Semiramide a Firenze

Semiramide ben lo sanno tutti i lettori del corriere della Grisi, rappresenta il punto più ricco di significati della produzione rossiniana in Italia e non solo in quanto ultimo lavoro predisposto per un teatro italiano. Tale pregnanza di significati comporta che Rossini per il teatro più tradizionale della penisola (quello dove ancora trionfavano i titoli di Stefano Pavesi, altrove reietti e tacciati di vecchiume o dove venne per alcune stagioni post Semiramide scritturato un castrato), disponendo di uno splendido libretto dove tutti i topoi dell’opera italiana, escluso il finale lieto ancora utilizzato a Napoli, vengono proposti ed amplificati, nonostante lo schieramento drammaturgico nel solco della tradizione (soprano, amoroso affidato ad un contralto en travesti ed antagonista basso, poi. affidato in molte riprese a tenori baritonali), la dilatata durata dei singoli numeri, la loro ricchezza strumentale e vocale e varietà drammatica abbia, non solo, eretto il monumento dell’opera italiana, ma aperto la via al dopo all’opera romantica. Non sarà un caso l’entusiasmo di Vincenzo Bellini, studente di conservatorio, che, dopo avere visto le rappresentazioni di Semiramide al San Carlo, rimase forlgorato e solo per la necessità astringente di conseguire un diploma compose in stile antico ( quello dei suoi maestr: Zingarelli, Paisiello e Tritto) il suo primo titolo che è, poi, un saggio di conservatorio: Adelson e Salvini. Ancora non sarà un caso che la perfetta coesistenza fra passato e futuro consentirà a Semiramide di essere considerata un capolavoro e sopratutto di restare in repertorio sino alla fine del XIX secolo, circondata da venerazione e stima. Da ultimo non sarà un caso che nel 1940 a Firenze si sentì il bisogno di offrire al pubblico proprio Semiramide quale esempio di un operismo, che si riteneva urgente recuperare e riproporre.
Tutti questi elementi ci dicono della difficoltà a presentare il capolavoro a partire dai cantanti (almeno tre devono essere oggi, come all’epoca delle prime rappresentazioni, rodati virtuosi e maestri di accento) a seguire con il direttore e concertatore, sopratutto concertatore con i problemi di esecuzione integrale o meno, scelta che quattro ore e vento di musica impongono sino all’allestimento che sin dal 1823 era un problema per i teatri perchè la regina di Babilonia imponeva bande interne, cori, comparse, scenografie, costumi sfarzosi.
Penso che mai come per questa Semiramide Luca Ronconi abbia mancato l’essenza di un soggetto. Grave non avere avuto mezza idea per il coro, tolto dalle trincee e spedito in buca ad un certo punto delle prove per bypassare una serie di problemi pratici; svuotare completamente la scena e privare del tutto l’opera della sua monumentalità e i personaggi del loro costume, lasciando tutto praticamente  immobile e confinare la regia al solo moto delle passerelle, determinando la distruzione dell’intera parte scenica. Inutile lamentarsi delle sciccose “vetrine” dello scenografo e costumista Pizzi, con i suoi straordinari costumi di Aix etc, se poi il regista non fa muovere i personaggi e soprattutto non li definisce: allora ben venga il costume a crearli e a supportare il cantante. Inesistente la regia, il solo personaggio ad essere “caratterizzato”, ed in maniera completamente sbagliata, è Semiramide, una sorta di orrendo incrocio tra Paperoga e Azucena, vestita come una cupa regina degli stracci. La storia dell’ aborto napoletano di Ronconi però, meritava di essere ricordata ed emendata da chi ha inopinatamente scelto di riprendere la produzione e soprattutto da chi materialmente l’ha riallestita. Il tardivo cambio della titolare protagonista al momento delle prove d’assieme al San Carlo fu la ragione del travisamento della protagonista, richiesto dalla sopraggiunta Laura Aitkin a Ronconi, che pezzo a pezzo virò la parte verso il suo ruolo, ossia Lulu! I capelli verdi, il seno e le gambe esposte, il frustino, il taglio da dark lady sadomaso non nacque altro che dal patteggiamento forzoso con la cantante, di bella presenza scenica, ma limitata presenza vocale, che soccorse il teatro all’ultimo e che, lucida sui propri mezzi, spinse per forzare in quel modo l’immagine della protagonista. Non ci fu alcuna idea o concezione ronconiana, ma solo il raffazzonamento all’ultimo di una produzione non pensata, poco gestita, incidentata ed alla fine abortita, che meritava il macero anziché una ripresa, che finisce per commemorare i vizi e non le virtù del grande regista. Riprendere quella Semiramide, già idea incomprensibile, poteva significare soltanto rifarla da capo, e soprattutto ripartire dal personaggio titolare da tagliare su una cantante esattamente opposta alla Aitkin, anche perché, va detto ai signori sovrintendente e regista, che ha siglato la ripresa, quello avrebbe fatto Ronconi, che ha sempre lavorato avendo ben presente pregi e difetti dei cantanti di cui disponeva.

