Un anno dopo la catastrofe che la Deutsche Oper aveva combinato col suo allestimento del Vasco de Gama, ampiamente recensito da noi, il ciclo meyerbeeriano è stato seguito da una nuova produzione de Les Huguenots. E’ la tappa penultima, prima de Le Prophète atteso per il 2018, di un’operazione baldamente chiamata “Meyerbeer Renaissance” di cui i rappresentanti della Deutsche Oper si sono autoproclamati come i capi, non da ultimo per la semplice ragione campanilista che Meyerbeer fosse berlinese. In vista del recente interesse soprattutto per Les Huguenots con cui è stata simultaneamente aperta la nuova stagione di ben due teatri minori, Kiel e Würzburg, il Chefdramaturg della Deutsche Oper punta verso i vantaggi del massimo teatro berlinese nell’affrontare un simile colosso scenico-musicale, ossia il grande spazio e la possibilità di impiegarvi risorse umane e sceniche inaccessibili per teatri di dimensioni più piccole. I prerequisiti oggettivi ci sono effettivamente, ma i medesimi si trasformano immediatamente in uno svantaggio imbarazzante quando né i solisti, né direttore e registra riescono ad essere sufficienti alle dimensioni sia del pezzo che della sala.
L’estetica dell’opera
Con Les Huguenots, creato all’Opéra di Parigi nel 1836, ci troviamo davanti al prototipo e forse più completo esempio dell’opera storica/storicista monumentale. Congiungendo un grande evento storico, descritto con massima attenzione al dettaglio storiografico anche pseudo-autentico, ed un conflitto personale di individui storici, quasi-storici o inventati, si crea un affresco al pari dei due altri generi monumentali dell’epoca, ossia il romanzo storico-realista e la cosiddetta pittura storica, inscrivendo il fatto dei singoli nella dinamica travolgente dei movimenti di massa e di eventi epocali, mentre questi ultimi, per quanto torrenziali, vengono da parte loro dipinti come influenzati da piccolissimi risultati casuali. Esemplare in questo senso il leggendario quarto atto de Les Huguenots in cui è non solo il destino storico e sovraindividuale ad impedire al protestante Raoul ed alla cattolica Valentine di amarsi, ma, all’inverso, è anche la reciproca dichiarazione d’amore nel momento di massimo pericolo a “rallentare” Raoul, impedendogli di allertare gli ugonotti del massacro complottato dai cattolici. Nel 1836 Les Huguenots ha offerto ad un pubblico parigino afflitto per più di mezzo secolo da scosse più veementi le une delle altri, la rappresentazione teatrale di un profondo pessimismo storico, per cui gli eventi si sviluppano senza teleologia prescritta, senza piano divino, anzi possono dipendere da un dettaglio casuale, anche il più infimo.
Una tale visione invita da sé ad un lavoro più meticoloso, quasi da close-up, sulla raffigurazione dell’evento storico in primo luogo nel senso della ricerca della couleur locale o della couleur du temps attraverso scenografia, costumi e scene di genere o l’introduzione di arcaismi musicali, ma soprattutto anche nel senso di un nuovo dinamismo dell’azione, permettendo allo stesso tempo di dispiegare con prodiga ampiezza lo sviluppo degli eventi e mostrarne la casualità e fatalità. Inoltre, trovandosi davanti ad un nuovo pubblico urbano-borghese emerso dalla rivoluzione del 1830 e profondamente disorientato per i cataclismi che avevano radicalmente cambiato l’ordine sociale, religioso, economico e politico, il team dell’Opéra era obbligato a optare per un’estetica in cui ogni gesto e pensiero veniva esposto e caratterizzato con la massima clarté ed efficacia teatrali, forse simili al metodo hollywoodiano di enfatizzare persino le mezzetinte per fare in modo che venissero percepite come tali.
La grande innovazione, anzi rivoluzione, de Les Huguenots consiste nell’introduzione del tragico grottesco in quella sintesi del canto all’italiana, del declamato francese, dei balli, della pantomima, delle scene di massa e della ricerca di autenticità storica, che costitutiva il grand-opéra persino fino alla coeva Juive di Halévy che, per quanto monumentale e ricca di colori, parla tuttavia un linguaggio tutto impregnato dalla dignità cherubiniana, quasi classicista, eccetto qualche piccolo tratto del grottesco nel caratterizzare l’ebreo Eléazar. Il grottesco tragico, ispirato da Shakespeare e riattualizzato in Francia da Victor Hugo, rappresenta quel procedimento per contrasti che ne Les Huguenots permette di creare l’atmosfera di una “danza sul vulcano” e di accentuare il cinismo di una storia abbandonata da Dio, procedimento divenuto così caro per un Verdi nel Rigoletto o nel Ballo, opere che guardano esplicitamente al grande modello meyerbeeriano.
