Aldilà delle considerazioni – tutte da venire – circa gli esiti della serata inaugurale della stagione scaligera e a prescindere da ogni valutazione sugli interpreti, sulla scelta del titolo, così da qualsiasi rievocazione della tradizione esecutiva, mi piace offrire alcune riflessioni sul vero “evento” di questo 7 di dicembre: ossia l’occasione di ascoltare la primissima versione di Madama Butterlycosì come uscita dalla mente e dalla penna di Puccini, battezzata proprio a Milano – nel medesimo teatro – la sera del 17 febbraio 1904, accolta da strepiti e fischi e mai più ripresentata in questa forma primigenia. Sgombro il campo da ogni equivoco: benissimo ha fatto Chailly, di concerto con la sovrintendenza, a presentare la prima versione dell’opera. Butterly è titolo frequentato sino all’abuso e all’inflazione e riproporlo nella redazione sentita e strasentita in decine e decine di occasioni era semplicemente insensato (per una prima di stagione). A ciò si aggiunga il fatto che si tratta di una vera e propria versione, con la sua indipendenza ed originalità e non uno scarto di lavorazione od un’ipotesi ricostruita: così come è giusto e lecito presentare Don Carlo, Macbeth, Boris Godunov, Lady Macbeth, Forza del destino etc… nelle loro forme originali, altrettanto lo è per Butterly. Inoltre l’occasione è più unica che rara, atteso che, senza nulla togliere alla versione originale, la cosiddetta versione tradizionale resterà quel capolavoro che tutti conosciamo e continueremo ad ascoltare a teatro. Nulla tuttavia ci impedisce di apprezzare uno sguardo nuovo sui capolavori del grande repertorio: proprio questo non è la ragione e lo scopo di una inaugurazione di un teatro importante? E quindi prima di assistere al consueto balletto, poco interessante e certamente poco edificante, dello “scontro” tra i sostenitori dell’intangibilità della tradizione e gli entusiasti della riscoperta che ne tesseranno gli elogi quale versione migliore e finalmente (sic!) riproposta, vediamo di mettere ordine tra versioni, date, modifiche, tagli e volontà autoriali senza assumere il ruolo non dovuto di esecutori testamentari di presunte disposizioni del compositore. Innanzitutto sbagliano entrambi gli schieramenti (chiedo scusa del paragone politico, ma la febbre referendaria ancora non è del tutto passata) perché se è vero che la prima redazione non è poi qualitativamente migliore di quella divenuta classica, è altrettanto vero che la versione tradizionale non corrisponde certo alle ultime scelte testuali di Puccini (le quali, anzi, sono state bellamente ignorate dall’editore e dalla stessa tradizione esecutiva). Si riparta dall’inizio: da quel 17 febbraio del 1904. Alla Scala va in scena Madama Butterfly: l’opera divisa in due atti viene accolta da un fiasco clamoroso e subito ritirata dall’autore. Le ragioni? Ignote si dice: forse l’eccessiva lunghezza del secondo atto, forse il clima troppo caricaturale dei costumi giapponesi, forse l’assenza di un’aria “strappa mutande” per il tenore, forse il carattere da vero bastardo di Pinkerton, forse una “spedizione punitiva” contro la Storchio…tutte ragioni plausibili, ma probabilmente le motivazioni di fondo vanno cercate nel clima politico e culturale dell’epoca e nella guerra più o meno dichiarata tra casa Sonzogno (promotrice della Giovane Scuola e, nell’immaginario dell’epoca, della musica nuova) e casa Ricordi (monopolista della tradizione melodrammatica italica). Probabilmente il fiasco fu un’imboscata dei “novatori” e dell’abile campagna stampa che precedette la prima. Come che sia Puccini si trovò in mezzo e lo shock per quel trattamento ingiusto fu tale da non voler più presentare una prima dei propri lavori nel teatro milanese. Dopo questo battesimo sfortunato l’opera venne abbondantemente rivista dal compositore e qualche mese dopo, il 28 maggio, Madama Butterly tornò a Brescia, in veste rinnovata. Cosa cambiò? L’opera rimase formalmente in due atti, ma il secondo venne suddiviso in due parti (nella prima versione le due parti erano unite senza soluzione di continuità da un’intermezzo – che poi divenne, dopo molte modifiche, l’introduzione della seconda parte/III atto – tra il coro a bocca chiuso e il