Werther a Bologna: Flórez non ridesta.

Curioso l’esito della première bolognese del Werther, che ha visto il debutto scenico nel ruolo di Juan Diego Flórez: pubblico folto ma teatro ben lungi dall’essere esaurito (tanto che stupisce osservare come si sia deciso di cassare dalle vendite on line non solo la prima rappresentazione, ma anche le altre due recite affidate al tenore peruviano, che si alterna con Celso Albelo nel ruolo dell’infelice poeta), applausi risicati nella prima parte dello spettacolo, passati sotto silenzio “O Nature” e “J’aurais sur ma poitrine” così come l’aria delle lacrime all’inizio del terzo atto, finalmente ovazioni e richieste di bis (non accolte, a differenza di quanto avvenuto alla susseguente matinée domenicale) alle strofe di Ossian, un tentativo di applauso (spento sul nascere) all’acme del duetto d’amore, applausi conclusivi clamorosi, ma d’incongrua brevità, indirizzati indistintamente a tutti i responsabili dello spettacolo. In biglietteria, durante gli intervalli e all’uscita dal teatro si potevano invece ascoltare lamentele più o meno vernacolari circa lo scarso valore del titolo, giudicato monocorde, povero sotto il profilo musicale, insomma un’opera minore, riscattata dalla performance del divo. E’ vero che il dramma lirico di Massenet è contraddistinto da una cifra plumbea, che solo nelle scene “di colore” dei primi due atti parzialmente si stempera, ma proprio il progressivo spegnersi di ogni illusione di riscatto attraverso l’amore dovrebbe sottolineare l’ineluttabilità della tragedia del protagonista, anzi dei protagonisti, perché non meno straziante è la solitudine di Carlotta, che condanna se stessa e l’uomo che ama per tenere fede non tanto a una promessa, ma a una falsa immagine di se stessa e dei propri doveri. Il tutto mentre la vita borghese scorre placidamente, rivolgendo per così dire un sorriso cinico alle sofferenze degli amanti mancati (il canto natalizio, accennato nel primo atto, che contrappunta la scena conclusiva è il sigillo di questa implacabile indifferenza). L’allestimento bolognese è risultato sotto questo profilo ben poco incisivo, e per una volta le responsabilità principali non sono del direttore musicale del teatro, Michele Mariotti (reduce, come il primo tenore, da altro titolo del repertorio francese). Intendiamoci, l’orchestra suona come in tutte le più recenti produzioni, ovvero con un suono tutt’altro che bello o anche solo a fuoco, ma con minori imprecisioni e fragori meno incontrollati rispetto agli standard delle ultime stagioni (salvo che nei finali d’atto, in cui la banda di paese incombe, e nell’intermezzo della notte di Natale, in cui i richiami degli ottoni, che dovrebbero essere tragici, trascolorano nel grottesco) e c’è almeno un tentativo di accompagnare il canto di conversazione (struttura portante di buona parte dell’opera). Funziona meglio, sotto questo profilo, la prima parte dello spettacolo, anche perché, quando il direttore tenta (a ragione) di infondere in orchestra maggiore vigore, inesorabilmente si scontra con i limiti vocali e di conseguenza interpretativi del primo uomo. Spiace dover ripetere cose già dette in altre occasioni, ma un cantante di mezzo carattere, per giunta accorciato in alto (dove suona ormai spinto e privo di autentica “punta”, ovvero squillo e facilità nel modulare la voce), che tenta di acquisire maggiore spessore al centro (decisamente esiguo) forzando e ricorrendo a tratti al parlato (dialoghi con Carlotta al secondo e al terzo atto), è quanto di più lontano da una parte creata in occasione della prima viennese da un tenore (Ernst van Dyck) che aveva in repertorio Des Grieux della Manon e Romeo, ma aveva già affrontato, fra gli altri, Lohengrin, Parsifal, Ernani e Rinaldo nell’Armida di Gluck (quest’ultimo al fianco di Amalie Materna). Al primo e soprattutto all’ultimo atto abbondano i suoni in difetto di appoggio, e che quindi risultano falsettanti (nonché, con il procedere della serata, in progressivo difetto d’intonazione), con conseguente difficoltà a cantare piano e a smorzare i suoni, facoltà che dovrebbero essere quelle privilegiate da un Werther “di grazia” (alla Kraus, per intenderci), mentre i momenti di maggiore impeto (soprattutto al terzo atto) risultano poco convincenti per la propensione dell’interprete a sovraccaricare e ad adottare accenti veementi, che mal si conciliano con uno strumento esausto e che risultano, quindi, stridenti quanto superflui. Si può soprassedere sulla pronuncia, diciamo più vicina all’italiana che non a quella francese, ma l’articolazione del testo, cruciale in un’opera come questa, risulta parimenti insufficiente, soprattutto nell’atto conclusivo, segnato da una stanchezza che non è quella del personaggio, bensì quella dell’interprete. Viene da chiedersi per quale motivo un tenore mediamente più preparato e musicale della media odierna avverta la necessità di proporsi in un ruolo che non è in grado di padroneggiare e che, più ancora, non gli consente di valorizzare le sue qualità. E’ del resto una domanda (tutt’altro che retorica) che trova uguale applicazione in Arnoldo come nel recente Raoul de Nangis. Ed è del pari deprimente che il debutto scenico, cruciale per l’approdo a un ruolo, avvenga in una produzione, a essere buoni, di provincia, contraddistinta da una Carlotta (Isabel Leonard) di bell’aspetto, ma attrice e soprattutto vocalista limitata (malgrado un po’ di volume, raggiunto a prezzo di urla come quelle udite nel terzo atto, quando la padrona di casa tenta di sottrarsi alla seduzione dell’ospite), da colleghi altrettanto modesti (con l’eccezione di Ruth Iniesta, corretta e spigliata, anche perché impegnata, a differenza dei colleghi, in una parte decisamente adatta ai suoi mezzi) e da una regia (di Rosetta Cucchi) che trasporta l’azione in una nebulosa Provenza anni Sessanta, banalizzando i richiami al mondo germanico di fine Settecento (fra temperie preromantica e aspirazioni Biedermeier ante litteram) in una sorta di open space dedicato all’arredamento d’interni, con una poltrona perennemente al proscenio che accoglie il delirante protagonista (dipinto come un alcoolizzato, più che come un esule dal consorzio umano), tableaux vivants prossimi alla recita parrocchiale (le sagome del piccolo Werther con i genitori e di due anziani ipotetici amanti, che appaiono nel finale a condividere un’impossibile serenità domestica), un bonsai di Natale a rimarcare la disperazione del suicida, gesti e sottolineature (il protagonista che, respinto da Carlotta, si “sfoga” avventandosi sul mobilio del salotto) che avrebbero potuto avere ben diversa pregnanza se maneggiati con differente mestiere scenico.

