Stasera (venerdì 20) è prevista la prima rappresentazione del Ratto dal serraglio al Comunale di Bologna. Il titolo manca dalle scene felsinee da circa tre decenni e allora non stupisce che gli appassionati locali (che vuol poi dire stanziali) lamentino l’opportunità della scelta, atteso che il Singspiel mozartiano sarebbe (cito testualmente quanto udito durante un intervallo del Werther ultimo scorso) “una successione di arie senza una trama”. Risulta un poco più grave quando una simile affermazione, che generosamente potremmo definire ingenua, viene sostenuta e, quel che è peggio, ribadita con l’azione diretta dai responsabili dell’allestimento scenico. È di alcuni giorni fa la notizia, copiosamente ripresa dalle cronache cittadine, che l’allestimento di Martin Kusej, proveniente dal Festival di Aix-en-Provence (dove aveva ottenuto ben scarso riscontro critico, persino da parte dei giornali francesi, notoriamente ben disposti verso il cosiddetto teatro di regia), prevede non solo il cambiamento (ormai di prammatica) di luogo e tempo dell’azione (dovremmo essere, par di capire, nei deserti libici durante o subito dopo la prima guerra mondiale), ma una riscrittura totale dei dialoghi parlati: il testo di Stephanie jr. sarebbe infatti “superato” e “cabarettistico” e insomma poco adeguato alla musica mozartiana. Non per la prima volta dobbiamo osservare come simili riscritture, con conseguenti polemiche riprese dalla stampa nei giorni precedenti l’esecuzione, assumano per il solito il compito (non si sa fino a che punto deliberato, ma di sicuro non troppo arduo) di distogliere l’attenzione dalla componente musicale dello spettacolo. Mentre infatti l’abbandono del tenore Mert Sungu (previsto nel ruolo di Pedrillo) è stato raccontato con dovizia di particolari (dai resoconti dell’interessato, che ha motivato la scelta con il dissenso rivolto alla regia, a suo dire irrispettosa nei confronti della Turchia – ma non eravamo in Africa…? – a quelli del regista, che ha addossato al tenore la responsabilità di non essere stato in grado di apprendere i nuovi dialoghi previsti dall’allestimento), nulla o ben poco si è detto della scomparsa dalla locandina del soprano Maria Grazia Schiavo, cui era affidata la parte di Konstanze. E proprio su questo ruolo vorremmo soffermarci in vista della proposizione bolognese.
In una celebre lettera al padre, Mozart annota: L’aria di Costanza [“Ach, ich liebte”] l’ho un po’ sacrificata all’agile gola della signorina Cavalieri. “Trennung war mein banges Los und nun schwimmt mein Aug’ in Tränen” ho cercato di esprimerlo come lo permette un’aria di bravura all’italiana. C’è da parte dell’autore l’ammissione (forse non priva di compiacimento) di avere scritto per la primadonna come se stesse componendo un’opera italiana, che era poi la specialità di Caterina Cavalieri, prima interprete del ruolo e futura destinataria del rondò di Donna Elvira “Mi tradì quell’alma ingrata” (KV 540c). In effetti Konstanze, personaggio nobile e idealizzato (molto più del suo Belmonte, che si esprime prevalentemente tramite melodie affini al Lied tedesco e in alcuni brani, come il duetto con Osmino e il terzetto finale primo, assume tratti schiettamente comici, che lo accomunano al servitore Pedrillo), si esprime secondo i canoni della vocalità fiorita propria dell’opera seria e declina, nei suoi interventi solistici, altrettanti topoi del melodramma settecentesco: la già citata aria di sortita (poche battute in Adagio, cui succede l’impeto dell’Allegro, i cui vocalizzi arrivano al re sovracuto), la scena “di catene” (la cavatina “Traurigkeit ward mir zum Lose”, che