Né mai si potrebbe pensare che Semiramide possa essere retta dalla sola protagonista, senza una partner adeguata e soprattutto con una bacchetta che ha sempre agito contro l’opera e le possibilità vocali dei cantanti. Passi per la questione dei tagli, tanto ne abbiamo visti di ogni genere (ricordo un secondo atto, che iniziava direttamente con “Se la vita ancor t’è cara”); in merito mi chiedo solo perché riproporre ancora gli stessi errori di Napoli (capolavoro assoluto quello della Scena del tempio di Arsace) che vennero siglati da Gabriele Ferro ( anche lui al San Carlo in sostituzione del collega Maurizio Benini). Diciamo solo che nell’ottocento, al di là del problema della banda, appannaggio del teatri più ricchi, i tagli all’opera consistevano piuttosto in numeri interi, prassi inaugurata alle rocambolesche recite della prima veneziana, ed in particolare quello del duettino del primo atto, tra Arsace e Semiramide.

Della direzione pachidermica di Walker hanno detto tutti e di certo già sapete. Mi interessa sottolineare il contrasto tra il letargico primo atto e le buone velocità del secondo, suggellato però da un incredibile “Usato ardir” alla Ridolini, che ha scatenato l’uragano di meritati bu alla sua singola. Ripetizioni e code scempiate da un meccanico “picchiare” , rallentamenti compiaciuti ed esasperati sui da capi, rallentamenti alla chiusura di ogni frase, rallentamenti di tutti i crescendo, insomma la continua irritante intenzionale negazione di tutto quanto Rossini costruisce con l’orchestra sono stati i suoi principali difetti di direttore. Walker ha distrutto il capolavoro e sfiancato inutilmente i cantanti. Tutti ne hanno fatto le spese, da Arsace e Assur al loro duetto del primo atto, a Semiramide con un giuramento ed un intero finale primo inauditi, il “Deh ti ferma ti placa” di Assur come pure il “Giorno d’orror” di Semiramide e Arsace etc etc. Mancanza di tocco e gusto per il clangore dell orchestra fiorentina sono state segnate anche da varie imprecisioni negli attacchi di cui è doveroso far menzione al lettore. Alla fine una calorosa salve di fischi che il solito cxxxxxne di turno ha attribuito ai Grisini come se quattro persone pure dal buu ben proiettato potessero condizionare l’esito di una serata. Pensare prima di scrivere……

Fin tanto che quel poco che possediamo in fatto di canto continua ad essere mandato in scena in condizioni controproducenti come in questa occasione, l’opera sarà sempre destinata all’insuccesso, nel belcanto in particolare.

