Giunto alla sua sedicesima edizione, il Festival “Anima Mundi” conferma la vocazione della provincia italiana (Pisa, nel caso di specie) per la musica colta, oltre e non di rado contro i soliti circuiti, quelli che credono o vorrebbero far credere somma audacia proporre integrali schubertiane o beethoveniane affidate a pensionandi pianisti o zelanti praticoni dell’industria dello spettacolo. (C’è però, anche qui, provincia e provincia: in altre contrade si pretende di celebrare il genius loci, quando in effetti si perpetuano e si perpetrano solo riti che nulla hanno che fare con la musica, nonché con la ragionevolezza e la minimale decenza suggerita dall’impiego di fondi pubblici.) La manifestazione, che ha il suo fulcro nella Cattedrale della città toscana, propone concerti ad accesso gratuito (su prenotazione, da effettuarsi esclusivamente on line) dedicati alla musica di ispirazione religiosa o comunque attinente alla sfera spirituale. Impossibile elencare tutti gli artisti ospitati nel corso degli anni, ma sono da ricordare almeno Pierre Boulez, Nikolaus Harnoncourt, Helmuth Rilling, Colin Davis, Christopher Hogwood, Mariss Jansons, Daniel Harding, le sorelle Labèque, Gautier Capuçon e Viktoria Mullova, oltre ai più “consueti” Riccardo Muti, Zubin Mehta e Yuri Temirkanov. Dal 2006 la direzione del Festival è affidata a John Eliot Gardiner, che ogni anno propone (almeno) un appuntamento concertistico. Quest’anno, “Anima Mundi” ha ospitato la tappa conclusiva della tournée europea degli English Baroque Soloists e del Monteverdi Choir (con il concorso del Trinity Boys Choir), dedicata alla Passione secondo Matteo (l’esecuzione pisana, supponiamo assieme a quelle degli ultimi mesi, darà origine a un disco). È la seconda volta (la prima risale alla fine degli anni Ottanta) che Gardiner incide il massimo titolo del catalogo sacro bachiano: questa nuova versione appare fin d’ora contrassegnata da una teatralità autentica, dagli esiti non di rado perturbanti. Non che ci sia esteriorità o ricerca dell’effetto facile e immediato (salvo che con riferimento a scelte marginali, quali l’eco sonora di terremoto, inserita nel momento in cui l’Evangelista annuncia la morte di Cristo), ma questa Passione spicca per il rilievo conferito all’articolazione del testo, complice l’ottima dizione dei solisti e soprattutto del coro, e per l’attenzione quasi maniacale con cui Gardiner valorizza il timbro dei diversi strumenti obbligati e i colori degli ensemble orchestrali. In questo senso il direttore inglese può giustamente rivendicare di avere scelto una strada alternativa alla “drammatizzazione” delle Passioni tentata da alcuni registi (un riferimento a Peter Sellars?), senza costruire una nuova drammaturgia, ma servendosi del peculiare linguaggio dell’opera, vale a dire della chiara articolazione del testo poetico e musicale, allo scopo di veicolare il messaggio di orrore, compassione e speranza che emerge dal capolavoro bachiano. Così Gardiner, nelle note inserite nel programma di sala: “La ricerca del modo migliore di presentare questi lavori estremamente impegnativi ha portato, in molti casi, a un opportuno abbandono dei rigidi rituali reverenziali dell’interpretazione oratoriale. Si comprendono i motivi che hanno portato alcuni registi a smantellare le Passioni di Bach ed esplorare modi diversi di riprodurre questi potenti drammi musicali. (…) Il mio personale approccio si basa sulla convinzione che un simile compromesso tra azione e meditazione si possa raggiungere senza sostituire un insieme di rituali con un altro (…) Datemi un palcoscenico vuoto (non una quinta scenica) popolata da coristi liberi dai loro spartiti e da solisti che interagiscono con gli strumentisti e credo che l’immaginazione del pubblico arrivi a percepirlo con scene più vivide di quelle che uno scenografo o un regista potrebbe creare”. In questo senso sarà estremamente interessante verificare se e quanto l’esito di una simile esperienza inciderà sul teatro (completamente diverso, ma speculare e complementare) degli affetti e degli effetti, proposto dalla trilogia monteverdiana, che gli English Baroque Soloists affronteranno il prossimo anno, in occasione dei 450 anni dalla nascita del compositore cremonese. La monumentalità della Passione, parzialmente negata dalle contenute (ma non rachitiche) dimensioni dell’organico, viene prepotentemente affermata dall’inesausta varietà dinamica e agogica, perfettamente assecondata da orchestra e coro, solo sporadicamente dai cantanti (di fatto, unicamente dall’Evangelista di James Gilchrist, voce robusta, benché brada); spesso, come nella celeberrima “Erbarme dich, Mein Gott”, la perizia degli strumentisti riscatta la debolezza dei solisti di canto. Arduo elencare tutti i momenti memorabili dell’esecuzione, ma le grandi pagine che aprono e chiudono l’opera, il corale “O Mensch, bewein dein Sünde groß”, con cui termina la prima parte dell’opera, gli interventi di sacerdoti e popolo tumultuante letteralmente rigurgitano di vitalità e slancio, mentre più sommesse e come ripiegate su se stesse (e non ingiustificatamente) risultano le pagine che annunciano la conclusione dell’esistenza terrena del Redentore (e il contrasto fra il corale “Wenn ich einmal soll scheiden” e il successivo recitativo, che descrive il terremoto, non potrebbe essere maggiore). Pubblico folto e insolitamente attento, il cui entusiasmo finale, divampato letteralmente a ridosso delle ultime note, sembra spiazzare (ma, forse, non senza legittima soddisfazione) il compassato Gardiner.
Un pensiero su “Recitar orando: La Passione secondo Matteo diretta da J.E. Gardiner (Festival Anima Mundi 2016)”
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Un estratto dall’esecuzione proposta qualche mese fa a Bruxelles: https://youtu.be/T0EXUozNoQY