Per recensire Semiramide occorrono cultura ed idee chiare. Idee chiare su cosa rappresenti questo titolo, ovvero il più completo ed ultimo prodotto del belcanto italiano prima che il sistema tramontasse a favore dell’opera romantica. Talvolta l’opera romantica, specie quella di Bellini e Donizetti, quando eseguita da cantanti cresciuti al belcanto, Giuditta Pasta in primo luogo, alla grammatica belcantista attingerà e ricorrerà largamente Anna Bolena, però non è Semiramide, anche se talvolta ricorre ad alcuni stilemi ornamentali del belcanto. La differenza, che oggi ormai i più stentano a cogliere, risiede, e ce lo dice Rossini stesso, nel fatto che il melodramma è arte completamente ideale, ossia che in scena non va un dramma realistico, ma la sua “rappresentazione”. Alla base di tutte le manifestazioni artistiche del mondo preromantico è il concepire l’arte come IMITAZIONE, come definita in maniera esemplare dall’ultimo grande teorico del classicismo, A. C. Quatremère de Quincy, nel saggio L’imitiation ( 1823 ): “Imiter dans les beaux-arts, c’est produire la ressemblance d’une chose, mais dans une autre chose qui en devient l’image. De cette définition on voit déjà sortir la différence essentielle qui existe entre l’imitation propre des beaux-arts, et les autres sortes d’imitation. Il appartient sans doute à chaque sorte d’imitation de produire certaines ressemblances. Mais si toute imitation produit des ressemblances, toute ressemblance n’est pas pour cela nécessairement un produit de l’imitation”. Lo ha ricordato anche il direttore d’orchestra, Michele Mariotti, nell’intervista trasmessa durante l’intervallo della diretta streaming. Ricordato, ma poi non messo in pratica da musicisti e responsabili della parte visiva. Del canto abbiamo già detto, ed in sintesi possiamo ripetere che il personaggio belcantista non tollera suoni non perfettamente “sul fiato”, ossia non perfettamente astratti e strumentali. Solo quel suono astratto consente il legato e l’esecuzione delle agilità, di grazie e di forza, e quindi al cantare la restituzione di quelli che sono “gli affetti nascosti” di cui parlava Rossini, che Rossini indicava come peculiari dei suoi grandi interpreti e che tante volte abbiamo, in passato, ricordato a proposito di questa come di altre opere del compositore pesarese. Recensire Semiramide è possedere un “orecchio”, una sensibilità per il suono, ossia la chiara idea di quello che il cantante deve emettere, presupposto imprescindibile per l’espressione astratta ed ideale. Una protagonista che manchi di solennità al giuramento, di languore alla cavatina, che dispensi a piè sospinto suoni fissi e calanti, suonini miagolati e sfilacciati ai primi acuti quando non urla vere e sfinite nel duetto con Assur oppure una coprotagonista en travestì che esegua a strappi gli andanti delle arie o si incagli nei recitativi perché la voce è spezzata in due tronchi, che appena sale urla ma nei gravi non può dar corpo alla voce di petto, non restituiranno mai né ideale né rappresentazione ideale, ma sempre e comunque l’esibizione naturalista e cruda dell’affanno, del declino e della fatica anche fisica che questa smisurata opera tragica genera in protagoniste alle prese con un compito superiore alle loro possibilità vocali. Questa Semiramide non seduce, e si potrebbe anche ammettere questa lacuna, ma al contempo latita in fatto di tragicità ed aulicità nel canto sul centro come dovrebbe essere un mezzo acuto, mentre il suo Arsace, che avrebbe anche idee ben più chiare e pertinenti rispetto alla collega, non riesce più a cantare come l’eroe malinconico ed aulico esige. Non possono essere certo modalità naturalistiche che sfociano addirittura nella parodia a causa dei limiti dell’esecutore a sostenere Semiramide e questo il recensore lo deve sapere. Altro esempio: quando Esposito, che non ha in partenza l’ampiezza del mezzo necessaria per accentare Assur, attacca il recitativo della grande scena finale parlando o spacciando dei parlati per piani e pianissimi, mentre mima il gesto di strapparsi i capelli nel dire “….la man di ferro…il crin m’afferra” ecco allora che l’idealità del canto e della rappresentazione ideale cade a favore di un realismo che è del tutto antirossiniano. Lo spiega assai bene Quatremère quando chiarisce la differenza sostanziale tra la realtà di un oggetto e la sua immagine. “….La ressemblance est sans doute la condition de l’imitation. Ces deux expressions et leurs idées se touchent de si près qu’on prend souvent l’une pour l’autre dans le langage ordinaire. Ce n’est pas là qu’est le plus grand abus. Il consiste à confondre la ressemblance par image, ou celle des beaux-arts, y avec la similitude par identité ou celle des arts mécaniques...Tutto questo lo deve sapere bene chi recensisce: benissimo lo ha spiegato in tempi non sospetti prima della Rossini decadénce, proprio Alberto Zedda e con lui Rodolfo Celletti.
