A pochi giorni dalla Semiramide l’Opera di Firenze propone in forma di concerto, con la medesima protagonista, Rosmonda d’Inghilterra, titolo donizettiano scritto per il Teatro della Pergola nel 1834 e rimaneggiato dall’autore tre anni dopo, in vista di una rappresentazione napoletana destinata, mai avvenuta. L’opera venne riproposta da Opera Rara, dopo centotrent’anni di oblio, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, per poi essere oggetto di una registrazione in studio a opera della medesima casa discografica. Quest’ultima edizione, in particolare, si rifà all’autografo custodito nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli, che rende conto del rifacimento partenopeo, intitolato “Leonora di Guienna” (la deuteragonista dell’opera, in quella versione gratificata di quell’aria conclusiva, che le convenzioni avrebbero assegnato piuttosto all’infelice eroina). A Firenze è stata proposta, in prima esecuzione mondiale, la revisione critica sull’autografo a cura di Alberto Sonzogni, iniziativa sostenuta dalla Fondazione Donizetti. Proprio a Bergamo, il mese prossimo, l’opera verrà allestita, con il medesimo cast o quasi, in forma scenica. Il programma di sala, al solito ricco di annotazioni tra folklore e pettegolezzo “storico” a proposito dell’argomento dell’opera, non si dilunga sulla metodologia adottata dallo studioso nella selezione e comparazione delle fonti, ma appare di ogni evidenza l’intento di proporre una versione il più possibile vicina a quella del 1834 (l’esecuzione, del resto, era stata inizialmente prevista proprio al Teatro della Pergola), priva quindi del rondò finale della Regina. Ma, come riportato da Giorgio Pagannone nel saggio che compara la Rosmonda donizettiana a quella di Coccia (sempre su libretto di Felice Romani), “il finale originario venne tolto dalla partitura autografa per far posto alla nuova cabaletta di Leonora, quindi non è disponibile per l’esecuzione”. Resta dunque da chiarire se quello proposto a Firenze sia un finale ricostruito dal curatore, oppure se ulteriori analisi dello stratificato autografo abbiano condotto a rinvenire la stesura originaria del passo. Ritengo che problemi del genere possano appassionare, al più, gli accademici e in particolare gli specialisti donizettiani. Per completezza restano da chiarire anche altri dubbi, il primo dei quali investe la pagina più famosa dell’opera ossia la cavatina dela protagonista “Perché non ho del vento”, pagina che la Tacchinardi stessa impiantò in Lucia, imitata da molte prime donne coeve e pure da Donizetti che per la versione in francese la inserì quale cavatina di sortita. Solo che il libretto della prima la considera aria con pertichini (affidati ad Arturo, ruolo di paggio poi beneficiario di un’aria) e come tale ad esempio venne eseguita in disco da Lella Cuberli, quale cavatina di Rosmonda. A Firenze l’aria è stata eseguita quale numero solistico, senza pertichini di sorta e più che altro contravvenendo al libretto della primo fiorentina. In buona sostanza e salvo la differente tonalità la Pratt ha eseguito quello che fu proposto da Joan Suteherland in appendice alla sua prima Lucia o addirittura in una registrazione dell’età della pietra di Lucette Korsoff. Di tutto questo a nostro avviso il libretto di sala doveva dare conto all’ascoltatore, che spesso ha nozioni di filologia o conosce il modus procedendi dei filologi di professione. Inoltre da un esame della partitura disponibile in internet (http://imslp.org/wiki/Rosmonda_d’Inghilterra_(Donizetti,_Gaetano)) la stessa appare piuttosto mal ridotta e soprattutto con i segni di abrasione perché in un tempo in cui la carta non si sprecava ed i compositori (Donizetti paradigmatico in tal senso) lavoravano con l’assillo del finire per mettere in scena e avevano poco tempo, non si copiava ma si abradeva il precedente e allora la partitura riportata a novello splendore è quella di Firenze o quella di Napoli scritta riscritta ed arricchita di spartitini per quella esecuzione partenopea che mai ebbe luogo e che prevedeva uno schieramento vocale differente da quello fiorentino? Tutti dubbi che restano e che “da questo sito di morti” come con assoluta malafede e ignoranza ci hanno definiti su Facebook ci permettiamo di sollevare