Cronache dalla Ville Lumière: Ermione di Rossini

Ogni riproposizione di Ermione, probabilmente il capolavoro più sfortunato di Rossini, costituisce un’attrazione irrinunciabile per ogni appassionato di belcanto e una sfida ardua per chi se ne fa carico. Alberto Zedda, a proposito del quale ho letto un paragone quanto mai azzeccato col maestro Yoda cui ormai somiglia per età, esperienza e fattezze fisiche, è stato e continua ad essere ancor oggi un alfiere della musica rossiniana (e non solo), cui si dedica con ardore ed energia che, in rapporto alla veneranda età, hanno davvero dell’incredibile. Questo è forse il più grande merito di Alberto Zedda, un merito che, a mio avviso, supera l’operato degli ultimi anni per quanto concerne dichiarazioni quantomeno bislacche, assurde scelte artistiche per il Rof, scriteriate scelte di cast e promozioni di figure pessime o, alla meglio, mediocri in quella specie di corte dei miracoli che è diventata Pesaro. Voglio credere, se non altro per il rispetto dovuto allo studioso e a ciò che rappresenta simbolicamente, che tutto ciò sia da imputare alla vecchiaia.

Zedda ha diretto l’opera con i pregi e i limiti che gli sono propri: da una parte mano sicurissima e padronanza dello stile (nonostante vi siano state deroghe rispetto a posizioni di cui un tempo era baluardo relativamente ad acuti fuori ordinanza o variazioni di dubbio gusto), dall’altra poca fantasia, poche sottigliezze, insomma, doti interpretative non eccelse. La direzione è stata improntata alla drammaticità con tempi generalmente solenni, poco rapidi, solo a tratti un poco pesanti, ma il suono orchestrale è stato pienamente romantico e diametralmente opposto a quel petit style rossinano che oggi va tanto di moda; ciò non ha favorito la maggior parte dei cantanti che, pur se ottimamente accompagnati e sostenuti con grandissima precisione, hanno dovuto affrontare questo Rossini senza sconti. In questa visione tutta a tinte fosche che però difettava di guizzi interpretativi e, nel secondo atto, di quel parossismo febbrile, estremo e degenerato, (oltre che esagerato) che conduce alla catastrofe, l’orchestra ha assecondato il direttore con correttezza (ottoni a parte). Buona la prova del coro.

Due parole sulle seconde parti: non pervenuta Josephine Göhmann (Cefisa), esilissima e inopportunamente cinguettante con tanto di sopracuti e variazioni inutili Rocio Perez (Cleone), indecente per canto e dizione Patrick Bolliore (Fenicio), voce leggera ed educata quella del tenore André Grass (Attalo). La parte di Pilade non rientra tra le principali, ma ha una certa importanza nell’equilibrio di alcuni pezzi ed è vocalmente impegnativa: Enea Scala, ultimamente molto apprezzato oltralpe forse per il bell’aspetto, bercia a più non posso e senza un minimo di buon gusto rovinando irrimediabilmente la sortita di Oreste. Scala canta senza alcun criterio con una voce oltremodo sgradevole e dura compiacendosi di disseminare ovunque urlacci che col canto hanno davvero poco a che fare. La perla nera della serata è stato il duettino con Fenicio in cui i due pessimi cantori hanno dato il peggio di sé tra gli applausi del pubblico. Essere bellocci evidentemente serve a qualcosa visto che Scala ora canta addirittura Juive, Stuarda etc.

Veniamo alle prime parti che, come è ben noto, Rossini scrisse a Napoli su misura delle doti eccezionali dei suoi cantanti, in questo caso Colbran, Nozzari, David e Pisaroni. L’ascolto dal vivo accentua notevolmente la già forte percezione che si ha negli ascolti delle registrazioni live e non della mostruosità di queste parti: ecco perché opere come Ermione, se dovessimo essere del tutto onesti e intransigenti, dovrebbero essere messe da parte in attesa di cantanti che possano davvero rendere giustizia a questi ruoli. Ciò messo in chiaro, bisogna confrontarsi con i fatti contingenti e ammettere che Zedda nel suo legittimo e giusto desiderio di proporre un capolavoro come Ermione ha almeno tentato in questa occasione extra-italica di proporre cantanti plausibili. In quest’ottica, lasciata da parte la pessima Eve-Maud Hubeaux sfacciatamente soprano in una parte da contralto qual è Andromaca dunque costretta ad alzare tutto il possibile, snaturare il personaggio, interpolare acuti non richiesti ovunque e affogare quando le discese al grave non erano evitabili, va premiato il coraggio. Peccato non sia stata chiamata la Pizzolato che sempre con Zedda alla Coruña offrì qualche anno fa una buona prova come Andromaca.