Recitazione ed allestimento caratterizzati da un generico eclettismo spazio temporale, dove non ci sono nè un tempo né un luogo d’azione, potrebbero anche funzionare se ci si trovasse in uno spazio metastorico. A causa, invece, di una caotica e casuale congerie di rimandi, anzi, di clichè tipici del moderno esausto teatro tedesco, siamo del tutto all’opposto: ci vengono propinate tutte le dittature del secolo scorso ed odierne, dalla statua del dittatore coreano ai pantaloni “alla Folgore” con stivali e frustino da Reich ( che in Germania non cadono mai di moda ), fino alla citazione de Il Grande dittatore di Chaplin allorquando Assur abbraccia un mappamondo, passando poi alle sottovesti da telefoni bianchi della protagonista su quel letto della prima scena del secondo atto che sa così tanto di Voix humane, tanto di Hollywood e tanto poco di Rossini da essere un pugno nello stomaco visivo insopportabile. Alla fine, lo spettacolo non sta in piedi e nemmeno si capisce cosa voglia arrivare a dire, perché Semiramide non è una storia di dittature, ma di affetti, una tragedia tipicamente classicista sostenuta anche da una serie di topoi, come la scena del Tempio quando Arsace va dagli oracoli, di templi che tremano, di rimorsi, di angosce, di sensualità veramente tardosettecentesca. Gli interni da regime comunista e tutta la paccottiglia ad essi annessa, incluse le ridicole danze che si svolgono mentre Idreno canta l’aria del II atto, come le assurde proiezioni disneyane durante il “Bel raggio”, suonano solo come uno sfregio intenzionale al compositore di cui non solo non si è capito nulla, ma non c’è stato nemmeno l’interesse a comprendere alcunchè. Se poi il monumentalismo dell’opera secondo il regista e certi suoi panegiristi è giusto che venga rappresentato attraverso la statua del dittatore stoccata in una sala ove tutto si svolge o da gigantesche xerox appese alle pareti, allora siamo proprio alla fine di ogni pretesa culturale o del fare secondo ragioni ed argomenti fondati. Altro che arte ideale figlia dell’imitazione!! La verità è che non siamo ancora stati capaci, a causa della nostra profonda distanza intellettuale da questo tipo di teatro, di andare oltre Pizzi, anche quello della sua seconda Semiramide all’opera di Roma, fatta con un altare barocco ed un letto stilizzato, cioè con gli avanzi dei suoi spettacoli. Il capriccio della Masquerade a la greque di Petitot poteva ben essere accostato al classicismo canoviano del monumento di Maria Cristina d’Austria, a rappresentare monumentalità ed delirio di ornamentazione dell’opera, e persino l’altare barocco del suo personale trovarobato della seconda produzione ancora poteva essere messo in rapporto con la vocalità fiorita ed un ‘arte “tutta ideale”. Fuori da questa logica ha retto a malapena la produzione archeologica di New Yok, parecchio oleografica ma comunque aggrappata all’iconografia delle rappresentazioni del tempo, con tanto di riproduzione fedele dei costumi. Il resto è sempre stato un andare contro o fuori dal linguaggio dell’opera, anche con l’appagante visual cromatico di De Hana, troppo legato ad un realismo berbero o giu di lì, che col classicismo cozzava apertamente. In fatto di allestimenti non siamo andati oltre, detto in estrema sintesi, passando per le assurde tedescaggini post espressioniste corredate di mitra di Berlino fino a questa straordinaria scemenza, priva della minima legittimità intellettuale. Altro che rivoluzione ed innovazione, parole vuote appiccicate lì per farci credere che quello vediamo non è una porcheria dettata da una sola condizione, l’ ignoranza..