Silvia Tro Santafè è cantante lontana dal possedere ciò che il belcanto e l’importanza del ruolo di Arsace richiedono. Ha una voce non ampia ma sonora al centro, afflitta da un certo vibrato e da sonorità sgradevoli, il cui peso drammaturgico è sempre e comunque quello di Rosina o dei personaggi esornativi. Qualcuno assai benevolo ha indicato la cantante come un soprano imprestato al registro di mezzo per via della voce leggera e chiara, definizione che purtroppo calza a quelle vocaliste che poi sfruttano il registro acuto per dare ad Arsace slancio, consistenza drammatica e mordente. In verità la signora Tro Santafè canta sempre e solo sul centro, ove ripiega appena può, dato che non gira il suono né per salire all’acuto men che meno ai gravi. Il suo Arsace ha fatto leva soltanto su accenti dolci e di genere patetico, oltre che su una dizione oggettivamente nitida, senza però esibire alcuna peculiarità timbrica che rendesse piacevole l’ascolto. L’ardua scrittura vocale di Arsace peraltro non consente a nessuno di occultare i problemi in zona grave: l’emissione nel registro di petto della signora Tro Santafè purtroppo è adeguato al dettame dei baroccari correnti, sguaiato e senza stile, talora degenerato anche nel parlato. Un tempo questi modi erano prerogativa di cantanti estranee ai dettami del belcanto, come Agnes Baltsa: oggi ce lo ammanniscono tutte, vocine o vocione che siano, dalla Di Donato alla Bartoli alla più anonima delle baroccare. Così il canto in zona grave si è fatto anche caricaturale, come alla scena del Tempio. I copiosi trasporti del cantabile non le sono stati sufficienti per riuscire a legare un canto che procedeva a strappi; inaudite le battute che portano alla cabaletta ( “ Si si l’empio cada” ), sfuocata e senza forza “Si vedicato il genitore”. Ha dato il suo meglio negli andanti dei duetti con Semiramide, ovviamente, mentre il lato eroico, di slancio e di esasperazione virtuosistica, ossia il 60-70% della parte, non è stato restituito, non potendo fare affidamento né sul mezzo naturale, come la recentissima Barcellona o la Valentini di ieri, né su un grande magistero tecnico, come la Horne o la Dupuy.

E non si fa Semiramide senza Arsace, e viceversa, perché l’opera, per quanto porti un nome solo nel titolo, è opera per una coppia di virtuose. Leggere le coppie che hanno vestito i panni di Semiramide ed Arsace è una curiosa estasi per l’appassionato di storia della vocalità che sogna ad occhi aperti pensando a Pasta/Malibran a Grisi/Alboni alla sorelle Marchisio od a Lehmann/Brandt. Si può patteggiare sul ruolo di Assur, ma non sui due ruoli femminili, sostanzialmente equivalenti per lunghezza ed importanza, tanto che la storia esecutiva dell’opera è da sempre una storia di coppie di voci, dalle più antiche prima citate alle recenti Takova-Barcellona, a Ricciarelli-Valentini, Cuberli-Dupuy, Sutherland-Horne. More solito, invece, Jessica Pratt è stata mandata in scena con l’intero onere della serata sulle spalle, in un contesto ancora una volta tutto contrario al fare bene, compresa una sala di grandi dimensioni, in un ruolo monstre che, oltre tutto, non si addice per certi aspetti alla sua vocalità. La riprova è stata un successo di pubblico, tuttavia non esente da problemi evidenti. Non condivido ( e questo sito può vantare di avere ascoltato dal vivo praticamente tutti soprani dell’era moderna ad eccezione della Sutherland in ogni angolo del mondo ) l’opinione di chi ha scritto che la cantante avrebbe scentrato vocalmente il personaggio e mancato di vis tragica, anzi, è vero esattamente l’opposto di tutte le regine di Babilonia udite la Pratt è quella che privilegia l’aspetto drammatico del personaggio. Le componenti del personaggio, lo sappiamo, consistono nella scansione regale dei recitativi, nello slancio virtuosistico, nell’imperio e nella solennità, ed anche in un certo languore. Di queste il soprano australiano restituisce benissimo la parte pirotecnica (Bel raggio lusinghier ed il primo duetto “alle più care immagini”) nonchèe lo slancio e l’aspetto di amazzone, come al duetto con Assur. Il tutto anche grazie ad una serie di trasporti verso l’alto documentati dalle primissime esecuzioni quando soprani assoluti presero il posto della sgangherata Colbran. Al contrario, non possedendo una spiccata qualità timbrica né un mezzo importante e pieno al centro, non ha potuto rendere il lato aulico e sensuale della parte. Semiramide pretende timbri come la Caballè o una suprema qualità di legato come quello della Sutherland per dar voce al lato sensuale e regale della parte. Jessica Pratt peraltro ha gestito un ruolo scritto almeno una terza se non di più al di sotto del suo naturale baricentro di canto e la sproporzione tra il volume della voce della cantante e la dimensione della sala ha determinato il risultato finale: tutto era cantato bene o molto bene, ma laddove non poteva affidarsi al saliscendi della tessitura ed alla riscrittura verso l’alto come nel giuramento, il risultato finale ha mancato di convincere. Jessica Pratt può cantare questa opera, in occasioni speciali ed in teatri grandi come la Fenice, quelli emiliani, o la stessa Pergola,  non certo dentro questi grandi spazi sordi, dall’acustica sospetta ( appena i cantanti lasciavano il proscenio le voci scemavano, voltati di spalle o posti di lato erano inudibili  ), con una bacchetta ed una produzione adeguata che non stravolga e scempi il personaggio come è avvenuto qui a Firenze.

