Il Don Carlo del Festival Verdi.

don-carlo-parma-2016Quest’anno lo spettacolo inaugurale del Festival Verdi di Parma è stato trasmesso non già sulle reti locali quali TeleParma e Teleducato, per gli amici tele culatello e tele tortello, ma su Sky Classica. Per dirla fuori di qualunque provinciale metafora si tratta del solo salto qualitativo compiuto quest’anno dalla manifestazione. Dell’inutilità di un festival Verdi ossia di un festival dedicato all’autore la cui quota parte della produzione viene regolarmente proposta in tutti i teatri del mondo abbiamo già parlato, dell’inutilità e della miseria delle scelte vocali, direttoriali e registiche, ad onta della traboccante, ingenua parmigianità, pure. Quest’anno la trasmissione su Sky Classica, riguardo la quale abbiamo a riflettere, ha dimostrato -fatti alla mano- che “il temuto leone” (ovvero il loggione parmigiano) sia ormai un felino da cartone animato e con la dentiera di gomma.
Per evitare che il loggione potesse eccepire alcunché i rodati ( nell’abuso della credulità popolare e della buona fede di cui i parmigiani esondano) organizzatori della fiera hanno servito nel ruolo di Filippo II, sogno di tutti i bassi, Michele Pertusi, parmigiamo doc, che solo i concittadini possono ritenere cantante da Verdi. Autore che di fatto canta solo in patria. La voce è ingolata, da sempre, ormai di poco volume o più precisamente come tutte le voci ingolate di scarsa risonanza, di scarsi colori e quindi incapace di realizzare quella sottile introspezione nel dramma del re, del marito e del padre, che per forza di cose è la sigla dei Filippo di limitato mezzo. Unico, irripetibile esemplare Marcel Journet. Quando poi arrivano le frasi arroventate e del sovrano, che si oppone all’ingerenza temporale della Chiesa, e del marito, che si crede tradito, il cantante è impari al compito perché difetta la proiezione della voce e la ricerca di un accento che non c’è costringe ad abbandonare il gusto castigato. Mi permetto di offrire a confronto l’intimistica realizzazione di Journet, Plançon che risplendevano per qualità tecnica e magistero interpretativo. Chi ascolta con orecchie formatesi fuori della preclusioni del ducato Farnesiano sentirà che i modelli proposti sono raffinati, cantano legatissimo con suoni sempre morbidi e raccolti, ma non abdicano mai a solenne aulicità che di Filippo Re e, prima ancora, personaggio del Grand-Opéra sono la sigla. Il Filippo di Pertusi può evocare qualche proprietario terriero del ben noto ciclo di Guareschi. Anche nella recitazione e nel costume che presenta un bel cappotto con collo di pelliccia che era, deposto il tabarro, la divisa dei proprietari terrieri e del mediatori di bestiame della bassa emiliana.
Siccome Parma fa le cose in grande o meglio fa credere di farle proponendo i prodotti avvizziti di una nota agenzia di cantanti abbiamo avuto un improponibile don Carlos di un ex tenore lirico leggero (Josè Bros) anche di buona scuola e buon gusto al quale carriera e decorso del tempo, inesorati, hanno accorciato la gamma acuta che o falla (il solito si nat di “sarò tuo salvator o Fiandra”) o si mostra sfaldata (tutta la frase da vero tenore eroico di “ei sua la fé” all’apparizione dei coniugi alla tomba di Carlo V), reso impossibile un legato professionale (“Dio che nell’alma infondere” e l’aria di sortita). Lo stato di sfaldamento e decozione sono esemplari anche nella simpatica Marianne Cornetti, vera voce di soprano Falcon, categoria cui anche Eboli, oltre che Elisabetta appartiene, ma vero Falcon circa 15 anni fa. Oggi la Cornetti canta i ruoli di contralto che spesso sono prossimi alla caratterista come Quickly, Ulrica e Zia Principessa e si sente, soprattutto nel velo dove mancano leggerezza, flessuosità e pieghevolezza della voce. Le cose andrebbero un po’ meglio al Don fatale dove, erroneamente basta avere “una voce e degli acuti della Madonna”. Questo possono crederlo solo gli sprovveduti perché Eboli richiede slancio e scatto ma anche legato “oh mia Regina” e un controllo in zona medio alta della voce oggi persi dalla cantante americana. A suo merito l’avere eseguito legato come scritto la salita al do bem del secondo “ti maledico”. L’ho sentita e con un risultato non felicissimo in teatro solo da Martyne Dupuy. E poi chi ascolta con attenzione si accorgerà che la voce della Cornetti nella zona medio alta suona opaca ed usurata ed incapace di qualunque sfumatura, come sempre accade al cantante usurato.
Composto e misurato per nulla incline al bercio questo sono gli aggettivi e le qualità da sempre riconosciute a Vladimir Stoyanov, ma il marchese di Posa deve anche propagandare il suo modello di mondo migliore oppure dare l’ultimo addio ad un amico, davvero molto amato e siccome l’opera la si canta ci vogliono nelle sezioni del duetto con Filippo e nella conclusione della morte “Io morrò, ma lieto il core” acuti facili, squillanti e morbidi e non i suoni ovattati e forzati che da sempre in Verdi il baritono bulgaro offre.
Alla fine il meglio sotto il profilo vocale è venuto da rimpiazzo dell’ultimo momento ovvero Serena Farnocchia chiamata a sostituire Maria Josè Siri, che scarsa prova di sé aveva appena offerto quale Norma e che sarebbe la Cio Cio San del 7 dicembre. Dico subito che non capisco perché la Cio Cio San milanese non sia Serena Farnocchia. E questa non è una facezia o una battuta, ma una riflessione perché la cantante toscana senza essere esemplare ed incomparabile per voce e fraseggio è una professionista e quindi pur con dei limiti vocali (una prima ottava piuttosto inconsistente ed una certa tendenza al vibrato) una credibilissima Elisabetta, che sa quando cantare piano, quando forte, come scandire ed accentare. Preciso che il tessuto connettivo dei teatri quello la cui presenza consente di andare sempre in scena senza rischi di guai dovrebbe essere costituito proprio da cantanti della levatura di Serena Farnocchia. Mi sono anche domandato senza trovare una risposta che fosse onesta e spendibile sotto il profilo artistico perché abbia fama e carriera una mediocre vocalista ed improponibile interprete come la Harteros e non già la Farnocchia.
In fondo la buona Elisabetta proposta meritava di essere levata sugli scudi e portata in trionfo da un pubblico che ha applaudito (e pure premiato) una inqualificabile come la Lewis.
Rimangono poi allestimento e direzione. La parte visiva era parrocchiale ed ancor di più una presa in giro ordita da regista e suoi adepti. Mi limito al finto marmo che, tipo deposito lapidi del cimitero, imperversava. Già visto nel Parsifal scaligero 1994, credo, o alla ridicola lapide con scritta in spagnolo (almeno un Carolus) del primo quadro dove il flagellante riproponeva l’antico don Carlo scaligero del 1969 e quello che “strusciava il pavimento” l’allestimento di Bondy a Parigi e Londra. Tralascio poi il corteo dell’autodafè che era la versione mignon del celebrato, contestato e costosissimo allestimento del bicentenario scaligero con tanto di crocefissi in stile ligure, che evocano solo il proverbio genovese “pescar di canna, cacciar di vischio e portar cristi sono affari da belinoni”, mica la cupa Spagna dell’Inquisizione.
Questo significa, al di là delle battute, non avere una idea unitaria sulla parte visiva del titolo, e peggio ancora prendere per il culo il pubblico che per altro siccome non fischia e non rumoreggia con il suo tacere approva e di allestimento in allestimento viene continuamente e vieppiù turlupinato da chi dovrebbe offrirgli uno spettacolo, ovvero un’occasione di crescere e di riflettere.
A questa idea del tirar sera, mettere insieme il mezzo giorno con la sera, risponde la direzione di Daniel Oren, che fa un giusto rumore, accompagna i cantanti, non ha una straccia di idea interpretativa in buca, tanto meno in palcoscenico dove ogni cantante fa quel che sa e qual che può. Spesso poco e quasi sempre non al livello del luogo dove si vorrebbe eseguire Verdi in maniera paradigmatica.