perché di pasticci, pastrocchi e porcate filologiche ne abbiamo viste tante. Questo sia detto anche perché le prassi e la scienza dei copisti del tempo che rendevano utilizzabili ed eseguibili scarabocchi si è persa e persa ancor più abbiam verificato anche a Firenze è una prassi di concertazione, che consenta di dar senso e significato ai passi del titolo senza limitarsi a metronomici e sgangherati accompagnamenti. Da quanto offerto a Firenze quel che appare evidente è che, anche in assenza dell’assolo finale, la parte di Leonora ha un ruolo determinante nella drammaturgia dell’opera e la ripresa in tempi moderni del titolo si giustifica solo in presenza di due grandi primedonne, come le erano le prime interpreti fiorentine (Fanny Tacchinardi e Anna Del Sere), la prima soprano assoluto, la seconda soprano centrale ovvero mezzo acutissimo, entrambe capaci di padroneggiare pagine ora languide, ora tese, in possesso di una salda coloratura e scafate nell’arte di scandire i versi, riuscendo con la pertinenza e la varietà dell’accento, oltre che con il differente colore vocale, a caratterizzare felicemente lo scontro tra le illustri rivali, che chiude l’opera. A Firenze la parte della Regina era affidata a Eva Mei, soprano leggero accorciato in alto, ma non per questo capace di maggiore consistenza in prima ottava, che suona regolarmente in bocca e, quindi, coperta dall’orchestra: ha pigolato con voce tremula le agilità (imbarazzanti quelle del tempo d’attacco al duetto con il marito), si è sforzata di accentare senza riuscire a dissimulare la precoce senescenza del timbro, nei tentativi di suonare altera e insinuante è solo riuscita a evocare il suo personaggio più centrato in tempi recenti: Mrs. Alice Ford. Probabilmente il taglio dell’aria le ha giovato. Jessica Pratt, reduce da una prova, che pur nelle sue imperfezioni e discontinuità, personalmente ho trovato impressionante quale Semiramide, per mordente, fluidità nel canto fiorito e persino capacità di legare i suoni alla preghiera sulla tomba del marito, non ha qui, oltre tutto alle prese con una scrittura vocale assai più consona ai propri mezzi, offerto una prova all’altezza delle aspettative: a parte la cavatina, eseguita senza grande languore, ma con una notevole facilità di vocalizzazione (soprattutto nella cabaletta, adeguatamente rimpolpata), la chiusa del susseguente duetto con il padre (un bolso Nicola Ulivieri), in cui ha trovato accenti drammaticamente persuasivi senza intaccare la morbidezza della linea vocale, e l’ovvia facilità del registro acuto che le ha consentito di svettare nel finale primo, il resto della parte è stato ora compitato correttamente ma senza troppa convinzione (duetti con Enrico e Leonora), ora restituito con un piglio battagliero che sembrava celare (senza grandi risultati) un approccio più volto a evitare gli scogli della partitura a suon di acuti e sovracuti (frequentissime le puntature nella seconda aria, culminate in un maldestro tentativo di fa diesis sovracuto che, non ben riuscito, ha scatenato qualche protesta da parte del pubblico, protesta che naturalmente si vorrebbe spacciare per opera dei soliti noti, di cui il solo scrivente presente in sala) che non ad affrontare le richieste di una parte, per eseguire la quale risulta imprescindibile un controllo del registro centrale e un senso del legato che non sono, da sempre, le caratteristiche precipue della cantante. Aggiungo in nulla aiutata dal podio, limitatosi a battere la solfa e non a creare atmosfere e a non sostenere i cantanti. Si potrebbe giustamente obiettare che Semiramide è ancora più bassa, come tessitura, rispetto a Rosmonda, ma la scrittura rossiniana, virtuosistica quant’altre mai e che impone un’esecuzione caratterizzata da slancio e imperiosità, sembra molto più adatta alle possibilità del soprano australiano; quanto alla tessitura, nulla le converrebbe maggiormente delle parti dell’opera seria settecentesca, da Haendel a Haydn e al Mozart italiano, passando per gli operisti napoletani, parti che non richiedono ascese ai sovracuti rese ancora più impervie dalla necessità di cantare al centro per buona parte della serata. Meglio delle primedonne ha fatto Michael Spyres, che, senza possedere la cavata del tenore donizettiano