Mirco Palazzi è stato un Assur composto e dignitoso, che ha puntato tutto sull’esibizione della folta e talora eccessiva coloratura. Personalmente trovo che canti con una voce che non è la sua cercando a modo suo di imitare Ramey di cui non possiede né l’emissione, né lo squillo imperioso, né il volume. La posizione bassa del suono per simulare la voce di baso e l’imitazione del timbro di Ramey, effettuata in bocca, non gli consente prima di tutto di legare il suono, cosa che abbiamo ben udito nella scena di pazzia, costringe a portamenti per salire agli acuti con pesanti ripercussioni di intonazione nella zona medio alta della voce. I numerosi problemi di intonazione erano ben evidenti all’entrata e nella scena finale, dove l’esecuzione di una fiorettatura eccessiva gli ha fatto perdere controllo del suono ed intonazione. Limitare talune eccessive superfetazioni gli avrebbe fatto buon gioco e risparmiato qualche mormorio del pubblico.

Juan Francisco Gatell ha cantato meglio del solito, sebbene domenica abbia avuto difficoltà in tutte le salite all’acuto della prima aria verso la cui conclusione sono apparsi sospirosi ed inappropriati falsetti. Il virtuoso è gradevole e corretto, certe salite anche brillanti, la voce dal timbro leggero e gradevole. Il suo Idreno ha riscosso un successo meritato.

Morale della favola. Un pomeriggio fiorentino assai noioso e pesante, dove si poteva fare molto molto di più se soltanto le condizioni di lavoro per il cast fossero state ben pensate e ponderate. Le opere non si dirigono solo, ma sopratutto se di belcanto si concertano. Ai cantanti, sopratutto alla protagonista, va riconosciuto a sconto di ogni loro manchevolezza la congiuntura di un allestimento e di una bacchetta ferali, per loro e per noi.

Come nelle vecchie gomme da masticare: Ritenta, sarai più fortunato!

15 pensieri su “Semiramide a Firenze

  1. articolo perfetto..
    insipienza del direttore e spettacolo statico e noioso hanno affossato un esecuzione già di per sè difficile da proporre necessitando di due primedonne …
    non da ultimo con incisioni inarrivabili ad oggi!
    se poi aggiungiamo la sparizione del coro dalla scena per
    proporre i bononi di turno ..
    giusto qualche idea registica nel finale -neanche poi così originale e svegliato dai calorosi buh i tempi letargici si sono un poco sveltiti …

    ……più gratta e vinci; molto gratta e poco vinci
    Marco

  2. occasione ghiotta per riascoltare un titolo fondamentale, purtroppo non ce l’ho fatta a essere a Firenze per questa Semiramide e ora non me né pento; la direzione d’orchestra può trasformare un opera di questa complessità e durata da esperienza estetica esaltante a malloppone mortifero e indigeribile.
    Dovendo scegliere, ho preferito ascoltare dal vivo J. Pratt nella prossima Rosmunda…

    • e poi trattandosi di una parte scritta per la Tacchinardi Persiani ka tessitura è di quelle che stanno bene alla Jessica (sic!) certo che se cantasse Kostanze, Aspasia e Giunia la nostra …….non ce ne sarebbe per nessuna di oggi (ovvio) e forse anche di ieri!

  3. Bell’articolo, assolutamente condivisbile, stando a quanto si è sentito all’ascolto radiofonico. Poche volte ho sentito un Rossini così pesante e noioso come quello propinato dal direttore Walker. Buono solo come sonnifero.
    Fra l’altro noto che altri siti internet dediti alla critica operistica, notoriamente “più buoni” di questo, hanno commentato la Semiramide fiorentina in modo non troppo dissimile da Madame Grisi, il che la dice lunga.

