Oltre alle repliche di Rosmonda d’Inghilterra e alla produzione de Le Cinesi di Manuel Garcia père (allestita al Teatro Goldoni, sede in ogni senso dimensionata alla circostanza), il Belcanto Festival organizzato dall’Opera di Firenze ha visto in questi giorni due appuntamenti concertistici, per certi aspetti simili, per altri profondamente diversi e quasi antitetici. Al centro dei due appuntamenti i protagonisti di Rosmonda, Michael Spyres e Jessica Pratt, impegnato il primo in un omaggio ad Andrea Nozzari (e questo è davvero un appuntamento di belcanto, visto che la definizione coniata da Rodolfo Celletti, che vede in Semiramide l’ultimo titolo di belcanto, attende ancora plausibile smentita sotto il profilo drammaturgico e poetico), la seconda in una serie di pagine belliniane e donizettiane. Prima differenza: come già la scorsa estate a Pesaro, Spyres ha proposto un programma che, partendo da un’idea guida dichiarata fin dal titolo, gli ha consentito di spaziare da titoli già compresi nel suo repertorio (Otello, Donna del lago, Ermione, Medea in Corinto) ad altri non ancora affrontati, ma plausibili (Elisabetta, Ricciardo), avendo l’accortezza d’inserire anche un brano (da Alessandro nelle Indie di Pacini) quanto mai adatto alle sue possibilità tecniche ed espressive (si tratta di uno degli ultimi ruoli creati dal tenore bergamasco, come prova anche la tessitura, piuttosto comoda). La Pratt sembra invece avere optato per quello che Alfred Hitchcock definiva “run for cover”, ovvero una rassegna dei ruoli abitualmente affrontati in teatro (da Capuleti a Sonnambula e Puritani, dalla recente Linda di Chamounix all’ovvia Lucia di Lammermoor, proposta a Firenze più volte, l’ultima l’anno scorso), senza che però vi fosse un nesso altrettanto chiaro fra i diversi brani. In realtà (e veniamo qui alla prima analogia) entrambi i programmi sembrano essere stati assemblati con molte incertezze e ripensamenti: quello di Spyres, inizialmente privo di pausa, schierava dapprima i titoli rossiniani e poi le scene di Mayr e Pacini, mentre nella stesura definitiva ha prevalso una più saggia alternanza di autori e onerosità dei brani (come a Pesaro, il direttore David Parry ha dovuto far da “annunciatore”, presentando al pubblico i cambiamenti nel corso della serata). Nel secondo concerto era invece prevista la scena di Camilla dagli Orazi e Curiazi di Mercadante (a un certo punto, dal solito gossip che puntuale e intempestivo impera in rete, sembrava che la serata sarebbe stata dedicata interamente a questo autore), cassata poi dal programma (peccato, perché quanto udito l’anno scorso a Parma faceva molto ben sperare con riferimento a questo brano – sempre dalle solite “gole di Napata” parrebbe che l’efficiente organizzazione fiorentina non avesse reperito le parti orchestrali della scena in questione), mentre il programma di sala riportava testi che non sempre rispecchiavano la realtà dell’esecuzione (il finale di Sonnambula è stato proposto ovviamente senza pertichini, ma anche senza recitativo e passo di raccordo fra cantabile e cabaletta, del terzo atto dei Puritani è stato eseguito solo il duettone, partendo però dalla sezione centrale, “Da quel dì che ti mirai”, abitualmente tagliata, mentre è stata omessa la cabaletta della scena della morte di Edgardo). Altro punto (dolente) in comune fra le due proposizioni concertistiche, una bacchetta non all’altezza del compito, che in titoli come quelli proposti non può limitarsi a staccare il tempo all’orchestra, evitando possibilmente entrate fuori tempo, e dare gli attacchi ai solisti, ma deve da un lato sostenere e guidare il canto, dall’altro plasmare quelle atmosfere, in assenza delle quali le opere italiane rischiano di trasformarsi in una successione di gradevoli, seppure a volte piuttosto anodine, melodie. Né il già citato Parry né Fabrizio Maria Carminati hanno brillato in questo senso: il primo, discreto accompagnatore (e, in quanto già direttore “di fiducia” di Opera Rara, etichetta che ha inciso tutti o quasi i titoli creati da Nozzari, plausibile mentore del tenore nella scelta dei brani e della