e l’accento del potente fedifrago, li ha simulati con apprezzabile mestiere, perdendo terreno nei tentativi di smorzatura ai cantabili (in cui il suono tendeva ad affievolirsi e ad andare indietro) e nell’esibizione di acuti e sovracuti (come quello in chiusa al duetto con Rosmonda) piuttosto bianchi e poveri di squillo. Per la verità appena si perita di salire oltre il passaggio superiore, operazione che non sa eseguire, Spyres suona vuoto ed ingolato. Rose e fiori davanti al già citato Ulivieri (pur meno disastroso che in altre occasioni, anche per la limitata consistenza del ruolo) e a Raffaella Lupinacci, che nel ruolo del paggio Arturo ha affondato senza pietà, la voce saldamente bloccata fra naso e gola, voluminosa (complice anche la bizzarra acustica della sala fiorentina, in cui peraltro Ulivieri sfoggiava un vocione da Ghiaurov ultima maniera) e incapace di librarsi nella sala con quella soavità melanconica che necessariamente spetta al musico, specie se nei panni di un adolescente innamorato. È questa la ragione per cui proponiamo, in primis ai plaudenti fiorentini, l’esecuzione dell’aria di Rosmonda tratta dal già citato disco della Cuberli: per gli interventi del paggio, e non perché a Firenze non li abbiamo uditi, ma per come vengono proposti, convinti come siamo che l’opportunità di proporre una versione integrale ovvero tagliata possa essere valutata solo alla luce della qualità dell’esecuzione. Sul podio, Sebastiano Rolli (che dirigeva a memoria) non ha combinato disastri paragonabili a quello del suo collega nella Semiramide, ma questo è ben lungi da un direzione che possa definirsi sufficiente: non ha saputo cogliere le atmosfere cupe e a tratti opprimenti del dramma, optando per una lettura garibaldina e generica, che ha trasformato l’opera in una successione di marcette e motivi orecchiabili, piacevole a udirsi ma tutto sommato più che dimenticabile. Le perle di cotanta incapacità professionale vanno ricercate in un’ouverture fracassone e bandistica, che non evoca l’aulico, il cavalleresco, il “cappa e spada”, sigla di questo ed altri titoli donizettiani, tacciamo di tutte le introduzioni orchestrali come la cavatina di Rosmonda assolutamente insignificanti e della pesantezza del concertato che chiude il primo atto. Su tutto poi recitativi e cantabili a metronomo, che sono l’affossamento delle melodie lunghe e languidamente fiorettate, che Bellini e Donizetti impararono dalla grande scuola napoletana. Sarebbe poi compito del direttore anche sconsigliare i solisti dall’eseguire variazioni contrarie al carattere del brano da eseguire, e soffermarsi piuttosto su opportuni rallentamenti nelle cabalette, come nella seconda aria di Rosmonda, che renderebbero il pezzo più pertinente a quanto espresso dal libretto, ma questo, lo riconosciamo, sarebbe chiedere troppo, visto che sono decenni che non rinveniamo una simile capacità neppure in capo alle più titolate delle bacchette da belcanto, che operano nei festival cosiddetti specializzati. Nel complesso, un’occasione mancata, con la speranza che a Bergamo si possano udire, ove possibile, dei miglioramenti, come per ogni work in progress che si rispetti.
21 pensieri su “Rosmonda d’Inghilterra a Firenze: un’occasione mancata.”
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E’ un peccato che coloro i quali sono preposti a gestire i teatri usino le loro bacheche facebook per diffamare o insinuare cose non vere sul pubblico, sui sottoscritti in particolare. Sara forse perchè quando vengono colti in fallo nella loro crassa ignoranza, come a fare concerti copiando le copertine delle compilation farlocche della Sutherland o a celebrare miti della storia del canto con delle sverze, si arrabbiano e allora pungono con la diffamazione alla prima occasione. Nonostante i loro poveri mezzucci, restano i caproni ignoranti e sordi che sono, i pessimi attori di una lirica agonizzante che nemmeno quel poco di buono che hanno sanno amministrare. Un celeberrimo regista scomparso e recentemente celebrato, li definiva laconicamente ABUSIVI
Questi “abusivi” – definizione perfetta- ,soprattutto quando vengono colti manifestamente con le dita nella marmellata , scattano impermaliti più veloci della luce ed hanno pure l’insulto facile .