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2 pensieri su “Werther a Bologna: Flórez non ridesta.

  1. Werther titolo “minore” ? Ma quei signori passavano per caso in un Teatro d’opera ? Detto cio’, considerata una certa mia predisposizione per i titoli “minori”, mi sono interessato abbastanza a questo Werther bolognese; ho cominciato male perdendo la diretta ma poi un po mi sono documentato.
    Mi sono imbattuto in critiche entusiastiche:
    http://www.apemusicale.it/joomla/recensioni/28-opera/opera2016/3969-bologna-werther-15-12-2016
    http://www.corriere.it/spettacoli/16_dicembre_19/eleganza-pathos-werther-florez-ovazioni-d58f0cd4-c5f2-11e6-81c3-386103f9089b.shtml
    http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/musica/2016/12/18/trionfo-per-werther-e-florez-a-bologna_32886f01-2015-423b-949b-943349ae44f0.html
    Poi ho spiluccato sul tubo alla ricerca di qualche testimonianza dei 2 protagonisti: generica per la Leonard: al MET Rosina e 2 estratti di Cherubino, senza trovare riscontro all’entusiasmo delle recensioni di cui sopra; specifica per Florez, con 3 versioni dei versi di Ossian, nessuna esecrabile e nessuna indimenticabile (un po meglio delle 2 live in concerto quella in studio per il cd Decca).

