Una accademia, se tale fosse sul serio, proporrebbe il Flauto magico nella sola ipotesi in cui disponesse al proprio interno di un poderoso basso ed un soprano dotatissimo in alto e versato per il canto d’agilità. Circostanza ben difficile a realizzarsi. Che non si è realizzata infatti, tanto che abbiamo rivelato, anzi lo ha rivelato Internet, come il Teatro alla Scala sia ricorso alla provincia tedesca per assemblare il cast dello spettacolo dell’Accademia.
Peggio ancora la scelta di affidare l’allestimento a Peter Stein perché per propinare quello spettacolo da parrocchia (misera e di periferia, mica, per restare a Milano, quelle elitarie di S. Ambrogio o San Marco) bastavano studentelli del liceo artistico, mica dell’Accademia. Un po’ di simboli massonici sparsi quinci e quivi e quei siparietti delle riviste di Garinei e Giovannini o degli intrattenimenti dove, però, rifulgevano l’arte di una Ave Ninchi, di un Paolo Panelli, dei coniugi Vianello. Insomma Un trapezio per Lisistrata o giù di li. Ci si può divertire a trovare le fonti scopiazzate da Stein (indizio: cercare anche nelle produzioni di prosa, allestite dallo stesso regista proprio a Milano). Quelli che, come sempre, non erano la copia del Monopoli, ma ghelli sonanti erano il compenso di Stein. E allora una roba del genere deve essere descritta e ridicolizzata a dovere, perché un grande regista, come un grande direttore quando fa cose da parrocchia dovrebbe essere pagato come la parrocchia o il dopolavoro possono permettersi. Cioè una cena.
Vorrei ricordare che il compenso per Kirsten Flagstad al suo ultimo debutto quale Dido nell’omonima opera di Purcell fu un bel boccale di birra a fine recita e ciò nonostante la grandezza di quella prestazione della quale dobbiamo ancora tenere conto.
Allora abbiamo sentito una ouverture molto piatta ed incolore, anche se l’orchestra era abbastanza precisa.
Poi è arrivato un serpente verde che si muoveva come un aspirapolvere elettrico che inseguiva un ragazzotto dalla voce indietro e morchiosa, assai più abile nelle capriole che nel canto, il quale veni,a salvato da tre battone da Paullese, che tali sembravano e che pur essendo tre cantavano con voce identica (poca e bruttina). Poi è arrivato un pollastrone a due gambe vocalmente piatto, interpretativamente noioso, senza un armonico nella voce.
Il nostro ragazzotto ha intonato, anzi stonato l’aria del ritratto con suoni di bassa posizione che ricordavano quelli del bel Jonas, che solo incompetenti veri ed incompetenti per opportunismo possono definire cantante d’opera. Altro colpo di regia e appare la Regina della Notte, assisa come il monumento viennese a Maria Teresa o come l’Azucena di Ronconi a Firenze nel 1977: vocetta da soubrette, registro grave inesistente, strilli in zona acuta e sovracuta, fiato corto; insomma un disastro. Se fossimo alla visita militare neppure rivedibile: RIFORMATA.
Per altro la figlia è come mammà e Pamina insidiata da Monostatos più che cantare guaisce, guardando con terrore il direttore d’orchestra. Monostatos ed i suoi assistenti ricordano i moretti dell’Aida. Forse Stein vuole farsi perdonare lo scellerato taglio imposto alle danze di Aida.
All’apparire del tempio siamo sempre sotto il profilo visivo al sabato sera della Rai anni ’60 con l’aggiunta di cipressetti, che potrebbero essere il recupero o il refuso di uno spettacolo di Bob Wilson. Un po’ di simbolo massonici tanto per ricordare quanto letto sulla Garzantina e un’aria di Tamino cantanta con voce stonata, legato inesistente, accenti degni di compare Turiddu. Vorrei proporre un paio di valenti compare Turiddu nelle pagine mozartiane per mettere al suo posto (ovvero dietro la lavagna con le orecchie d’asino) il sig. Martin Piskorski. Il paragone da scuola è doveroso per un allestimento che si propone di essere didattico e nulla più.
Poi entra, vestito come gli spiriti dell’ade di “47 morto che parla” un Sarastro dalla voce vuota e sorda in baso e dalla inesistente ampiezza. Per essere ampi o simulare ampiezza si deve saper cantare. Detto e scritto migliaia di volte. Invano e per fortuna con un po’ di rumore, ma una certa precisione finisce l’atto.
Il secondo atto comincia con un’introduzione orchestrale dignitosa, nel senso che da una compagine studentesca non ci si aspetta un suono ricco e impalpabile, ma semmai attacchi puliti e compattezza di suono. Che dovrebbero essere le caratteristiche basilari, a partire dalle quali un direttore capace possa costruire un’interpretazione. Qui la marcia dei sacerdoti evoca, al massimo, scenari arcadico-pastorali. L’effetto non è sgradevole, ma risulta abbastanza lontano da quanto previsto dall’autore. E non si cominci con la usurata storiella del Singspiel per giustificare colori e sonorità attutite.
Alla prima delle sue due grandi arie Sarastro si conferma voce di scarsa cavata. In più, la dizione (come nella successiva “In diesen heil’gen Hallen”) risulta discutibile. Rose e fiori dinanzi al canto, o per meglio dire ai borborigmi, dei due sacerdoti, deputati ad accogliere gli iniziandi Tamino e Papageno. Anche qui la pronuncia tedesca è piuttosto scolastica (anche oltre quanto sarebbe lecito attendersi da uno spettacolo scolastico, quale il Flauto dell’Accademia scaligera, peraltro, NON è, in quanto proposto a prezzo pieno e non a un pubblico di invitati, parenti, amici e personale non docente).