risveglio di Butterly), il tenore perse un po’ del suo carattere maschilista e sgradevole, guadagnando un’aria (“Addio fiorito asilo”) che ne mostra una certa umanità. A ciò vanno aggiunti una miriade di altri interventi musicali, con tagli e tagliettini volti a smussare i tratti più colorati nella rappresentazione del carattere nipponico e a riportare la protagonista ad una dimensione essenzialmente piccolo borghese – stile sedotta e abbandonata – laddove in originale il suo carattere era più fiero, drammatico e tragico nell’accettazione dell’ineluttabilità del proprio destino. Le modifiche furono molte e coinvolsero anche il finale, ridotto e rivisto nella linea vocale (in origine più bassa). L’opera così fu un successo, ma le modifiche non finirono a Brescia. Dopo alcuni ritocchi per Bologna (1905) e per il tour statunitense (1906), Butterly sbarcò a Parigi, il 28 dicembre 1906 all’Opéra-Comique, dove assunse la forma in cui oggi è universalmente conosciuta: per l’occasione Puccini – su pressanti insistenze di Albert Carré – non solo ritoccò la musica ancora in modo consistente, ma espunse dal testo del libretto tutto ciò che poteva risultare “politicamente scorretto” nei confronti della cultura nipponica: sparisce quindi il monologo dello zio, le sprezzanti considerazioni di Pinkerton, l’incomprensione tutta occidentale del mondo giapponese, il conflitto culturale…e Butterly divenne ancora il prototipo dell’eroina pucciniana, come Mimì e Liù, la bambolina un po’ scema che si lascia turlupinare dal belloccio venuto dal mare, la fragile bambina di porcellana, in una dimensione piccolo borghese a frequente rischio di eccessi di melassa. Ma non finisce qui! Puccini ritorna alla sua opera nel 1920 e, libero dalle insistenze di Carré, ripristina nel testo alcuni brani tagliati per Parigi: in particolare ripristina alcune delle caratterizzazioni del primo atto e degli elementi giapponesi (tra cui il solo dello zio anche perché, dopo Parigi, vi era l’abitudine di tagliare l’intero concertato nel primo atto, con la scusa che non vi era bisogno di un cantante per lo zio: riaprendo il taglio Puccini sperava che non venisse più tagliato: speranza vana). Tuttavia l’ultima versione non venne mai pubblicata da Ricordi e rimase solo un’occasionale revisione d’autore, mai realmente circolata. Questa la storia: a ciascuno il proprio giudizio. Butterly resterà sempre quel capolavoro amato da migliaia di appassionati e scalderà sempre i cuori e l’animo (bagnando pure gli occhi) degli ascoltatori di tutto il mondo – almeno quelli dotati ancora di umanità – e la versione classica, così perfetta e compiuta, non verrà mai messa da parte, ma quest’anno potremo sentire qualcosa di parzialmente diverso. Di questo si deve essere grati, qualsiasi cosa si pensi della scelta e qualsiasi sarà l’esito della serata. Buon 7 di dicembre.
6 pensieri su “Aspettando Butterfly 1. Quale Madama Butterfly?”
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la mia domanda, che poi si ricollega alla questione se sia o meno legittimo riproporre una prima versione che poi non si rappresentò più per volere dello stesso autore, è la seguente: ma se era stato vittima di un complotto ( penso alla vicenda della prima rossiniana di Barbiere ), perchè l’ha lui stesso di sua sponte modificata per brescia? forse c’era qlche ragione….DI TEATRO…perchè Puccini è un mago del teatro, del senso del teatro e della rappresentazione, per cui lo stesso compositore riteneva che qualche cosa andasse sistemato. Non credo che la vicenda sia così semplice come la metti qui sopra. Se poi guardiamo ai principi dell’analisi critica, come possiamo ancora pensare che la prima edizione, perchè PRIMA, sia sempre la migliore, la piu perfetta, la ciambella col buco migliore? il teatro è qualcosa di vivo, l’operazione compositiva perchè non la possiamo ritenere perfettibile anche a valle della presentazione dell’opera al pubblico? Puccini, ripeto, era un uomo di teatro e nel teatro molto spesso tra il tavolino, il pensiero astratto e la messa in scena le cose possono essere viste sotto punti diversi. in scena qualcosa che funziona in prova può non funzionare come si pensava ed essere destinato a modifica.
