La trasmissione dal Teatro Regio di Torino dei Pagliacci la sera dell’11 u.s. potrebbe dar luogo alla solita recensione dell’ascolto radiofonico con le osservazioni, che rendono i grisini universalmente amati. Sarebbero sempre le medesime osservazioni e sarebbero sempre supportate da ascolti di datate realizzazioni delle pagine dei Pagliacci, volti a dimostrare, per l’ennesima volta, le modalità di ascolto del Corriere e le ragioni di una critica. Le osservazioni riferite all’esecuzione torinese sono grosso modo le medesime: che il meglio venga dall’orchestra di Torino che anche con una guida non certo raffinata e precisa come Nicola Luisotti suona bene, quando non benissimo sotto il profilo della pura qualità del suono, anche se la dinamica e la scelta dello stacco dei tempi non è quella che per noi ha reso il capolavoro di Leoncavallo, affidato a Daniel Harding, una rivelazione; possiamo dire che i colori dell’orchestra sono limitati perché limitate sono le idee della bacchetta al di là di una buona routine e dell’inclinazione a qualche clangore di troppo come la chiusa del coro “din don” o l’intera recita dove la pesantezza sopravanza la tragica ironia, come pure gli interventi del coro in quella tragica recita, che sfocerà nel delitto d’onore. Insomma più facile drammone che sottile tragicità in orchestra e che per altro è la strada giusta quando i cantanti sono assolutamente inadeguati al titolo.
Paradossale a dirsi perché quanto a difficoltà vocali i Pagliacci non sono né Puritani né Semiramide e la prova è la ancor relativa facilità con cui vebgono allestiti. Ma i Pagliacci sono un titolo verista nel quale il dire, il saper dire sono irrinunciabili. Secondo alcuni, esempi di facilona ignoranza e superficialità a queste due esigenze si può anche piegare la grammatica e correttezza del canto. E qui casca l’asino e sotto questo profilo ci sono le sole osservazioni che una ripresa di Pagliacci oggi meriti, con la precisazione che per la dimostrazione dell’assunto si possono ben lasciare nel loro empireo le esecuzioni tenorile di Caruso, Gigli,. Pertile, Merli e più vicini a noi anche di Corelli e soprattutto Tucker, che rappresentano il vertice della realizzazione interpretativa del personaggio di Canio.
E questo vale anche per Tonio e Nedda chiamati anch’essi al gusto ed alla vocalità cosiddetta verista. Paragoniamo l’esecuzioni di ballatella, duetto con Tonio e duetto con Silvio di Erika Grimaldi e sentiamo una voce, che non copre il suono al centro, scende con relativa difficoltà e sale spingendo il suono benché la carnalità e sensualità di Nedda non implichino vette del pentagramma. I difetti comportano nella realizzazione del personaggio una Nedda che con una voce malferma al centro non esprime la sensualità dell’aria, il furore e la rabbia della donna insidiata da un minorato ed, infine, la donna che canta e dovrebbe quasi suonare il proprio amore. Se Nedda attirò cantanti di estrazione differente dal Verismo nei primi anni del proprio cammino (si chiamavano Nellie Melba, Marcella Sembric, Sigrid Arnoldson, Selma Kurz ad esempio sino ad Hermine Bosetti ed Elisabeth Rethberg) è perché il personaggio -una troietta che ha sposato un vecchio saltimbanco- offre la possibilità di esprimere una quanto mai vasta gamma di sentimenti. Ascoltiamo il duetto “decidi il mio destino” eseguito da Rosetta Pampanini e Gino Vanelli e sentiremo da una cantante, bollata di Verismo e quindi di tecnica limitata e di gusto oggi definito superato, una linea di canto elegante, raffinata oltre che un timbro splendido in tutta la gamma della voce. Qui la Nedda Rosetta canta il suo amore e lo canta con la sublimata eleganza, che compete ad ogni innamorata dell’opera. Altrimenti Nedda non è una cantante d’opera ed un’eroina da melodramma, ma la caricatura di una puttanella. E questo Leoncavallo non lo chiede. Se si deve fare la caricatura Nedda la deve fare alla recita perché la donna è agitata, perché teme la gelosia e perché è una guitta da festa di mezz’agosto sui monti dell’Aspromonte e non la Duse. E la linea musicale ed interpretativa non cambia quando i panni discografici di Nedda li indossi Hina Spani. Ma Nedda a ministero del magistero di una Pampanini, di una Spani, di Tucci, di una Freni, ovvero di professioniste solide e capaci esprime quello che nelle differenti situazioni l’autore chiede solo se sa far galleggiare la voce sul fiato e disporre di un suono sempre nitido, sempre morbido, sempre tornito.