Un altro aspetto che fa de Les Huguenots una concezione senza precedenti è il fatto di trattare il tempo o la storia non semplicemente come un tema del dramma, ma di incorporarlo nella sua forma stessa. Iniziando con due atti che non sono altro che la rappresentazione dell’ozio e dell’escapismo di stampo edonista, dilata fino all’impossibile, nel terzo assistiamo all’accendersi di un conflitto sopito, dopodiché nel quarto e nel quinto atto l’azione si svolge sempre più velocemente fino a portare alla catastrofe. Il quinto atto, al contempo il più corto e l’unico a richiedere ben tre cambi di scena (1. il ballo, 2. un cimitero davanti ad una chiesa, 3. breve scena su un lungosenna parigino), rappresenta quel culmine in cui l’accelerazione non si limita più all’accelerazione della dinamica da un atto o una scena all’altra e passa invece nella fattura stessa del lavoro musicale sui motivi. Il corale luterano, Leitmotiv principale sin dall’ouverture e rievocato ripetutamente da parte di Marcel attraverso l’intera opera, viene intonato dalle donne protestanti rifugiate nella chiesa sullosfondo. E’ la sua interruzione – travolgente effetto acustico – ad annunciare l’intrusione degli assassini nella chiesa di cui cominciamo a diventare i testimoni, all’inizio solo attraverso l’udito, di un massacro che man mano si avvicina dei tre protagonisti nel cimitero. Due volte le donne riaccennano il corale – “Ils chantent encore!”, commentano Marcel, Valentine e Raoul – , entrambe le volte vengono silenziate dai colpi di fucile e dopo la seconda sparatoria i tre protagonisti confermano: “Ils ne chantent plus…”. Nell’accesso di coraggio sono i tre a riprendere il motivo del corale a tempo veloce nella loro visione delirante per essere ancora una volta interrotti dagli assassini che irrompono sul palcoscenico. Più si va avanti, più la melodia del corale si frammenta, si atrofizza, viene ripreso persino dai cattolici e alla fine rimane del tutto irriconoscibile, non lasciando ai protagonisti altro che urlare “frappez!” e “non!” tra le interiezioni dei cattolici, con tanti Si bemolle acuti sempre più strettamente ribattuti, un lungo Si ed un Do per Valentine. E’ il Tempo stesso che va a pezzi e naufraga in una catastrofe che lascia senza voce, senza qualcosa da dire e tanto meno da comandare, persino la Regina che entra all’ultimo momento.
Regia e direzione
E’ proprio questo quinto atto ad avere dimostrato in nuce l’incomprensione del regista David Alden e del direttore d’orchestra Michele Mariotti per il procedimento meyerbeeriano. E’ stato il male minore che, malgrado la decisione di eseguire lo spartito quasi integralmente – quindi quattro ore intere di musica –, sulla basi della nuova edizione critica, abbiano cionondimeno fatto ricorso all’edizione tradizionale di Breitkopf & Härtel per il secondo e terzo finale, accorciando di nuovo ad esempio la fuga spettacolare che rappresenta la rissa tra i vari gruppi dei cattolici e protestanti nell’atto del Pré-aux-Clercs. Tengo a ripetere che sono gli interventi nello spartito del quinto atto ad avere provato che l’integralità non significa nulla, se si fa un solo rimaneggiamento sbagliato ad un momento chiave. I tagli nella scena della visione in cui i tre protagonisti intonano il corale luterano sono stati tali da avere completamente mutilato il concetto drammatico-musicale di Meyerbeer esposto più sopra. Apparentemente hanno avuto ancora più grandi difficoltà a capire perché a questa scena del cimitero dovesse seguire un cambio di scena per buttarci brevemente, per i due ultimi minuti, sul quai parigino invece di fare venire St. Bris e la sua banda nel cimitero, uccidere i tre ugonotti e farla finire lì. La coda della stretta del terzetto è stata collegata senza interruzione agli accordi iniziali di quella corta scena finale. Eppure, a dispetto dei discorsi di Alden sulla tecnica di montaggio, collage, l’ironia ed il “postmodernismo” di Meyerbeer, si rivela che Meyerbeer, Scribe ed il loro team ne sapevano molto meglio persino del montaggio e della tecnica postmoderna di frammentazione. L’intenzione attraverso l’intero quinto atto non è altro che il graduale ritiro, anzi recesso, autoscioglimento, della musica o di qualsiasi altro principio unificante davanti al prorompere in scena di un’azione catastrofica, il che viene testimoniato anche dalla proliferazione delle indicazioni nel libretto. Sono la frammentazione totale della fattura melodica, dell’unità scenica e non da ultimo le armonie caotiche della melodia degli assassini al limite della bipartizione tra maggiore e minore, a dare corpo al fatto che il Tempo e l’intero ordine siano ormai irreversibilmente “fuori squadra”.