Tornando alla natura di Semiramide che si deve ben conoscere per recensire, indicare monumentalità, geometria o simmetria come se fossero caratteri esclusivi di Semiramide invocando il classicismo visionario ed utopico ( oltre che sconosciuto all’epoca di Rossini) di Boullée è voler far credere di avere un sistema di riferimenti che in realtà non esistono. Mi scuserà chi legge se mi dilungo, ma poichè la citazione concorre a giustificare le lodi sperticate per uno spettacolo che si vuol far credere di levatura assoluta, per giunta innovativo perché finalmente dotato dei crismi dell’interpretazione (mentre in realtà siamo davvero altrove) è il caso di puntualizzare pure questo dettaglio. Il gigantismo visionario di Boullèe, figlio, ripeto, dell’utopia e dell’illuminismo della Rivoluzione, tra l’altro del tutto sconosciuto in Italia e rimasto a lungo senza eco anche in Francia, non stanno, come si vede dalle immagini, né con il classicismo italiano men che meno con l’opera di Rossini, proprio per il loro carattere apertamente utopico, per la nudità estrema dei volumi puri, irrealizzabili ed irrealizzati, per la sua natura tutta speculativa, che, in definitiva, proviene da un modo di intendere la classicità lontanissimo da Rossini. Ci si vuol far credere che la dimensione monumentale di questa opera sia un unicum visionario appunto, come se fuor dal teorico Boullée gigantismo, simmetria e forma non esistessero, mentre connotarono il classicismo architettonico intero, anche italiano. Né possiamo parlare allo stesso modo di sproporzione o di gigantismo di questa opera di Rossini se guardiamo al suo sistema di riferimenti musicali che sottostanno alla composizione di Semiramide. Un libretto concepito a tre, Rossini con la Colbran e Gaetano Rossi, nella villa di Castenaso, a casa della coppia. E’ un‘operazione a sei mani, una pura costruzione a tavolino per imporsi nella roccaforte della reazione alla musica di Rossini, la sola piazza che in quel momento negava a lui ed alla moglie gli straordinari onori dei teatri più importanti di tutta Europa. E’ il Veneto erede del classicismo palladiano, una terra pure un poco provinciale ed arretrata in quegli anni ‘20 e non una terra qualunque a patrocinare parte della reazione al Rossini napoletano. Prese forma in pamphlet, articoli di giornale etc, ve lo ricordate il Carpani?, proprio a partire da quel 1822, anno della scrittura veneziana e della stesura del libretto nel mese di ottobre a Castenaso. E’ al Caffe Pedrocchi di Padova che la Righetti Giorgi sente le accuse di plagio rivolte a Rossini, tanto da pubblicare nel ‘23 uno scritto in difesa dell’amico compositore, i famosi Cenni di una donna già cantante..Una comoda raccolta di C. Staffer, Le rossiniane, raccoglie alcuni tra quei documenti più importanti, stupefacenti per il tono delle aggressioni e delle critiche al moderno eroe melodrammatico. La Fenice che attendeva il più grande operista e la più straordinaria cantante del tempo ( lei era veramente male in arnese in quel momento.. ) era il teatro che per risollevarsi aveva affidato la stagione del 1822 a due giovani allievi proprio di quello Zingarelli, maestro di composizione a Napoli, da cui era partita la polemica più autorevole per il ritorno all’ortodossia degli antichi contro la “deviazione” imposta al melodramma da Rossini. I due giovani prescelti dalla Fenice erano Mercadante e Morlacchi e delle due opere il protagonista principale era ancora un castrato, l’ormai superato Velluti, che non toccava più nessuna piazza importante in Europa. La coppia non poteva fallire dopo l’incidente di Maometto II. Da qui la ponderazione del soggetto per le corde espressive di Isabella nel rispetto della componente più alta della tradizione: un personaggio scelto non a caso, molto in uso e che già conosceva e di cui non vale la pena qui parlare perchè noto a tutti: lo ha recentemente rianalizzato S. Lamacchia nel “Bollettino del Centro Studi Rossiniano” del 2014 a proposito di un pastiche molto amato dalla Colbran, La morte di Semiramide di Nasolini, risistemato da Portogallo appositamente per la diva, a Napoli, nel 1815. Cantante tragica straordinaria, la Colbran era stata una celebrata Giulia della La Vestale di Spontini, precedente illustre che ci indirizza verso i precedenti grandiosi e monumentali di Semiramide. Per Venezia era imprescindibile il richiamo all’altro modello di riferimento di opera tragica italiana, celeberrimo al tempo, e da noi oggi poco considerato, ossia gli Orazi e Curiazi di Cimarosa. Un altro esempio di tragedia, di argomento romano repubblicano, molto articolato e sviluppato al suo interno ed opera simbolo del maestro della diva, il Crescentini. E’ degli Orazi la più celebre scena di sepolcro, “A versar l’amato sangue” con ampia introduzione musicale di atmosfera notturna e misteriosa che precede quelle scritte da Rossini per Calbo e per il veneziano Arsace. Basta leggere le recensioni della prima scaligera del 1808 del Coriolano di Nicolini, protagonisti la Colbran e Velluti, per rendersi conto come l’opera di Cimarosa, rappresentatissima ovunque, fosse il metro di paragone per ogni nuova opera di argomento tragico, aulico ed antico. E soprattutto, come dice bene Sergio Ragni nel suo capolavoro sulla Colbran, l’importante precedente che fece certamente da spunto alla Semiramide veneziana fu l’Artemisia regina di Caria, sempre di Cimarosa, cantata dalla Colbran a Bologna nel 1809 con Velluti e Tacchinardi a dare lo spunto al soggetto definitivo. Era la storia di una regina vedova di un marito-fratello defunto, di un sepolcro che custodiva le spoglie e delle apparizioni dell’ombra del marito, dei rimorsi di Artemisia nonchè di un pretendente sovrano respinto e di un sovrano di Persia, Artaserse, sotto mentite spoglie, amante ricambiato da Artemisia etc, insomma un mix di elementi che segna il libretto messo a punto da Rossi certamente indirizzato dalla cantante.