Se poi ascoltiamo gli assoli di Canio ripeto non a ministero dei protagonisti di levature storica già citati, ma di cantanti di solidissima carriera che potevano rispondere la nome di Pietro Venerandi, Nicola Zerola, Guido Ciccolini, Giuseppe Taccani, Giulio Crimi o cantanti francesi come Emile Scaramberg o di area midde europea come Karel Burian sentiamo sempre e sistematicamente qualcosa di molto differente sia sotto il profilo vocale che interpretativo rispetto a quanto offerto da Fabio Sartori. Sartori sfoggia la solita voce gonfia ed ingrossata al centro, mal ferma e sopratutto impedita nelle smorzature e nella dinamica, come tutti i tenori di oggi specie se alle prese con l’opera verista dove la scrittura centrale induce a questi vizi tecnici nel tentativo vano di esibire un centro di cui in natura non si dispone. La varietà di colori, il fatto che il disinganno ed il dolore del marito, che tocca con mano il tradimento, si esprima con sonorità attuttite altrimenti la tragica ironia del conclusivo “ridi pagliaccio” che chiude la scena anzichè essere l’esplosione del dolore è una serie di grida inconsulte, puri suoni di strozza e non il canto di un uomo distrutto e straziato, che scioglie una sorta di trenodia sul tradito amore e sulla tragicità occorsagli.
E le osservazioni non cambiano quando si passi al tragico “no pagliaccio non son” dove la prima sezione marcatamente centrale non costringe a suoni ingolati ed “affondati” quelli che poi rendono impossibile la salita al “fidente credea” ed alla “meretrice abbietta” della seconda sezione.
Basta ascoltare l’esecuzione dei tenori che ho citato prima, realizzate entro il 1925, per rilevare una identica idea interpretativa, che riserva il forte ed il fortissimo ai momenti clou della tragedia, e soprattutto un medesimo imposto e governo della voce, che consente risultati espressivi conseguenze logiche della capacità di cantare correttamente dal piano al forte. Dobbiamo averlo ben chiaro: risultati espressivi ed interpretativi, aderenza al desiderio dell’autore su “vasta scala” e non solo per i Canio di levatura storica.
Ahi che Pagliacci!!
Ieri sera pensavo che gli unici professionisti che si salvassero erano Tonio e Silvio (ho poi letto più tardi che Tonio era Frontali), ma i restanti….che canto. Sartori dopo la prima, indisposto, ha lasciato tutte le recite e il sostituto – che canta 5 recite in 7 giorni – si è comportato degnamente, però sembrava che avrebbe potuto essere un buon protagonista vent’anni fa; ora restavano solo gli acuti. La Grimaldi non la capisco, dal vivo l’emissione che sembra tutta ripiegata all’interno: dopo la ballata, gelo in sala per qualche secondo, poi alcuni applausi di circostanza.
Per entrambi, altro che fraseggiare, altro che eccessi veristici da evitare, non c’è nulla da eccedere!
La regia poi non aggiungeva nulla, non era certo l’avvenimento sperato: nel primo atto Canio sembrava un tranviere in pausa. Spettacolo conclusosi dopo un’ora e venti con alcuni posti vuoti. Ma qualcuno ha pagato un biglietto da 90 € per questa “cosa”?
Ah, non lo sapevo che Sartori avesse lasciato: dunque per Anile la recita di oggi pomeriggio seguiva a meno di 24 ore quella di ieri sera …… : e’ anche vero, pero’, che c’era chi, nella stessa serata, cantava sia Cavalleria che Pagliacci.
La diretta radiofonica l’ho ascoltata solo a partire dal duetto con Silvio, gia’ in corso, avendo una mezza idea di acquistare l’ancora disponibile biglietto per la pomeridiana di Domenica, con il medesimo cast: l’ascolto mi ha definitivamente convinto che non potevo assolutamente perdermi l’occasione di restarmene a casa e cosi’ ho fatto, con buon risparmio dei 75 euro da spendere per assicurarmi l’ormai prediletta 28^ fila. forse si salvano i 2 baritoni ma l’ascolto parziale non consente un giudizio probante, insufficiente il Beppe di De Leon e, quanto ai protagonisti: quanto e’ distante la Grimaldi dall’accettabile Mimi’ dell’ottobre scorso, ma che e’ successo ? Si salvano le note alte che, invero, sono buone: nitide, piene e sufficientemente morbide ma, per il resto: vuota, sorda, cingolfata e con slittamenti d’intonazione; Sartori e’ impresentabile e, a dire il vero, si aveva l’impressione che si strangolasse lui prima degli omicidi. Ora, visto che nei precedenti 8 giorni, a titolo di ripasso, avevo ascoltato 6 integrali di Pagliacci, qualche considerazione. Scontato il valore delle “giubbe” storiche di Caruso, Gigli e gli altri grandi, ferme restando le discutibili e consuete invenzioni testuali di quest’ultimo “infamia, infamia”, eccoci alle integrali: non conosco Corelli e Tucker e, nella mia personale classifica, abbiamo un sostanziale pari merito fra Merli, forse lievemente nasaleggiante all’inizio ma, nel complesso, semplicemente entusiasmante, l’eloquentissimo e morbissimo Bergonzi, ancora al topo nella pregevole incisione di Karajan e i 2 Pavarotti, soprattutto il primo. Apprezzo decisamente, anche se un gradino sotto, il Vickers del filmato di Karajan, piu’ indietro Domingo. qMa sono andato oggi pomeriggio, con il 2^ cast, con la lieta conferma di quello che avevo gia’ ipotizzato: un allestimento visivo decisamente e finalmente gradevole: lo spostamento temporale all’immediato secondo dopoguerra e’ sensato e, mi pare, adeguato allo spirito dell’opera: una regia misurata e non prevaricante, merce ormai piuttosto rara.