Oltrepassata la metà dello spettacolo ancora sfugge l’ubi consistam dell’ingaggio di Peter Stein, che avrebbe, secondo vulgata (cui chiunque mediamente aduso a questo mondo), lavorato un intero anno con i cadetti della Scala allo scopo di montare lo spettacolo. La pigrizia (naturale e persino doverosa, quando riguardi attività completamente inutile) ci impedisce di documentarci e riferire sugli impegni teatrali di Stein degli ultimi dodici mesi, ma un impegno full time sembra, a dir poco, scarsamente probabile. Al massimo possiamo ammettere che il Maestro abbia dato l’input (quale, resta oscuro) e che zelanti assistenti e maestri collaboratori abbiano fatto il resto. Il risultato è una Regina della Notte, che cerca di cantare la seconda aria (passata assolutamente sotto silenzio: un unicum!) con le stesse mende tecniche esibite nella prima, per giunta immobile, anzi impalata, senza che la posa suggerisca furore diabolico o potenza sovrannaturale. Beppe de Tomasi avrebbe fatto meglio, anche solo in virtù di una scenografia più evocativa (ma non necessariamente meno economica).
Monostatos, ancora una volta abbigliato come i buoni selvaggi dei film su Robinson Crusoè, esibisce voce legnosa perché non impostata, mentre i tre geni, fanciulli cantori importati dall’Austria, sembrano affrontare la muta della voce mentre si esibiscono. Anche qui, davvero non sarebbe stato possibile individuare, in Accademia, tre fanciulle in grado di dar voce a questi personaggi? Molti teatri hanno affidato queste parti a voci femminili: ad esempio, al Met nell’aprile del 1900, Rosa Olitzka e Suzanne Adams. Tanto per continuare a sognare ricordiamo che la Regina era Marcella Sembrich e fra le dame c’erano Milka Ternina ed Eugenia Mantelli! Papagena era invece Zélie de Lussan, che davanti alla spennacchiata Papagena scaligera sarebbe parsa non solo un’esimia virtuosa, ma una voce da Siglinda o Elisabetta del Tannhäuser.
Alla fine di questo spettacolino da oratorio, la riparazione, doverosa, scatta con grandi allestimenti tradizionali, ma non pauperistici o stupidi, dell’estremo capolavoro mozartiano.
3 pensieri su “Un Flauto accademico.”
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Grazie!
Un assurdità, questo allestimento provinciale.
Non dico altro.
Bell’articolo. Mi è piaciuto, Veramente divertente. Più di quanto mi pare sia stato il Flauto scaligero (che non ho sentito e non ho intenzione di sentire).
Credo che Stein, con l’opera, abbia trovato la proverbiale “gallina dalle uova d’oro”, perché di soldi – nel melodramma – ne girano parecchi: molti più che nel teatro di prosa (dove però sono rimaste le idee). Sembra incredibile che il grande Maestro di Faust, Der Park o I Demoni, capace di trasformare qualsiasi cosa in tetro vivo e vivente, sia lo stesso che ci ha propinato Aida. Flauto e quel Don Carlo che l’anno prossimo sbarcherà a Milano. E mentre nella prosa Stein parte da idee che si tramutano in gesti ed interpretazione in macchine teatrali perfette, nell’opera pare accontentarsi del mestiere di “allestitore” tanto le sue regie sono prive di qualsiasi spunto teatrale o di studio del personaggio (i vecchi concerti in costume erano più vitali). Il tutto aggravato da apparati scenici che definire minimali è un eufemismo: non è l’essenzialità il problema, ma il livello da parrocchia degli allestimenti, in un’estetica da saggio di scuola che se per taluni è proprio la peculiarità positiva, nei fatti è una presa in giro (anche in virtù del prezzo pieno a cui viene pagato il biglietto e, immagino, il compenso del regista). Poi, francamente, allestire nel 2016 un Flauto Magico come una mera fiaba per bambini senza tener conto di tutto quel che c’è nel testo, mi sembra una scusa bella e buona per rinunciare a qualsiasi sforzo. Il Flauto Magico non è solo una favola, ma un’opera teatrale con un forte significato filosofico con cui ci si deve necessariamente confrontare (il che non significa trasformarla in un serioso oratorio massonico). Dopo l’ascolto (televisivo) ho anche letto che ad uno spettacolo d’accademia si dovrebbe maggiore indulgenza: vero, verissimo…pecato, però, che tale spettacolo era proposto a prezzo pieno. Taccio del cast – idealmente riportandomi alle parole del collega Donzelli che condivido in toto – ma non del direttore: devo ad Adam Fischer alcune delle più belle interpretazioni mozartiane (in campo discografico) degli anni recenti. A cominciare dall’integrale sinfonica sino alle opere serie (Mitridate, Lucio Silla e Idomeneo). Sentire ciò che non riesce ad ottenere dalla evidentemente deficitaria orchestra accademica (dovuto ovviamente alla qualità della stessa e all’oggettiva impossibilità per un direttore in carriera ed affermato di poter adeguatamente occuparsi di un progetto d’accademia che occupa un intero anno di preparazione), mi fa sorgere una domanda: invece di affidare gli spettacoli dell’accademia a nomi famosi (sul podio o alla regia) forse sarebbe più sensato sfruttare ciò di cui si dispone, cercando tra interpreti con maggiore tempo a disposizione. Perché un direttore affermato non riuscirà mai in poche prove ad ottenere da un’orchestra di studenti quel mestiere che una compagine di professionisti può dare.