Di questa dinamica stravolgente nessuna traccia nella regia di Alden, anche se già durante l’ouverture sotto un tetto giallastro, che scenderà nel quinto atto per rappresentare la chiesa di rifugio, viene appesa una grande campana che vi rimane per l’intera serata come il memento dell’imminente tragedia. Eppure, rimane un simbolo morto, come anche nel resto del dramma e soprattutto nel grande duetto d’amore del quarto atto Alden non riesce a rendere in modo palpabile l’allarme e la precipitazione.
Pur evitando la banalità di “attualizzare” il dramma per farne uno specchio del problema di fanatismo e fondamentalismo nel mondo odierno (tra l’altro, il tema evocato più spesso per “giustificare” la necessità di riesumare Meyerbeer), non opta neanche per uno spettacolo storico. Invece trasforma il palcoscenico in uno spazio vuoto multiuso in cui fa piazzare tavole da festa, scranne, canapè, fa scendere un sipario di verde smeraldo ornato di gigli regali quando siamo in casa di Nevers, fa scendere il tetto giallo per rappresentare una chiesa. Insomma, un altro regista che vuole “disintossicare” il grand-opéra dalla pompa vana. I personaggi e membri del coro sono tutti vestiti di abiti di varie epoche – scelta giustificata da Alden con l’argomento che anche Meyerbeer avesse lavorato su diversi piani temporali per quanto riguarda la fattura musicale.
In realtà si tratta di una profonda perplessità, anche ammessa, da parte del regista di fronte alle dimensioni gigantesche de Les Huguenots e della varietà davvero enciclopedica del suo materiale. Adotta qualche dettaglio dal libretto: i cavalli, i ritratti della famiglia di Nevers nel quarto atto, ma senza un vero orientamento. Per il resto gli viene l’idea, per sé apprezzabile, di “seguire la musica”, e finisce per lasciare fare ai caratteri dei movimenti danzanti solo perché i ritmi della musica in specie nei primi due atti gli ricordano i ritmi maneggevoli e, appunto, “danzanti” dell’operetta o dell’opéra comique. L’esagerazione di questo “danzare con” i ritmi svaluta l’intenzione di recitare “con la musica” ed è lontanissimo da quella clarté pantomimica che doveva unirsi alla resa vocale nell’autentica estetica del grand-opéra,, men che meno dalla “leggerezza” del grottesco tragico. Ne risulta un eccesso di movimento nei primi due atti in cui sono proprio il far niente e la dilatazione del tempo che sono messi in scena ed in musica, mentre dal terzo atto in poi la drammaturgia di Alden dà l’impressione di immobilità, anche se ci sono parecchie cose che accadono sul palcoscenico. Ne è una dimostrazione esemplare il suo approccio al terzo atto che dovrebbe essere un tableau della vita urbana, con studenti, soldati, scrivani, grisettes, operai, mercanti, musicanti di strada, monaci, borghesi, gitane e tanti altri, formando un mosaico differenziato a mezzo di una polifonia limpida ed una successione di cori e ballabili che sia scenicamente che musicalmente accrescono la polarizzazione fatale della società. La regia di Alden non riesce a mettere in luce questa eterogeneità, anzi va contro la logica di Meyerbeer e Scribe (e parlo della “logica” inerente al brano, non di qualche prescrizione assolutamente da seguire come un testo sacro), riducendo le danze a pantomime poco significanti. Li dove la musica è apertamente descrittiva, come nei balli del terzo atto o nella scena di festa all’inizio del quinto, Alden opta per lo “straniamento”, immobilizza il coro, e rende banale ed inutile la musica, mentre lì dove la musica non fa altro che procedere in un certo ritmo preciso, vengono aggiunti gesti e movimenti ritmizzati, doppiando la musica e la rendendo banale un’altra volta. Si pone la domanda perché Stefan Herheim, dapprima previsto come regista di questi Huguenots non abbia più assunto il compito, lui che avrebbe sicuramente saputo elaborare una regia di masse di ben altro livello, come già provato nei suoi Meistersinger salisburghesi.
