Ben Zamora, vede i personaggi uscire dall’immobilismo solo per brevi movimenti da pupazzo meccanico: siamo forse davvero nell’oltre-vita, le passioni si sono acquietate, ma la serenità continua a essere un miraggio, a onta della (apparente) bonomia dispensata dal coro finale (cui fungono da straziante contrappunto immagini di parodistica serenità agreste). Si può non condividere la scelta di Sellars di ricondurre le sulfuree invenzioni di Ligeti e del librettista Michael Meschke esclusivamente al tema del nucleare, ma il gioco regge bene, in equilibrio perfetto fra ironia e angoscia e, soprattutto, senza che il ritmo impresso all’azione conosca (se non, forse, verso la fine del penultimo quadro dell’opera) momenti di sosta. Il suono dei Berliner è, al solito, acuminato quanto sfolgorante, ma la sorpresa è la direzione di Simon Rattle, capace di abbandonarsi senza riserve, per una volta, alla teatralità della partitura, al meccanismo implacabile di un’ironia graffiante (sulle ossessioni del genere umano quanto sulla storia e le convenzioni del dramma per musica) che fonde rigore e sberleffo, pathos e caricatura. Come avviene anche in repertori più tradizionali, il più serio limite è dato dai solisti di canto, soprattutto dal Nekrotzar di voce ingolata, e quindi di limitato volume, di Pavlo Hunka, dal diafano (anche oltre le intenzioni dell’autore) Principe di Anthony Roth Costanzo e da Frode Olsen (Astradamors), limitato anche come attore (irresistibile, almeno sotto il profilo scenico, risulta invece il Piet di Peter Hoare). Tra le donne spicca, più della celebre Anna Prohaska (corretta e nulla più come Amanda), Audrey Luna, che nel duplice ruolo di Venere e Gepopo mostra una voce timbricamente aspra ma con qualche risorsa in acuto e un modo di porgere meno sgraziato rispetto alla media del moderno soprano di coloratura. In occasione della seconda di tre recite, posti quasi esauriti e grande successo finale, al punto da “costringere” gli interpreti a presentarsi al proscenio anche dopo il congedo dell’orchestra.

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