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Quanto a Jessica Pratt, mi spiace il resoconto presumo veritiero, data la stima che anche lui nutre per la cantante, di Tamburini. Tante e troppe recite vicine sono la sua discolpa. Ma non va a sua discolpa andare a puntualizzare su facebook che lei canta l’aria in tono e che esiste un mi nat scritto in cadenza ( sta cantando finalmente la sua tessitura più comoda), che era malata e tutte le restanti cazzate fruste e strafruste che usano i cantanti perchè si sono presi due bu per una stecca. Un bu che si è andata a cercare ( come fanno sempre i cantanti ) su una nota da lei stessa aggiunta, tra l’altro orrenda da sentire come quelle sciabolate di mi nat che, ripeto, poco nulla azzeccano col pezzo e di cui spesso la Pratt abusa. I bu si prendono, giusti o ingiusti e da che mondo è mondo la stecca porta con sè commenti estemporanei, sopratutto se arriva dopo aver voluto strafare, come nel suo caso ( mirabili esempi portano anche nomi assai più altisonanti, dalla Scotto a Pavarotti, alla Fleming e cosi via). Sarebbe stato episodio di nessun valore e che sarebbe passato inosservato se non ci si fosse messo il sottobosco ferale che circonda i cantanti, che li spinge, oltre che a cantare a vanvera ( complimenti al pianista che ammira l’osceno fa diesis! ), anche a postare su quelle bacheche face che sono ormai un pezzo di teatro nel teatro ( e di pessimo teatro! ). Piaggeria, idiozia, ignoranza, una miscela diabolica di tutto ciò che danneggia il rapporto del cantante con la realtà.
Diciamo che c’è un mi nat da toccare ma in cadenza, mentre tutto quello che è stato inserito prima e dopo non era richiesto e sopratutto fuori stile e fuori dal senso della cabaletta stessa, cui avrebbe giovato maggior dinamica nei tempi ( i rallentando non sono quasi mai scritti ma la prassi esecutiva li tramanda…..ci sono fior di cabalette identiche a questa che fanno scuola..) e maggior varietà nelle varianti, per un soprano che per giunta sa fare ogni tipo di figura ornamentale. Fa diesis et consimilia sono esibizionismi estranei alla vocalità del tempo, all’accento romantico, a Donizetti e il canto non è affare guinness dei primati, nè un record del mondo, ma ARTE, senso profondo di ciò che si rappresenta con la voce, non abuso di un gesto atletico. Dire, fraseggiare, illudere, soggiogare, sedurre, rimpiangere, evocare, commuovere….sono tutte cose che con le ridicolaggini, “ha fatto prima tre do”, “ha fatto un fa diesis”, “ha fatto 16 mi naturali ribattuti e l’ultimo tenuto 30 secondi” e le assurde piaggerie annesse e connesse per consolazione, del tipo “povera jessica”, “ma erano solo due , cara …solo due!”, non c’entrano nulla. Buata per la stecca? buata per l’eccesso di foga nei sopracuti? buata perche finalmente si poteva pizzicare anche la Pratt? buata per poi incolpare …noi? ma torniamo al canto per favore! Commisurare le risorse a ciò che si canta, al senso che queste hanno, alle proprie forze e migliorare il brano è la sola risposta che la Pratt poteva dare a quello che sarebbe stato un inciampo da nulla se non fosse stato incredibilmente amplificato e starnazzato nel web da due cretini, che hanno imposto a noi di rispondere dando rilievo ad un episodio sterile.
Le parole sono importanti diceva Nanni
Soprattutto quelle dei libretti
Forse sbaglio , ma penso che la Pratt , che stimo moltissimo, dovrebbe calibrare con maggiore attenzione la frequenza e la conformità alla sua qualità di voce, degli impegni che assume..
Non sono d’accordo Piccarda. Gli impegni sono giusti, anche se la Semiramide, che oggi può eseguire solo lei, deve trovare spazi più adeguati e meno smisurati dell’inutile megalomane baraccone fiorentino.
Il punto è che i cantanti oggi lavorano nel nulla quando non in ambienti contrari al lavoro che svolgono. Operazioni complesse come Semiramide o un ‘opera riscoperta come Rosmonda devono avere una testa che le organizzi, una testa pensante e capace, che sappia andare a pescare la giusta bacchetta, il giusto allestimento, il giusto costumista, i giusti preparatori di sala. Ma come si fa per un’operazione filologica come Rosmonda, per giunta non sostenuta da una edizione critica ma solo da una trascrizione di un pasticciato autografo, affidare la direzione ad un direttore di pochissima esperienza di podio, di Donizetti, di vocalità? . I cantanti oggi viaggiano per strade difficili, solitarie, sbattuti di qua e di là in un contesto che non li aiuta a fare bene, che non li gestisce bene, che ha sovvertito le gerarchie di valore e che ha trasformato l’opera nella caricatura di se stessa perchè sonpo perduti i fondamenti di tutte le professionalità che circondano la costruzione di uno spettacolo lirico e la preparazione dei cantanti. La Pratt ha solo ecceduto nei sopracuti in un passo a fine serata. punto
ps…..ma se la Pratt sceglie male, le altre cosa fanno allora?