La direzione d’orchestra di Michele Mariotti, a parte la fondamentale incomprensione e la scelta di tagli menzionati più sopra, ha lasciato a desiderare non solo quel che riguarda l’alta sfera di “interpretazione”, ossia la qualità frizzante, l’esattezza e lo slancio richiesti dallo spartito, ma ha dimostrato grossi problemi nella semplice gestione dell’orchestra, nel mantenere insieme buca e palcoscenico e nel dare punta teatrale e scopo narrativo al materiale strumentale. In mezzo a tanta pesantezza e mancanza di trasparenza e concentrazione si sono persi tantissimi di quei dettagli di strumentazione, di fraseggio, di sfumature dell’”enciclopedia” che sono Les Huguenots, e quei passaggi che il direttore ha provato a cavare fuori, come nel “Andante amoroso” del Gran Duo, sono rimasti isolati e senza contesto, perché mancava la visione complessiva di fronte a questo mosaico gigantesco. Lasciando quindi tutt’altro che l’impressione di una guida sicura, si chiede se il lavoro apprezzabile fornito dal coro della Deutsche Oper non sia stato frutto principalmente del suo direttore Raymond Hughes. Senza dimostrare una particolare nobiltà di suono, cionondimeno hanno garantito un minimo di precisione e sonorità coinvolgente, specie nella Benedizione dei Pugnali.
I cantanti
Rimane a discutere l’esito dei solisti di cui il risultato complessivo è la desolante qualità di pronuncia francese. Per i particolari cominciamo dalle voci maschili gravi.
Già il fatto di affidare il ruolo di Nevers ad un baritono dalla voce grigia, senza punta né eleganza di fraseggio o qualche particolare dono di dizione (pur essendo l’unico francese del cast), è un segno che oggi si fa fatica a considerarlo come un ruolo principale che veniva cantato dai più grandi baritoni quando Les Huguenots era ancora l’opera delle “sette stelle”. Il basso-baritono Derek Welton nei panni di St. Bris ha voce più voluminosa, ma emessa senza quella libertà che gli permetterebbe di dominare la scena della congiura con un suono potente ed un declamato dalla dizione impeccabile che sono imprescindibili per una resa efficace della scena. Il Marcel di Ante Jerkunica, basso di casa, ha ricevuto gli applausi più calorosi della serata, forse perché nei momenti più lirici come la sua scena prima del duetto con Valentine o nell’Interrogatoire del quinto atto ha fraseggiato con una certa dignità, mente sia il Corale che il canto guerriero del primo atto hanno evidenziato la sua assoluta incapacità di gestire gli acuti che li rimangono nella gola, come anche una proiezione penalizzata da un’emissione del tutto ingolata, facendone una voce che sparisce ad ogni innalzarsi del volume orchestrale.
Per quanto riguarda i tre soprani, il paggio Urbain dell’americana Irene Roberts sfoggia una voce piuttosto ampia negli acuti, mentre il centro è schiacciato, spesso, duro. Lo stile è lontanissimo da qualsiasi immagine ideale di un androgino che parla la lingua del belcanto al pari della sua regina. Quest’ultima invece, rappresentata da Patrizia Ciofi, parla difatti, ma senza neanche la sonorità di una semplice voce parlata, appena la tessitura scende al centro e nei gravi in cui Marguerite pronuncia i suoi comandi e desideri. Nell’ottava superiore c’è qualche nota che possiede ancora proiezione quando emessa in mezzo piano. Più si sale, più cresce la fissità nei piani o contrazioni di gola e l’incertezza d’intonazione quando decide di regalarci dei sopracuti a squarciagola. Al termine della stretta della grande aria del secondo atto fa (forse consigliata da direttore e regista) lo “straniamento” del soprano di coloratura (per cui, bisogna dirlo, Patrizia Ciofi non richiederebbe particolari tecniche brechtiane…), raffazzonando la sua cadenza di citazioni dalla scena della pazzia di Lucia, dall’aria di Olympia, i picchettati della Regina della Notte. Più convincente di questo postmodernismo vocale risulta la sua apparizione muta nel finale quinto, con vestito bianco sporco di sangue, appunto da Lucia.
Olesya Golovneva nel ruolo di Valentine è più lontana possibile da qualsiasi voce falcon, avendo a disposizione solo degli acuti emessi in modo piuttosto grosso, ma sicuro, il che le permette di reggere la tessitura alta della parte. Al centro dimostra una voce completamente chiusa per la sua qualità gutturale e dei gravi rauchi, che vengono violentemente sbiancati per darsi un poco di sonorità in un ruolo che insiste tanto sulla parte bassa della voce. Neanche una traccia di quella dizione scolpita che, accanto ad un peso vocale molto più importante, dà senso ai momenti chiavi del ruolo che sono completamente risolti in un declamato patetico.