Non so come mai, ma mi e’ partito il commento prima di terminare e l’ultimo pezzo, do “Domingo in poi, era destinato a essere inserito piu’ avanti. Dunque, proseguo e riprendo a partire da “Domingo”.
Veniamo a Nedda con qualche riserva sulla Pampanini per la prima parte ma, nel complesso, esecuzione ragguardevole, imprescindibile la Freni ma di alto livello anche se un po sotto, la Caballè, la Kabajvanska e, ancora un po indietro, ma avercela, la Dessi’. Ma quella che io appaierei o quasi addirittura alla Freni e’ Joan Carlyle, un po leggerina, forse, ma molto corretta e straordinariamente espressiva. Il Tonio di riferimento, per morbidezza d’emissione e straordinaria espressivita’ (addirittura forse in qualche momento troppo espressivo) e’ Carlo Galeffi, per morbidezza d’emissione ed espressivita’ con lui se la giocherebbe Taddei che pero’ e’ sfocato in alto e percio’ non lo puo’ eguagliare. alle loro spalle Peter Glossop che, invero, non fa una cattiva figura nel film di Karajan e che nel Prologo e’ a tratti veramente convincente, piu’ indietro il dignitoso Wixell, Pons, anch’egli limitato in alto e, buon ultimo, ma forse non nelle sue peggiori prestazioni, Milnes. In quanto a Silvio e’ chiaramente in testa Gino Vanelli nell’edizione storica, non se la cava male Panerai nelle 2 edizioni di Karajan, quella in disco e quella in video, ma il piu’ diretto inseguitore di Vanelli e’ forse Paolo Coni, corretto e misurato, ma anche lui con problemi di opacita’ in alto, ed era un vero peccato. Non ho ancora effettuato gli ascolti qui postati ma passo al pomeriggio di oggi per cui ho gia’ erroneamente inserito una prima parte di commento nel post partito prima.
Dicevo. una lieta sorpresa la parte visiva, qualche appunto si potrebbe fare ma non pensiamoci: funziona bene e ne sono contento. I clangori orchestrali di cui parlavi mi sembra di averli ravvisati solo alla chiusura. In quanto al 2^ cast: Francesco Anile, che sostituiva il previsto Kristian Benedict, gia secondo Sansone, ma lo si sapeva gia’ da alcune settimane ed era gia’ corretto in locandina quindi non capisco il perche’ dell’annuncio dello speaker, dicevo Anile non parte male, con volume limitato ma tutto sommato corretto, faceva ben sperare ma poi al 2^ ingresso, la “giubba” e il finale, ingrossava le gote, veniva fuori il volume ma anche i difetti di un’emissione dura e legnosa che lo allontanava dal canto per avvicinarlo all’urlo, comunque, se devo proprio dirlo, pero’, forse e’ meglio di Sartori, Viviani puo’ essere persino accettabile, nonostante il vibrato, nella prima parte del Prologo ma poi al termine, quando deve salire, ecco il suono aperto e forzato che poi lo accompagnera’ per il resto della recita; Silvio un po peggio di quello che lasciava prevedere l’ascolto radiofonico, arrivando ad essere accettabile nella seconda parte del duetto quando canta piano “quel bacio tuo perche’ me l’hai dato …., De Leon un po meglio dell’ascolto radiofonico. preciso che Silvio e Beppe sono comuni ad entrambi i cast. E adesso, per favore, ridatemi subito la Grimaldi perche’ qui le note si fanno dolentissime: appena Nedda ha aperto bocca (“confusa io son” ) non potevo credere alle mie orecchie: neanche evocando le classiche patate e pentole di fagioli si puo’ descrivere un suono cosi’ ovattato e ingolfato. si giustificherebbe solo con un tappo o un imbuto in gola. Se tutti gli esecutori sono stati chiaramente al di sotto della sufficienza, Davinia Rodriguez e’ stata al di sotto della decenza, con tiepidissimi applausi all’aria e poco piu’ all’uscita finale e con l’inserimento di un solitario “buu” dalla 27^ fila. Applausi piu’ convinti per gli altri interpreti con Viviani, interrotto al Prologo da una partenza di applauso dopo “al pari di voi spiriamo l’aere”. ehm ….. .
Per la cronaca: non avendo trovato posto in 28^ fila, questa volta ero una fila piu’ avanti.
Dimenticavo. il Prologo di Pasquale Amato e di Giovanni Inghilleri e gli ottimi Arlecchini di Giuseppe Nessi, Ugo Benelli e Vincenzo Bello.