Ma nella recita in diretta radiofonica non ha fatto quindi il fa# ? (mi preva ci fossero “solo” i mi…)
Per la diretta radio ha eliminato diverse storture e per non rischiare e perché provata (suppongo). Quel fa# mi auguro lo metta in archivio e prepari per Bergamo qualcosa di più adeguato per variare.
Bene!
A Bergamo la andrò a sentire 😀
…a questo punto sono molto curioso di sentire questa Rosmonda domenica sera. Spero che J. Pratt abbia un po’ rodato la parte e corretto il tiro, è in ogni caso una signora cantante ma non faccio fatica a riconoscere nelle parole di Tamburini pregi e difetti già ascoltati in altre occasioni… Vi farò sapere come sarà la terza recita.
Purtroppo i programmi di sala sono sempre più poveri di contenuti musicali: spesso, tolte le pagine patinate riservate alla pubblicità (pur necessaria, ma che non dovrebbe diventare esclusiva) e quelle dedicate al libretto e alla biografia dell’autore, resta ben poco. Peccato: soprattutto nel caso di opere rare o presentate all’esito di ricerche musicologiche complesse. La questione della cavatina di Rosmonda, quella “Perché non ho del vento”, può essere ricostruita dal libretto d’accompagnamento della bella edizione Opera Rara: la parte di Arturo, il paggio, era nella prima versione meno sviluppata e Donizetti – che già aveva composto l’aria con pertichini – accettò il consiglio di Romani ed eliminò gli interventi del paggio. Tali pertichini furono poi reinseriti nella versione napoletana (più generosa con Arturo), anche se non venne mai eseguita.
Quanto si vogliono proporre operazioni filologiche dovrebbe essere obbligatorio illustrare obiettivi, modalità di lavoro, stato dell’arte e conclusioni (per provvisorie che siano) della ricerca. La serietà è in questo senso è poca e ci si ostina a trattare tutto il pubblico come una massa di cretini o disinteressati cronici; consultando su internet l’autografo napoletano abbiamo fugato – in gruppo – diversi dubbi sull’operazione, però non è sicuramente questo il modo corretto di procedere da parte di chi si prefigge di fare cultura.
E così ho finalmente ascoltato questa Rosmonda, terza e ultima serata fiorentina. Opera che conosco poco e poco si capisce dal programma di sala quale sia stata la scelta della versione e da cosa sia stata guidata. Se da un lato sembra comprensibile la scelta di eseguire la versione dalla sortita di Rosmonda senza pertichino più strana sembra essere la scelta del finale, ricostruito? Tagliato? Rispristinato l’originale fiorentino? Mah! Certo, così sembra un po’ monco.
Venendo al concerto di sabato se si vuole dare nuova vita ad una partitura dimenticata serve direttore di esperienza, qualcuno che sappia creare atmosfere accompagnare e guidare i cantanti e questo non c’era. Il direttore ha dimostrato di saper contare. Tutto troppo forte tutto troppo uguale, nessuna atmosfera evocata e questo in un opera dove tra marce, marcette e cori…il rischio banda è ben alto. A questo metronomico piattume ha contributo ben bene anche parte della compagnia di canto. Sinfonia, cori marce e duetto tra la Regina e Arturo passano via senza un accenno di fraseggio. Per sentire la prima frase modulata della serata si deve aspettare che entri in scena M. Spyres che “canta”, cosa non comune di questi tempi e tutt’altro che scontata. Modula, interpreta, è musicale e restituisce un personaggio a tutto tondo. La voce non è straordinaria e non svetta, no, questo mai ma la sua è un ottima prova. Non ascoltavo dal vivo Eva Mei, da una quindicina d’anni. Difficile definire la sua prova di sabato, completamente fuori parte (non si capisce come una operazione “filologica” possa prevedere un soprano leggero in una parte scritta per la Del Sere), intubata e usurata ha avuto notevole difficoltà a farsi sentire data la pesantezza dell’orchestra e l’acustica da AutoRimessa del nuovo teatro fiorentino. J. Pratt ha cantato bene, direi che si è impegnata o quanto meno non si è limitata a compitare la parte come in altre occasioni, un sentito e vario fraseggio c’era per quanto possibile e consentito da un orchestra che non guarda in faccia nessuno e va avanti come un caterpillar. Verissimo quanto scritto da Tamburini, la parte anche se scritta per la