Si doveva comporre per Venezia un‘opera che contemplasse tutto ciò, che tenesse insieme la tradizione ed il futuro ormai alle porte, ossia il più tragico dei drammi, “la più tragica delle tragedie” mai udita in cui non era possibile rinunciare al virtuosismo (anche per le condizioni in cui versava Isabella) e che solo attraverso il gigantismo dei numeri, delle reiterazioni, delle ripetizioni insistite avrebbe portato all’espressione di quelle nuove violente passioni che animano i protagonisti. Non era mai stato scritto nulla di una potenza drammatica analoga a quella del duetto del II atto tra i due ex amanti, e nemmeno di altrettanto tragico come il lunghissimo duetto del II atto tra le due protagoniste, “Ebben a te ferisci”. Quello a cui si assiste con Semiramide, non diversamente da quanto era di fatto già accaduto nell’arte con tempi e modi differenti, fu semplicemente la spinta fino al parossismo della struttura formale ed espressiva dell’arte ideale: andare oltre sarebbe stato varcare le colonne d’Ercole di un sistema al suo crepuscolo, cioè avrebbe significato abbandonare il classicismo e la sua concezione imitativa dell’arte. Per questo la reazione a Rossini suggeriva il ritorno all’indietro ed infatti patrocinava musicisti e cantanti superati. Rossini, invece, dopo Semiramide produsse per Parigi tre rimaneggiamenti di opere napoletane e quindi il Guillaume Tell, opera già romantica, poi si ritirò, perché il tempo dell’“arte tutta ideale” era ormai finito. Aveva 37 anni e ne erano passati solo sei dalla prima di Semiramide. Questo è tutto ciò che deve sapere il critico e cercare in un rappresentazione di questa opera.
Qualcuno dirà in autotutela troppo. Quelli della Grisi dicono: il minimo sindacale……
PS Le citazioni sono state estratte da: A. C. Quatremère de Quincy , Essai sur la nature, le but et les moyens de l’imitation dans les beaux-arts, Paris, 1823, rieditato in anastatica come: Quatremère de Quincy, De l’imitation, con una introduzione di Leon Krier & Demetri Porphyrios, Brussels, 1980, Éditions des Archives d’Architecture Moderne
Non ringrazierò mai abbastanza Madame Grisi per tutte le cose che mi insegna. Non sto scherzando: da semplice melomane ho sempre avuto una conoscenza piuttosto generica di tutto il “contorno” (che poi conotorno non è) che sottende alla rappresentazione di un’opera. Sapere certe cose, consente poi di ascoltare (e, nel caso vi si assista dal vivo, di vedere) con spirito decisamente diverso.
Mi unisco anche io ai ringraziamenti di franz75 alla signora Grisi!
in particolare è utile ri-imparare il concetto di arte pre-romantica come imitazione, e ricordare anche la definizione geometrica di similitudine e quella di identità e che rossini sta nell’area della similitudine (io quella sera accesi la radio proprio alla scena finale di Assur, purtroppo non posso scrivere qui a cosa era identico il canto di Esposito) …
(e poi, mi ha fatto sorridere il racconto di come una reazione alla musica rossiniana sia partita proprio dal mio caro veneto
Sulla cultura veneta nel periodo di cui sopra.magari torneremo
Magnifico……..ho letto con impagabile voracità . Complimenti!
Grazie a lei e agli altri
Se pure in ritardo, volevo ringraziarvi per l’ospitalità in questo Blog e partendo proprio dall’analisi fatta da Giulia su come si “approccia” Semiramide per poterne scrivere (per i critici) e godere, per noi ancora con passioni vivaddio; sento di aver trovato lo spazio giusto dove si può fruire dello studio altrui e farne tesoro. Era dai tempi di Rodolfo C. che non trovavo più recensioni, libere da pastoie editoriali, che, partendo dalla concertazione, si articolano passo dopo passo , nota dopo nota, trillo dopo acciaccatura, fino ad analizzare i caratteri vocali e musicali dei protagonisti di quella macchina complessa e fantastica che ancora si chiama Opera.
Mi piace anche l’umiltà e la goduria con la quale i tre gentilissimi amici che mi hanno preceduto nel commento, riconoscono insieme a me, il vostro lavoro. E’ proprio così .C’è ancora del sano in Società ragazzi miei. Buona serata.
Grazie….troppo gentile!