Dmitry Korchak ha una voce di timbro abbastanza gradevole, ma legnosa e inespressiva. L’impostazione generale ricorda quella di Florez con più robustezza, ma minor flessibilità e facilità in acuto (sopra il si si percepiscono spinte, fatica e cominciano suoni piuttosto sgradevoli). Un personaggio indeciso e tormentato come quello di Oreste, per giunta virtuoso e provvisto di tessitura acutissima, offrirebbe grandi possibilità, ma richiede ben altro interprete e spessore vocale, diverso da quello di Lindoro, Ramiro etc. Korchak ha in qualche modo retto la parte senza però trarne gran partito: nella sortita doveva lottare con gli strilli di Scala e con una scrittura troppo fiorita per lui, nell’ambasciata a Pirro mancava di magniloquenza, nel finale II che insiste ripetutamente sugli acuti si è limitato a cantare le note agevolato da Zedda che ha staccato un tempo rapido per evitargli di soffermarsi troppo sulle singole note, purtroppo a scapito dell’accento e del momento tragico. La dizione è perfettibile, ma ciò che latita davvero sono l’accento e la capacità produrre colori e dinamiche. I prodigi tecnico-interpretativi di Blake e la sicurezza di Ford, i migliori Oreste documentati, sono lontanissimi.

Con tutti i difetti che può avere, Michael Spyres oggi non ha concorrenza per quanto concerne i ruoli baritenorili. La sua prova è stata positiva nonostante un affaticamento percettibile dovuto, probabilmente, allo stakanovismo lavorativo che lo caratterizza. La voce ha un timbro riconoscibile, i centri e i gravi hanno una certa ampiezza, ma il cantante li marca eccessivamente rendendo disomogenea la salita agli acuti (solitamente in voce mista) che, pur se sicuri, tendono ad assottigliarsi ad essere poveri di squillo. La dizione è ottima, l’accento sempre giustissimo, i personaggi sempre centrati, ciò che si vorrebbe è una maggiore robustezza e degli acuti più squillanti e sfogati che il cantante potrebbe ricercare alleggerendo i centri. Il problema di Spyres non è l’estensione, oggettivamente enorme, ma lo spostamento verso il basso del suo baricentro vocale che, in natura, sarebbe più consono a ruoli più acuti. Comunque, l’artificio in qualche misura funziona e, come ho già scritto, di rivali per queste parti oggi non ce ne sono. Nel primo duetto Spyres gareggia con la Meade ben rendendo il carattere fiero del personaggio, nonostante qualche problema nel liberare gli acuti (specie sulla vocale i). Nella sua grande scena, l’inumana Balena in man del figlio, si è guadagnato una vera ovazione per la sicurezza mostrata fino alla fine, non risparmiandosi in nulla nell’affrontare coraggiosamente scale, arpeggi, trilli, cadenze e interpolando acuti, in verità via via sempre più deboli e sfocati. Nel duetto con Andromaca di carattere non eroico è stato molto bravo e sicuramente più a suo agio. Il Pirro di Spyres fa la sua figura, ma resta un uomo comune, non l’omerico figlio del semidio Achille il cui inarrivabile interprete resta Chris Merritt che, almeno nei primi anni di frequentazione del ruolo, fu in grado di reggere apparentemente senza sforzo queste folli tessiture.