Tacchinardi è piuttosto centrale e tutto sommato piuttosto piana. La Pratt sparge sulla partitura acuti e sovracuti a manciate, alcuni presi alla garibaldina altri cum grano salis e quando si concede una frazione di secondo in più per posizionare il suono il risultato è perfetto; troppi? Sicuramente sì. Fuori stile? A volte decisamente si. La signora Pratt non ha ancora capito che non serve a nulla sottolineare tutte le righe di una pagina di un libro; alla fine il pubblico è assuefatto anche al sovracuto. Meglio pochi, ben piazzati e coerentemente quando la situazione drammaturgica lo consente e lo richiede. La regina del fraseggio donizettiano L. Genger in questo senso rimane insuperata. Era la mia prima volta nel nuovo teatro Fiorentino, ottimo esempio di architettura fatta per essere guardata, l’acustica è davvero problematica. E lo era in una serata a forma di concerto con i cantanti schierati davanti l’orchestra. La sala è enorme, fin troppo per 1800 posti, con un enorme boccascena che si mangia buona parte del suono che arriva dal palco. Io ero in un posto di I ordine, laterale ma piuttosto vicino alla scena, non so se in altre posizioni l’acustica sia migliore. Non immagino come possa essere un opera con personaggi in movimento sul palcoscenico.
Ma l’insuperato modello di fraseggio donizettiano (confermo atteso che come interprete donizettiana la sentii quando era rimasto solo il fraseggio, 1978 Venezia) la Leyla lo imparò (il fraseggio in generale) da maestri che rispondevano al nome di Serafin e Gui e magari anche Votto e Gavazzeni, da ripassatori come Tonini e spiando dietro le quinte una secchiona sempre preparatissima che si chiamava Callas. Cosa può imparare oggi se non per discesa del Paraclito Miss Pratt?
Questo va tenuto presente a mio avviso.
scusate se torno su questo argomento così tanto tempo dopo, ma ho acquistato qualche giorno fa la registrazione tratta dalle recite di Bergamo. Questa storia che mancando il finale fiorentino, l’opera sia stata fatta finere nel nulla è assurda. E questa è filologia? capisco a mala pena farlo in forma di concerto, ma troncare l’opera durante una recita in scena e “NON” farla finire con un accordo che armonicamente non risolve in nulla a me sembra una gran scemenza. Non c’è il finale fiorentino? esegui quello napoletano, non si scandalizzerà nessuno! Lo spieghi nel programma di sala e permetti una corretta fruizione della partitura.
Io ho ascoltata dal vivo solo in concerto a Firenze ma sentire nella registrazione il pubblico di Bergamo che sente l’opera troncata all’improvviso e non sa se applaudire o no, è davvero risibile. Qualcuno ha assistino a questo momento di Teatro dell’Assurdo durante le recite di Bergano?
Sì, c’ero, è stao una specie di guardarsi intorno: “è finito? bene, torniamo a casa”! In ogni caso in quella recita l’assurdo era cominciato già dall’inizio con un ritardo di 15-20 minuti e la Mei che nell’ombra cantava al limite del palcoscenico (certo sofferente) e una figurante (?) che la sostituiva in scena. Poi gli analgesici devono aver fatto effetto e nel II atto è tornata in scena lei stessa.
E così hanno fatto uscire il dvd e il cd…perbacco! Fosse stato il cd di Firenze con Spyres, ma immortalare in dvd e cd le esecuzioni di Bergamo…
È la documentazione fedele della.ns cialtroneria. Giusto avere fatto il disco…..rappresenta il presente
quando la filologia confina con la tassidermia…
Qui di filologia – visto come si è predisposta l’edizione – ce n’è stata un gran poca…
Ricordo a tal proposito – sul finale lasciato monco (nonostante esista quello d’una versione differente – un’incisione del Requiem mozartiano in cui, accanto ad una versione dell’opera con i completamenti di una delle diverse edizioni disponibili, veniva eseguito il frammento mozartiana sic et simpliciter: una bozza priva di senso compiuto, spesso con lunghi momenti di silenzio per rendere le battute vuote del manoscritto. Ora mi chiedo che interesse può risiedere nell’incidere una bozza: la curiosità musicologia (per i pochi che ignorano la storia del Requiem) poteva essere soddisfatta con la lettura di un saggio o di una partitura recante il solo frammento, non un’esecuzione insensata e senza capo né coda…