    Quindi, ho ascoltato l’audio della prima:
    e, come era ahime’ abbastanza facilmente prevedibile, la realta’ per le mie orecchie e’ risultata assai piu’ vicina al resoconto di Tamburini che agli encomi della critica ufficiale.
    Comincero’ con una considerazione specifica: a mio modesto avviso, indipendentemente dal valore dell’esecuzione, non si dovrebbe chiedere e concedere il bis ai versi di Ossian, anzi non si dovrebbe neanche applaudire: troppo emozionante e drammatica e’ la scena per poterle dare soluzione di continuita’ qui addirittura c’e’ un principio di applauso al termine del duetto.
    Fatte salve le non ottimali condizioni d’ascolto, che potrebbero in parte inficiare il mio giudizio, abbiamo sostanzialmente un’orchestra che suona male, un ben brutto “chiaro di luna”, ma un po meglio negli ultimi 2 atti, tempi inspiegabilmente troppo sbrigativi in certi momenti (sto ascoltando ora l’inizio del 4^ atto). comunque, spesso ruvidita’ e clangori tutt’altro che gradevoli.
    Ed i cantanti: qualche riserva io ce l’avrei anche sulla Iniesta, che comunque si salva. I comprimari. tutti, chi piu’ chi meno, vocianti e sopra le righe, con particolari note di demerito ai 2 amici buontemponi, un po meglio Albert (ma poco) e il Bailli: non andiamo a cercare Dominique Roque e Armand Narcon nell’integrale del 1930 (quella con la Vallin e Thill, per intenderci): sarebbe inutile, e’ un altro pianeta.
    Definire Isabel Leonard “una bella donna” e’ riduttivo,. e’ veramente magnifica, ma se passiamo alla voce…. il materiale sembrerebbe esserci ma governato assai male: in qualche momento puo’ anche convincere (fugacemente, pero’), poi prevale un’emissione tubata, velata e, quel che e’ peggio, vociferante con notevole propensione all’urlo, gia’ chiaramente a partire dal finale 1^ e poi lungo tutta la recita. Siamo alle solite: se questo e’ l’unico modo per fare Werther al giorno d’oggi, vabbe’, quest’e’ ma forse in realta’ di meglio oggi si puo’ avere, proviamo a dire Veronica Simeoni ? Tanto per citare una cantante che ce l’ha in repertorio e lo fara’ tra pochi mesi al MET. E veniamo al protagonista e qui ancor piu’ si abbatte inesorabile la maledizione dei dischi: torniamo al discorso di prima, se dobbiamo fare Werther allora purtroppo forse meglio oggi non si puo’ avere, se vogliamo farla passare per interpretazione “da ovazioni”, non ci sto: troppo vividi e presenti, se guardiamo all’integrale, i fantasmi di Thill e Kraus e, se ci limitiamo al momento piu’ celebre, l’inarrivabile (diciamo con ottimismo: al momento ineguagliato) Schipa. Florez ci mette della buona volonta’ ma e’ spesso anche lui vociferante e sopra le righe, con emissione spesso dura soprattutto in alto: ci sono momenti (brevi) in cui puo’ convincere: “a votre serment restez fidele, moi j’en mourrai Charlotte”; ma poi dov’e’ su questa frase quella tragica rassegnazione che ci puo’ dare, sfumando il suono, solo una piena padronanza tecnica ? Kraus, appunto.
    Nel frattempo, ho terminato l’ascolto e ribadisco, ascoltando il finale, qualche riserva sulla Iniesta.
    Poi, ho visto che sul tubo e’ disponibile l’audio con il 2^cast: cioe’ Maria Jose’ Lo Monaco e Celso Albelo …. ma manca l’ultimo atto.

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