Infine Ermione, ruolo che come Armida è legato indissolubilmente al mito di Isabella Colbran, visto l’oblio pressoché totale che riguardò questi due titoli. Angela Meade, talmente monumentale nel nel suo abito scarlatto da provocare una sussulto generalizzato nel teatro al suo apparire sul palco, ha saputo uscirne con dignità. Non saprei dire se in una versione in forma scenica l’americana potrebbe essere credibile, ma vocalmente la parte della megera non calza affatto male alla Meade che vanta una voce leggermente metallica, sicura e grande quando decide di ricorrere a tutte le sue potenzialità. Per essere una cantante che non lavora molto in Europa la dizione è stata curata e, pur non essendo un’interprete troppo fantasiosa, la frequentazione del ruolo e l’impegno profuso le hanno permesso di risolvere la parte senza scivoloni. Dopo il veemente duetto del primo atto, la Meade sceglie di giocare in rimessa cantando con metà della voce (comunque sempre perfettamente udibile) in ciò che resta dell’atto (cioè duetto con Oreste, il quale, di contro, non sa cantare piano, e finale I) per poi affrontare a pieni polmoni il tour de force del secondo atto. La voce sfoga bene specie nel settore centro-acuto, i gravi non sono sempre bellissimi, ma rispondono bene quando la cantante non vuole strafare, gli acuti ci sono eccome, ma la Meade non sempre riesce a controllarli perfettamente; presumo sia questo il motivo per cui l’americana sceglie di ricorrere troppo spesso a pianissimi, di una certa qualità, ma non sempre opportuni. La Meade ha affrontato con molta determinazione la grande scena cercando sempre di essere espressiva e differenziarne le varie sezioni, irata in Essa corre al trionfo!, altera in Di che vedesti piangere, dolente in Amata l’amai, scornata in Un’empia mel rapì, sprezzante con Oreste e, infine, assetata di vendetta nella cabaletta. Nel precipitarsi del finale si stagliava enorme in tutti i sensi sull’Oreste di turno fino alla maledizione finale. Non siamo davanti al vocalismo di una Cuberli o di una Anderson e neppure alle splendide caratterizzazioni della Miricioiu (a mio avviso la migliore Ermione documentata) o della Antonacci (nonostante i molti problemi vocali), ma la voce e l’impegno sono indiscutibili. Anche a proposito della Meade, cantante piuttosto alterna che ha doti interessanti che però necessiterebbero di una guida che la indirizzasse verso il repertorio belcantista prima di andarsi a sfasciare con Verdi, direi che oggi la concorrenza in questo repertorio è davvero poca. Moltissimi applausi (meritati) anche per lei da parte di un pubblico entusiasta per questo Rossini poco noto.

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5 pensieri su “Cronache dalla Ville Lumière: Ermione di Rossini

  1. Avevo avuto notizia di un esito positivo dell’esecuzione lionese, precedente quella parigina, più o meno nei termini di cui alla cronaca di David. Mi fa piacere che ogni tanto si riesca ancora ad eseguire decentemente il Rossini serio (e a Pesaro? Quest’anno ci sarebbe in cartellone L’assedio di Corinto…..)

  2. Ho ascoltato (e visto) Spyres cantare “Balena in man del figlio” sul tubo, e che dire? Sono d’accordo con David. Anche in abito da sera Pirro c’è: nella dizione attenta e scolpita; nella vocalità di sbalzo tutto sommato risolta; nelle agilità eseguite con sicurezza; nelle variazioni (troppe, per mio gusto). Anche il buon vecchio Zedda figura bene; forse solo la cabaletta avrebbe meritato uno stacco di tempo un poco più stretto, anche perché così si mette in evidenza che le agilità di Spyres ci sono, ma non sono proprio “di forza” come il personaggio e il momento scenico richiederebbero.
    Peccato davvero che un cantante con questa personalità e questa attitudine a prepararsi sempre la meglio delle sue possibilità abbia un registro acuto così mal emesso: le note ci sono tutte (ripeto: a volte anche troppe), ma sistematicamente bianche, al limite dello spoggiato, aperte e povere assai di squillo. Con un’emissione più ortodossa sarebbe davvero un Pirro notevole e se i tempi della coppia d’oro Merrit/Blake sembrano essere tramontati per sempre, Spyres quanto meno offre una lettura meditata e per molti versi convincente. Difettosa, ma convincente. Quindi un punto d’onore a lui.

    • Oh, fra l’altro, questa è un’opera di una difficoltà spaventosa. Ed è anche un caposaldo dell’evoluzione del teatro in musica; uno di quei titoli che hanno segnato un prima e un dopo nella drammaturgia musicale. Peccato si senta, e veda, così poco. Ma mi rendo conto che è come allestire “Gli Ugonotti”: impresa ardua. E già che ci sono, colgo l’occasione per ringraziarvi per il regalo di tutti i bellissimi ascolti delle pagine di Meyerbeer. Ogni incisione meriterebbe tante considerazioni, che purtroppo ora come ora non ho tempo di fare. Ma tutte bellissime.

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