Ci ha lasciato ieri, a 92 anni, Sir Neville Marriner. La sua scomparsa – non imprevista, per via dell’età, ma certo improvvisa – si somma alle altre scomparse eccellenti di direttori e interpreti che negli ultimi mesi hanno funestato il mondo della musica, dando sempre più l’impressione di trovarci nel bel mezzo di uno snodo generazionale. I modelli, i riferimenti, i compagni di viaggio di una vita di ascolti ci stanno lasciando uno alla volta: quasi come se il XX secolo (dell’interpretazione musicale) si stesse lentamente congedando. In questo senso è superfluo parlare di Marriner: per lui parlano le oltre 600 incisioni, i concerti (sino a poco prima della scomparsa), i ricordi di ciascuno. Marriner iniziò la sua carriera come violinista alla Philharmonia e alla LSO per poi perfezionarsi in direzione d’orchestra, ma la svolta avvenne nel 1956 quando fondò l’Academy of St Martin in the Fields: nata come piccola orchestra d’archi, poi sviluppata in compagine più completa mantenendo, tuttavia, trasparenza e organico cameristici, divenne ben presto una importante realtà musicale spaziando dal repertorio barocco al tardo ‘800. Il resto è storia nota, fatta di successi ininterrotti e di avventure discografiche che hanno fatto la storia dell’interpretazione musicale. L’approccio di Marriner si riconosce immediatamente per la perfezione formale, la levigatezza di un suono bello, chiaro e luminoso che richiama alla mente i marmi di Canova. Questa ricerca del bello ideale, appare soprattutto nel repertorio settecentesco (Bach, Haendel e Mozart) in letture di splendore apollineo. Oggi un approccio del genere viene da taluni ritenuto riduttivo, ma se ci si rapporta a quegli anni se ne percepisce la novità in un certo senso rivoluzionaria: l’orchestra ridotta, le sonorità trasparenti e leggere, l’attenzione a proporre testi attendibili, in un contesto certamente alternativo non solo alle sperimentazioni filologiche (che a quel tempo si stavano appena sviluppando), ma anche alla recente tradizione interpretativa (penso soprattutto al Mozart deromanticizzato e ripotato a volumi e dimensioni pienamente settecenteschi). La ricerca di Marriner non si è fermata al XVIII secolo, ma ha abbracciato un vasto repertorio: Mendelssohn, Grieg, Beethoven, Offenbach sino ai compositori britannici del XX secolo. Non mancò, poi, il rapporto con l’opera: Verdi (Oberto) e, soprattutto Rossini. Proprio le incisioni dedicate al pesarese sono tra le più interessanti disponibili. Marriner inserisce Rossini in una sorta di “onda lunga” mozartiana esaltandone i contenuti musicali e le finezze compositive: Cenerentola, Barbiere, Turco in Italia, Messa di Gloria, Petite Messe Solennelle…tutte incisioni di estrema cura formale. Un Rossini che mi ha sempre affascinanto nel sua purezza winckelmanniana. Personalmente ho di lui un ricordo molto vivo nell’unica occasione che ho avuto di ascoltarlo dal vivo. Era il novembre del 2007 e dirigeva il Messiah all’Auditorium di Milano (non con la sua orchestra, ma con La Verdi): ricordo la naturalezza della sua narrazione, ricca e nello stesso tempo sobria, come il suo gesto (preciso e pulito). Un Messiah che comunicava gioia, serenità e familarità. Un grande musicista.
Gli ascolti:
Mozart: Sinfonia n° 25, K 183
Mozart: Requiem
Rossini: “L’Italiana in Algeri” – ouverture
Haendel: Concerto Grosso Op. 6, n° 4
Grazie per il bel ricordo. Sono davvero costernato: giovedì sera ero al Teatro Verdi di Padova ed a vederlo così pieno di energia mai avrei detto che sarebbe stato il suo ultimo concerto. Un direttore che magari non ti faceva venire fuori le scintille dagli occhi, ma che era comunque sempre o quasi interessante, anche in autori che apparentemente non sembravano essergli congeniali (a me, ad esempio, piace molto la sua integrale di Schumann con l’Orchestra della radio di Stoccarda).
Punta di diamante della Philips e anche della Decca (specialmente la sotto-etichetta inglese Argo), sir Neville fece il miracolo di creare dal nulla un’orchestra che divenne tra le più prelibate d’Europa.
Mi piacciono tuttora moltissimo le sue incisioni strumentali: i Brandeburghesi e le Suite di Bach non saranno da terrorismo filologico, ma sono esecuzioni a cui trovo difficilissimo resistere. Poi i Concerti pianisti di Mozart con Brendel protagonista!
Conosco viceversa quasi zero del lascito operistico in disco: mi interessa il Rossini di cui parli, e pure il Mozart dapontiano. L’unica cosa che ho sentito è stata l’Oberto, che non mi è piaciuto per nulla: direzione molto qualunque, scarso interesse all’accompagnamento, senza nemmeno avere chissà che attenzione allo strumentale. A indebolire il tutto, un cast con un’ottima Urmana (all’epoca non ancora surrettiziamente sopranizzata), un Ramey invecchiato ma persuasivo, una Guleghina esagitata e urlante e, il colmo, uno Stuart Neill indefinibile e indifendibile, vocalmente un Vickers peggiorato e senza le qualità di interprete. Un brutto passo falso che non cancella il tanto di bello che ci rimane di Marriner.
Una vera orchestra giovanile, cresciuta sono a diventare un riferimento nel panorama musicale europeo. Vero: l’approccio non fu strettamente filologico (nel senso delle compagini barocchiste che di lì a poco sarebbero sorte), ma fu ugualmente rivoluzionario. Considerando come era suonato allora Mozart. Anche nell’opera ha lasciato grandi testimonianze (a patto di comprenderne la lettura elegante ed asciutta). Il suo Oberto è mal riuscito, ma in effetti Verdi resta inconciliabile con una lettura mozartiana: non così Rossini di cui ha offerto interpretazioni luminosissime (spiace che non abbia diretto il Matrimonio Segreto o il Barbiere di Paisiello).
Ah: aggiungo anche che il primo tempo della K183 è forse ancor meglio nell’incisione che sir Neville realizzò in occasione dell’assemblaggio della colonna sonora di Amadeus.