Juan Diego Florez è stato la star atteso della produzione, con il suo debutto nel ruolo di Raoul de Nangis. Arriva preparato, sempre lui stesso, canta la sua Romanza nel primo atto senza fare dei danni e senza venire coperto dall’orchestra come nel resto dell’opera, fa qualche bella frase nel duetto con la regina. Per il resto dà l’impressione di una miniatura al posto di un eroe da affresco, sparisce nei pezzi d’assieme, in specie nel settimino del duello e per compensare l’oggettiva mancanza di tonnellaggio adeguato per il ruolo prova di capitalizzare sugli acuti che diventano sempre più forzati. Se si volesse difendere un tenorino di grazia in un ruolo di ben altre dimensioni con l’argomento del “ritorno alla prassi dell’epoca”, allora si pone la domanda: come mai un tenore considerato specialista del repertorio belcantistico, invece di forzare di petto, non è capace di risolvere gli acuti estremi in un falsetto ampio o con la voix mixte soprattutto nel Andante amoroso che, guarda caso, tantissimi di quei “tenoracci” eroici che più tardi hanno “snaturato” la nostra percezione del ruolo riescono a fare accanto al trillo e a tutto il resto del bagaglio richiesto? Anche se bisogna lodare il coraggio di Florez di affrontare questo ruolo dieci volte più grande di lui senza grandissimi tagli e anche se riesce a reggere fisicamente fino alla fine, il suo Raoul finisce con la prima romanza. Non è un caso che alle uscite singole il pubblico della prima – tra cui si trovavano anche dei critici confusi a cui non costa niente chiamare nelle loro recensioni Florez un Heldentenor – non gli abbia regalato quel trionfo a cui il divo ha risposto con i suoi inchini e ringraziamenti interminabili, se non altro, poco rispettosi dei suoi colleghi che degli applausi hanno ricevuti molto di più di lui. Quanto ai segni di contestazione, è stato, come ormai di tradizione, solo il team di regia a ricevere i suoi immancabili buh di cortesia.
Gran bel articolo Giuditta ,sempre un piacere leggerti …
Anno bisesto = Anno funesto.
proprio vero! vorrei anche aggiungere che siamo in un anno lunare embolismico (e quindi un anno lunare formato da 13 mesi, e il mese in più è iniziato il giorno dei morti e quindi trattasi di mese particolarmente infausto).
Mi unisco anche io ai ringraziamenti a Giuditta Pasta per il piacevole articolo.
Ho ascoltato la registrazione di questi Ugonotti. L’orchestra berlinese suona bene (ovviamente) ma è il direttore ad essere assente: non ho mai provato così tanta noia ascoltando Les Huguenots, opera che adoro. Tutto grigiastro e assai poco caratterizzato… paradossale in un’opera che offre una varietà di situazioni enciclopedica! I cantanti mi sono parsi dei poveretti senza arte né parte messi lì per far figurare al meglio Florez che, onestamente parlando, si è rivelato in forma migliore rispetto alle generalmente imbarazzanti prove recenti; certo, resta un protagonista di Grand-Opéra lillipuziano, inudibile negli insiemi e coperto da chiunque duetti con lui persino dall’ombra Ciofi negli acuti. Quest’ultima è spettrale fino all’inverosimile con una voce flebile e ormai completamente priva di timbro adatta a interpretare Papagena da vecchia; la cadenza con le citazioni da Lucia, Olympia è scandalosa e dimostra ancora una volta come questi ruoli vengano regolarmente fraintesi. Tra le stranezze il paggio ha più voce e temperamento di Valentine, la quale ha, di fatto, solo gli acuti. Male Marcel e Nevers. Insomma, sarà quasi integrale ma questa riproposizione si è rivelata del tutto INUTILE.
Mi auguro che Le Prophète sia eseguito finalmente integralmente e con cast differente (anche se la Ciofi secondo me ce la dobbiamo sorbire ancora) così almeno ci sarà un motivo per ascoltare l’opera.
Grazie Giuditta ! Un vero e proprio saggio informato e ben scritto. Grazie ancora
Finalmente son riuscito a sentirli!
Ma come ha potuto la Ciofi arrivare a tanto?? non so se disperarmi o arrabbiarmi….
Tra l’altro chiude su un re invece che su un mib…ha abbassato tutto di mezzo tono, o è la mia registrazione? E poi quella cadenza terribile; avesse almeno levato tutto (tanto lo abbiamo capito in che condizioni è).
“Ma perchè?? perchè??? perchè lo hai fatto??”