    • La generale benevolenza sul contralto che ho letto è del tutto priva di fondamento. I parte anche sul basso. Resta poi la questione dell acustica taroccata che alla fin fine ha reso l ascolto discontinuo e irreale

  4. Semiramide? L’ultima che ho sentito, quella registrata da Naxos a Wildbad con Penda(tchanska)-Pizzolato, decisamente interessante la seconda e non priva di criticità la prima, a cui riconosco solo un timbro affascinante e molto esteso in basso.
    Tra le altre parti, c’è il giovane basso Andrea Mastroni che fa Oroe. Che ne pensate di lui? Ha un vocione grande e grosso, ma la sua emissione non mi sembra esattamente morbida e tecnicamente inappuntabile, parendomi anzi troppo aperta. Che ne dite?

      • E’ meno nociva di quanto sembri, in realtà…ha molti difetti – ovvio – ma anche spunti di interesse (tenuto conto che pure si tratta di una produzione che non beneficia di grandissimi finanziamenti). Almeno si sforza di rendere l’opera in modo plausibile (nella sua integrità: cosa da non sottovalutare). Fogliani si dimostra bravo concertatore e l’orchestra è buona (un po’ meno il coro). Nel complesso è una Semiramide equilibrata – più di quella fiorentina – seppure minore.

        • fogliani mi ha regalato delle tali serate in teatro che francamente ben me ne guarderei di ascoltare un suo disco, con dentro pure una cantante stravecchia e dalla voce vetrosa come la Pedantchanska. non credo possano regalarmi nulla di buono e migliore a ciò che ho avuto la fortuna di vivere dal vivo

  5. In quella Semiramide della Naxos la direzione non è straordinaria, ma nel complesso funziona, invece il cast è composito: malissimo la Penda bollita (e già non era molto una decina di anni fa), maluccio Osborn che fa le note ma con molta fatica e circospezione, ok l’Assur di Regazzo e prova positiva la Pizzolato. Quest’ultima è molto interessante, ma alcune puntature sono davvero brutte (gli acuti dovrebbe studiarli!).

    • Io non sarei così severo con quella Semiramide: anche tenuto conto della realtà di Wildbad. Non è di ceto un’incisione storica, ma nel complesso è equilibrata ed è completa. Ben peggiore trovo la quasi contemporanea registrazione di Zedda (quella davvero orribile in tutti gli aspetti, e neppure integrale) oppure – se si vuole guardare al passato – l’edizione della Gruberova. Certo l’incisione Naxos non è perfetta: l’ho sentita una volta e credo che non la riascolterò a breve. Il problema è che Semiramide è opera smisurata e richiede – per onorarne la grandezza – innanzitutto un bravo direttore con orchestra e cori eccellenti (la partitura è complessa ed è tra le più curate di Rossini) e, naturalmente quattro interpreti di valore: possono esserci incertezze e punti deboli, ma è necessario equilibrio. Non basta avere un solo elemento bravo e il resto a seguire…

        • Quell’incisione era davvero orribile: studiata esclusivamente come vetrina per la primadonna – e quindi con intorno il nulla – e col problema che la primadonna non era assolutamente adatta alla parte (e a Rossini in generale)

          • Sinceramente non sono molto d’accordo con alcune considerazioni. A differenza di tutte le altre incisioni Nightingale, Semiramide è proprio quella col cast meno raccogliticcio e più pensato, il problema sta nel risultato che non è affatto esaltante. Panni accompagna senza idee , la Gruberova fu lasciata a se stessa (il che non è bene in Rossini, autore che, infatti, ha fatto pochissimo), inoltre ci arrivò anche un po’ tardi (ma canta quasi tutto bene o molto bene nonostante la parte non le sia congeniale), la Manca di Nissa fu assai deludente (eppure avrebbe potuto fare meglio teoricamente), D’Arcangelo e Florez furono ok. Secondo me le colpe maggiori e reali vanno al direttore che fa routine e non cerca una vera cifra interpretativa e al buco del contralto. Vorrei dire però che c’è MOLTO di peggio in giro altroché!

            Ribadendo che non è certo un suo ruolo chave, la migliore Semiramide della Gruberova resta la sua prima del 1990 a Monaco con Ramey, Matteuzzi e la Kuhlmann: un abisso (intendo positivamente) rispetto a questa di Vienna e a quella di Zurigo del 1992.

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