Cavalleria/Sancta Susanna a Bastille: Martone e (non) basta.

Ripresa parigina per la Cavalleria ideata da Mario Martone per la Scala: del dittico proposto al Piermarini è stata nuovamente messa in scena la sola opera di Mascagni, abbinata stavolta a Sancta Susanna, opera giovanile di Hindemith (allestita pochi anni fa al Ravenna Festival da Chiara Muti per la bacchetta di papà Riccardo). Lo spettacolo si conferma potente in alcune suggestioni spaziali e visive (complici le belle luci di Pasquale Mari), al netto di alcune trovate discutibili (il sacrificio dell’agnello pasquale, rituale pagano “sublimato” dalla celebrazione della Messa e poi dall’uccisione di Turiddu, e l’apparizione iniziale del bordello semovente), soprattutto perché disturbano, senza nulla aggiungervi in termini di potenza evocativa, l’essenzialità di un décor brechtiano che, rimandando alle sacre rappresentazioni del nostro Meridione, asseconda il crescendo drammatico dell’azione, toccando l’apice nell’addio alla madre, davvero struggente nell’enorme spazio vuoto di Bastille, e nell’uscita di scena di Santuzza, definitivamente isolata dalla comunità non solo per il peccato della carne, ma soprattutto per quello dello spirito (il tradimento, assolutamente speculare a quello da lei subito, perpetrato attraverso la delazione). Più realistico, all’apparenza, l’approccio all’opera di Hindemith: lo spazio non è la chiesa del convento descritta dal libretto, bensì la cella di Susanna (ma potremmo anche essere in una clinica psichiatrica, sembrano suggerire le bianche vesti della protagonista, che evocano una camicia di forza), microcosmo assediato dalla forza tellurica della natura, già corrotto nelle sue fondamenta (le crepe che solcano l’edificio), progressivamente sbriciolato dal venir meno delle resistenze della religiosa e dal progredire della sua ossessione onirico-erotica. Un mega-ragno kafkiano (realizzato da un gruppo di bravissimi mimi) e l’apparizione della peccatrice Beata sembrano raffigurazioni non indispensabili, ma contribuiscono a creare un clima di autentico orrore e angoscia, mentre la sensualità, pur presente nella partitura, viene liquidata quasi con fastidio e confinata a un paio di nudi femminili (più o meno) integrali. Nel complesso, va riconosciuto al regista il merito di non avere cercato a ogni costo un’unità espressiva tra due testi così diversi, l’elemento religioso e sensuale essendo in Cavalleria decisamente subordinato al tema dell’onore, di cui non c’è traccia nel libretto di August Stramm. Pur nelle sue imperfezioni, l’allestimento dimostra una qualità di cui non si ravvisano tracce nell’esecuzione musicale, affidata, come già per l’ultima ripresa di Cavalleria a Milano, a un esausto Carlo Rizzi. La riduzione di Sancta Susanna a una sorta di incubo raggelato risulta, tutto sommato, un peccato veniale, anche perché l’orchestra non accusa (maggiori prove in vista di un cimento reputato più complesso?) le incertezze, gli attacchi fuori tempo, gli “scivoloni” di intonazione che abbondano, invece, nell’esecuzione dell’opera di Mascagni. Quel che disturba maggiormente non sono, però, simili imperfezioni, bensì il fatto che la direzione non colga quasi mai la cifra caratteristica della tragedia siciliana: predominano i tempi slentati, ma in orchestra latitano la sensualità e l’autentico abbandono, così da rendere pesanti e pacchiane le struggenti melodie previste dall’autore. Quando tenta di esibire slancio e afflato drammatico (sezione conclusiva del preludio, chiusa del duetto Santuzza-Alfio, finale dell’opera), Rizzi diviene enfatico e l’orchestra ricorda una banda paesana, ma più spesso le sonorità risultano tenui, anzi smunte, con effetti al confine del ridicolo all’entrata di Alfio, nell’inno pasquale e nello scontro fra Santuzza e Turiddu, mentre l’intermezzo potrebbe descrivere il placido pomeriggio di un paesaggio nordico, non certo la quiete prima della metaforica tempesta in un assolato meriggio siciliano. Dignitosa la Lola di Antoinette Dennefeld, che ha almeno un certo garbo nel porgere, inudibile o quasi la Lucia di Elena Zaremba (possibile che non si trovino più comprimari dignitosI per ruoli piccoli, ma cruciali come questo?), scarso nel volume e privo di squillo in alto, ma se non altro meno becero della media odierna, l’Alfio di Vitaliy Bilyy. Il peggiore della compagnia di canto è senza alcun dubbio Yonghoon Lee, maldestro affondista che vorrebbe imitare Corelli e del Monaco e non arriva al peggior Kaufmann: voce bloccata nel naso, acuti emessi di preferenza sulla vocale E, dizione e linea di canto semplicemente improponibili. Davanti a lui Elina Garanca (debuttante nel ruolo dopo il forfait scaligero dello scorso anno) risulta se non altro più quadrata sotto il profilo musicale, ma gli attacchi stridenti sul fa diesis/sol acuto (presenti fin dal dialogo iniziale con la mancata suocera e via via più frequenti, soprattutto quando la scrittura passa nel giro di poche battute, come nel dialogo con Lola, dal registro medio-grave, piuttosto tubato, a quello superiore, in cui abbondano i suoni ghermiti) privano il personaggio della necessaria malinconia, senza che vi sia una “polpa” vocale capace di compensare i limiti di una lettura piuttosto brada, oltre che poco fantasiosa sotto il profilo del fraseggio. E non si obietti che la belcantista (ché tale la Garanca è reputata) si troverebbe a mal partito in questo repertorio, dal momento che Giulietta Simionato e Fiorenza Cossotto alternavano Mozart, Rossini, Donizetti e Mascagni (e si taccia di Verdi) senza risultare non dico mediocri, ma fuor di posto. L’altro supposto mezzosoprano di ascendenza belcantistica, Anna Caterina Antonacci, propone una Susanna di fatto parlata, in cui è soprattutto la scarsa consistenza della prima ottava a colpire negativamente (anche se, a onor del vero, la cantante ha sempre fatto pensare a un soprano lirico non sfogato in alto, piuttosto che alla voce ibrida fra mezzo e soprano descritta e in alcuni casi magnificata dalla critica): le basta comunque la presenza scenica (e un fisico ancora invidiabile) per imporsi sulle consorelle e guadagnare, in uno con la Garanca, gli applausi più calorosi di una sala tutt’altro che esaurita (nonostante gli sconti generosamente profusi, persino on line, nelle settimane precedenti la rappresentazione).

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Un pensiero su “Cavalleria/Sancta Susanna a Bastille: Martone e (non) basta.

  1. Aggiungo due righe al pezzo di Tamburini che mi trova in totale accordo per riferire della prestazione pessima di Elena Zhidkova che alla prima per i giovani cui ho assistito ha rimpiazzato la bella Elina (che non voleva arrivare stanca alla prima). La cantante ha formato col pessimo tenore un vero duo dell’orrore che ha rovinato la musica di Mascagni. Taccio della terribile Mamma Lucia per rilevare che i migliori sono stati Alfio, che pareva quasi un cantante decente di fronte ai protagonisti, e sopratutto Lola.
    Bello e suggestivo Sancta Susanna con protagonista il décolleté della Antonacci, la quale non finge nemmeno più di cantare ma si dedica con buoni risultati alla declamazione di prosa.

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