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Un pensiero su “Il Don Carlo del Festival Verdi.

  1. Dunque, vediamo. Ho assistito alla recita del “Don Carlo” parmigiano del 5 ottobre. Non dico nulla sulla opportunità o meno dell’esistenza di un “festival Verdi” a Parma (a me l’idea piace, ma è solo il mio punto di vista). Solo due parole sulla rappresentazione. Regia, scene e costumi decisamente non esaltanti, con qualche buona idea qua e là.
    I cantanti. Michele Pertusi mi è parso in gran forma e sono stato contento di avere assistito al suo debutto nei panni di Filippo II: convincente e appassionato, capace di dare corpo e voce a una delle figure più complesse di tutta la storia dell’opera. Non mi è parso affatto un Filippo II “di limitato mezzo” e “impari al compito”. Certo, non è Christoff né Ghiaurov (per citare due Filippo che ho avuto la fortuna di ascoltare in teatro), ma sfrutta al meglio le proprie qualità vocali, che è quello che ogni cantante intelligente e sensibile credo dovrebbe fare. Forse la fa anche Journet, ma… che dire? canta bene, d’accordo, ma davvero sul piano interpretativo non vi annoia nemmeno un poco?
    José (l’accento credo sia acuto, non grave) Bros: voce forse troppo chiara per Don Carlos, ma squillante quando serve; interpretazione senza infamia e senza lode, forse, ma definirlo “improponibile” mi pare davvero ingeneroso.
    Vladimir Stoyanov: mi è piaciuto molto, vuoi per la misura nel canto, vuoi per l’efficacia interpretativa. Prevalgono la dignità e la nobiltà su altri aspetti del personaggio? può darsi, ma il suo Rodrigo si fa ascoltare (almeno da me) davvero con piacere. Suoni “ovattati e forzati”? mah…
    Serena Farnocchia: condivido parola per parola quello che ha scritto Domenico Donzelli, e quindi non aggiungo altro.
    Marianne Cornetti: un torrente di voce usato spesso a sproposito, ma si può ascoltare.
    Ievhrn Orlov era il Grande Inquisitore: no comment. Accettabile il Frate di Simon Lim, cantante che ho ascoltato altre volte in parti più impegnative.
    Bene il Tebaldo di Lavinia Bini. Perfetta, a mio modo di sentire, la Voce dal cielo di Marina Bucciarelli (parte microscopica ma per me sempre suggestiva).
    Un saluto a tutti e grazie per i vostri scritti, sempre stimolanti.
    Giorgio

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