loro disposizione), è caduto su una pagina impegnativa come la sinfonia di Ermione, pasticciata maldestramente e incapace di restituire il clima a un tempo fosco e aulico della tragedia neoclassica, mentre il secondo ha dispensato, fin dall’ouverture del Devereux e poi nelle introduzioni alle arie, fragori assolutamente fuori luogo, sonorità e accenti meccanici da farsetta. Insomma, conteggiando anche la Semiramide, possiamo dire che in queste settimane si è davvero dato convegno, a Firenze, il non plus ultra dell’arte direttoriale! Quanto ai protagonisti, una minuziosa disamina di pregi e difetti risulterebbe, credo, ripetitiva rispetto a quanto scritto negli ultimi giorni. Spyres si è distinto positivamente in quelle pagine (Alessandro nelle Indie, Elisabetta) che per tessitura centralizzante e necessità di tono elegiaco o dolente sono risultate a lui più congeniali. Come Otello e Rodrigo di Donna ricordiamo più volentieri altre performance, caratterizzate da una minore difficoltà di conciliare canto in zona medio-grave e salita agli acuti, mentre come Pirro e soprattutto come Antenore manca al tenore statunitense l’ampiezza e la proiezione vocale per risultare davvero incisivo (e per non far trascolorare nel comico involontario l’esibita protervia d’accento). Quanto alla Pratt, forse un poco affaticata dai recenti impegni, è riuscita a esibire al centro un controllo del suono maggiore rispetto a Rosmonda (segnatamente come Giulietta e Lucia, forse la sua prova migliore della serata), acuti e sovracuti precisi e a fuoco, ma meno insolenti che in altre occasioni (un poco deludenti quelli del finale di Sonnambula, meglio quelli della tyrolienne di Linda), e dal punto di vista espressivo una buona capacità di entrare nella musica, di trovare per ogni pagina accenti misurati quanto pertinenti. In questo il soprano australiano potrebbe essere stata adeguatamente stimolata dalla necessità di confrontarsi con un collega, che degli accenti del tenore romantico all’italiana sembra possedere, unico o quasi tra i suoi coetanei e per conseguenza della tecnica di canto, il segreto. Parliamo di Shalva Mukeria, che oltre a eseguire la romanza del Duca d’Alba, quella dell’ultimo atto di Favorite e Tombe degli avi miei, ha affiancato la Pratt nel duettone dei Puritani e nel finale primo di Lucia, oltre che nel bis (Son geloso del zefiro errante da Sonnambula). Se non abbiamo nominato prima il cantante georgiano, siamo in questo pari all’Opera di Firenze, che ha ben pensato di dedicare la foto della locandina unicamente al soprano, quasi che il tenore fungesse da riempitivo o poco più, o più semplicemente che gli addetti a tali incombenze non possedessero un’immagine del tenore. Superato lo scoglio della romanza di Marcello, eseguita con visibile e udibile impaccio e qualche fiato corto (ma anche un’espansione trascinante nella salita conclusiva al si bemolle), assecondato da un’omogeneità (dal registro grave, invero un poco vuoto, al do diesis acuto) e da una proiezione del suono per evocare le quali bisogna giocoforza rivolgersi agli esempi del passato recente (Kraus) o meglio ancora ai polverosi 78 giri (soprattutto di scuola russa), Mukeria ha toccato con crescente sicurezza tutte le corde del veemente e malinconico eroe romantico, dalla tenerezza del redivivo Arturo alla desolazione di Fernand, alla passione amorosa e al desiderio autodistruttivo di Edgardo, fino alla soave galanteria di Elvino. La voce, chiara nel timbro e piuttosto comune, nobilitata dalla saldezza e uniformità dell’emissione, risulta sonora nei frequenti piani e pianissimi come nelle frasi più ardenti e scandite: il controllo della respirazione fa il resto. Certamente questo repertorio risulta, per un tenore non più giovanissimo, un poco oneroso da gestire, come provano i tagli e la scelta di eseguire il duettone dei Puritani “accomodato” di mezzo tono, ma la prova è nondimeno impressionante, anche perché dimostra, più di ogni possibile discorso, il potenziale drammatico e poetico di un repertorio a volte frainteso, spesso banalizzato, sistematicamente denigrato rispetto ad altri.