IL tuo racconto ci dice di un accomodamento del personaggio ad esempio E non è mica poca cosa…come non è poca cosa il rapporto con il COLORE giapponese, la giapponeseria, per un uomo del liberty soprattutto. A Palazzo Reale una mostra sui tre massimi artisti giapponesi che formarono l’immagine del Giappone a fine ottocento in Europa, Outamaro, Hiroshige ed Hokusai per i quali gli artisti impressionisti impazzirono, ci dice moltissimo in questi giorni della differenza che intercorre tra la ns sensibilità odierna e quella del tempo di Puccini per il Giappone. E non parliamo dell’influsso sulla pittura e le arti applicate italiane dagli anni ’70 dell’ottocento in poi…. Le modifiche pucciniane, forse lo capiremo meglio stasera, non ruotarono tutte intorno all’equilibrio tra esotismo, melodramma, l’immagine reale e quella teatralmente possibile della geisha ( che non definirei una stupida, che peraltro viene comprata da Pinkerton…)?…….etc etc….Dalla recita di stasera potremo capire questo, direi. Molto altro dubito che troveremo..
Sai bene che ogni volta che un autore mette mano all’opera la modifica. Nessun complotto, ma solo vittima di circostanze. Come capita spesso. Del resto anche Verdi rivide il Don Carlo eppure circolano diverse versioni.
Chiaro poi che si tratti di una mera curiosità: del resto di Puccini e di Butterfly conosciamo praticamente tutto. Aprire con una Butterfly “normale” (così come si sente ogni anno in tante stagioni teatrali italiane ed estere) sarebbe stata una scelta molto discutibile. Che senso poteva avere? Così almeno c’è la possibilità di ascoltare qualcosa di diverso (di veramente diverso: una versione comunque compiuta e voluta così dall’autore, non l’ipotesi di Fanciulla). Ovviamente non sarà mai un’edizione che affiancherà la Butterfly classica (tanto più rifinita e bella), ma neppure era questo l’intento del teatro. Del resto neppure la versione parigina (quella tradizionale) è “definitiva”, atteso che Puccini vi pose mano di nuovo nel ’20, riaprendo diversi tagli (tra cui la francamente brutta canzone dello zio bonzo). Anche in questo caso ci si dovrebbe porre lo stesso dubbio? Che legittimazione avremmo per ignorare le ultime modifiche di Puccini? Ma purtroppo o per fortuna le pieghe della storia hanno strade proprie: così la Butterfly resterà sempre nella versione parigina, così come la Turandot resterà col finale di Alfano rivisto da Toscanini…e per cambiare autore, il III atto di Otello avrà sempre il concertato integrale e non nella forma sforbiciata da Verdi per Parigi (solo Muti si ostina a tagliare uno dei vertici verdiani per “fedeltà” alle volontà d’autore).
Grazie del chiaro sunto Duprez, giusto ieri rileggevo alcune pagine di Girardi su madama Butterfly ma non ricordavo il rimaneggiamento d’autore dell’20.
è sicuramente di grande intersse riscoltare la versione prima di un capolavoro come Butterfly.
buon ascolto a tutti.
Chiedo venia, ma non riesco a comprendere l’affermazione – peraltro ripresa da più parti – che <>.
Quante sono state le inaugurazioni scaligere “normali”, escludendo le prime assolute, che in ogni caso risalgono ai tempi lontanissimi in cui si davano regolarmente opere nuove?
Per “normale” ha da intendersi un qualsivoglia “titolo frequentato sino all’abuso e all’inflazione, riproposto nella redazione sentita e strasentita in decine e decine di occasioni”.
Il 90%? il 95%? Il 99%?
Tutte queste aperture di stagione “normali” – che numericamente sono la stragrande maggioranza – hanno quindi da considerarsi “insensate”?
la prima frase completa era:
Chiedo venia, ma non riesco a comprendere l’affermazione – peraltro ripresa da più parti – che “non avrebbe avuto senso aprire la stagione con una Butterfky “normale”.”