restituisce il lamento della prigioniera e dell’amante) e la grande aria “Martern aller Arten”, in cui la disperata sfida lanciata al Pascià si traduce musicalmente in un pezzo di inaudità complessità, una sorta di sinfonia concertante a cinque parti obbligate (voce, flauto, oboe, violino e violoncello). Più in generale la bella del serraglio deve cantare e fraseggiare principalmente nella zona della voce che sta fra il do centrale e i primi acuti (nel quartetto finale secondo canta spesso una terza sopra la cameriera Blondchen, come avverrà per la Contessa e Susanna o ancora per Fiordiligi e Dorabella), onorare la copiosa coloratura prevista non meno delle indicazioni di legato, dosare patetismo e irruenza non meno di Giunia, Aspasia e, ovviamente, donna Anna. E allora non meraviglia, in fondo, che la prestazione più antica preservata dal disco sia ancora oggi la più impressionante: alludo a quella della quasi sessantenne Lilli Lehmann, che nella prima aria sfoggia una saldezza in acuto, un mordente e una pienezza di suono che rendono plausibili i trionfi di una carriera proseguita trionfalmente fino agli anni Venti del secolo scorso. Non me ne vogliano i fan di un’altra “intramontabile” dei nostri giorni, Edita Gruberova, peraltro ottima, benché un po’ affettata Konstanze, ma la Lehmann è davvero un termine di paragone impietoso per chiunque, perché di fronte a lei la sempre elettrizzante Steber e la spericolata Sills si confermano ottime cantanti e sensibili interpreti, ma non pervengono a una sintesi altrettanto perfetta di grande forma vocale, esattezza di stile e sensibilità di interprete. Forse solo Felicie Hüni-Mihacsek, esecutrice raffinatissima e timbro radioso, si avvicina, in parte, al miracolo Lehmann. Eleanor Steber si prende peraltro una grandiosa “rivincita” nella cavantina del secondo atto, inclusa nel celebre recital mozartiano diretto da Bruno Walter, un caposaldo della discografia per la perfetta intesa tra un grande direttore e un’interprete di levatura storica alle prese con quello che è probabilmente l’autore in cui entrambi hanno espresso il meglio delle rispettive possibilità. Non potevano mancare, in questa galleria, grandi classici come le esecuzioni di Maria Callas e Christine Deutekom, declinazioni ovviamente diverse fra loro, ma egualmente degne di considerazione e attenta riflessione, del soprano drammatico di agilità. Ci sono poi le sorprese, come “Martern aller Arten” affidata alla voce dolcissima e sufficientemente agile di Maria Cebotari, mentre non soprende, ma non per questo risulta meno impressionante, la facilità con cui Lina Pagliughi viene a capo della tessitura astrale di “Ach ich liebte”: un’esecuzione che farà inorridire i sedicenti puristi, non fosse che per l’utilizzo della lingua italiana. E le riflessioni, ovviamente sempre più nostalgiche e passatiste, potrebbero continuare, ma andrei a sottrarre spazio agli ascolti, anche in vista della première di questa sera.
W. A. Mozart
Die Entführung aus dem Serail
Atto I
Ach, ich liebte
Lilli Lehmann (1907)
Hermine Bosetti (1910)
Felicie Hüni-Mihacsek (1923)
Lina Pagliughi (1942)
Eleanor Steber, dir. Emil Cooper (1947)
Beverly Sills, dir. Erich Leinsdorf (1969)
Atto II
Welcher Kummer…Traurigkeit ward mir zum Lose
Margherita Perras (1935)
Eleanor Steber, dir. Bruno Walter (1953)
Margaret Price, dir. John Pritchard (1972)
Martern aller Arten
Maria Cebotari (1935)
Ach Belmonte! Ach, mein Leben!
Christine Deutekom, Pietro Bottazzo, Oslavio di Credico, Rosetta Pizzo, dir. Peter Maag (1971)
Atto III
Welch ein Geschick
Charles Kullman & Eleanor Steber, dir. Emil Cooper (1947)