Predisporre il programma di un concerto è un’arte, così come – almeno nei film americani – scegliere una giuria: e se una buona giuria garantisce il buon esito di un processo, allo stesso modo un buon programma contribuisce alla buona riuscita di un concerto. Purtroppo il concerto del 5 settembre alla Scala non ha fatto eccezione: il preludio dei Meistersinger, infatti, male si accorda – già sulla carta – al mondo sonoro evocato dagli altri titoli scelti per il tour europeo dell’Orchestra della Staatsoper di Monaco e dal suo direttore Kirill Petrenko. L’occasione di ascoltare il neoletto (e discusso) direttore dei Berliner era, tuttavia, troppo ghiotta, nonostante il programma sbilanciato e l’incognita del soprano scelto per i Vier letzte Lieder. La serata è stata comunque un trionfo, e ciò potrebbe bastare a fugare ogni dubbio. Certo si tratta di un trionfo a cui hanno contribuito sicuramente anche il viscerale amore di una parte del pubblico per Diana Damrau (si sa che l’amore è cieco o, in questo caso, un po’ sordo) e la suggestione dell’evento. Elementi che hanno contribuito, certo, ma che non sono stati la ragione esclusiva del successo della serata, perché Kirill Petrenko – aldilà delle tifoserie, dei dubbi e dei pregiudizi – è un gran musicista dotato di grandissimo talento, comunicativa, originalità. Non tutto ha funzionato alla perfezione e forse un trionfo così smaccato è stato pure eccessivo, ma si deve comunque rapportare a quel che abitualmente ci tocca sentire in quella sala nella stagione operistica e in quella sinfonica. Il programma, come dicevo, mi è parso disomogeneo: la presenza dei Meistersinger, nel vitalistico preludio all’atto I, mal si accordava con i successivi titoli straussiani segnati da struggente malinconia e atmosfere nostalgiche: lo sguardo verso il passato dei Vier letzte Lieder, estremo omaggio di uno Strauss ormai consapevole dell’avvicinarsi della fine della sua avventura terrena, suggerisce un’atmosfera crepuscolare e malinconica in un addio sofferto e tenero alla vita, al mondo, alla stessa musica (anche se dalla sua penna uscirà ancora l’enigmatico “Malven”, ultimo regalo per la “sua” Jeritza) stona irrimediabilmente con lo sbandierato Do Maggiore che ti trascina nelle viette tortuose e cariche di vita della Norimberga del ‘500; così come non può conciliarsi con quella Sinfonia Domestica e le sue anticipazioni del mondo di un Rosenkavalier declinato in tono minore tra le gioie e i dolori della vita borghese. E purtroppo neppure l’esecuzione è riuscita a trovare l’ubi consistam, ossia quel legame con il resto del programma, anzi ha contribuito a quella sensazione di corpo estraneo già suggerita dalla scelta poco efficace. L’inizio del concerto è stato quindi deludente: tempi spediti, quasi sbrigativi, ma privi di teatralità e concentrazione. Il preludio è parso slegato nei suoi momenti che si succedevano controvoglia: l’orchestra è precisa e il suono pulito – ovvio – ma povera di dinamiche e con la fastidiosa evidenza della sezione degli ottoni che spesso sovrastava tutto il resto, a discapito della compattezza. Le cose sono cambiate radicalmente con Strauss: l’orchestra di Petrenko finalmente fa sentire musica creando un tappetto vellutato e mobilissimo di sonorità morbide e rarefatte, quasi provenienti da un mondo lontano. L’orchestra diventa strumento nelle mani del direttore ed esce il talento del musicista e la rara capacità di vivere nella propria interpretazione. Purtroppo tutta questa bellezza doveva fare i conti con l’anonima presenza della controparte vocale: Diana Damrau (salutata all’ingresso da sospiri, applausi e commenti estasiati su cui è meglio sorvolare) non ha offerto nulla di più che una lettura corretta e ordinaria, soccombendo sovente alle non certo debordanti sonorità che Petrenko amorevolmente le porgeva. Non è inciampata su nulla, ma la voce mancava di corpo e sostanza (e Strauss voleva solo la Flagstad! Lo preciso prima che si vada ad elucubrare su presunte e reali volontà autoriali), risultando solo leggera e artificiosa, talvolta affaticata e traballante. Inspiegabili, quindi, i giudizi comparsi nelle ore successive che parlavano di interpretazione storica e di miglior esecuzione possibile… La seconda parte è stata dedicata ancora a Strauss e alla sua Sinfonia Domestica in un’esecuzione semplicemente straordinaria per leggerezza e capacità interpretativa. Il poema sinfonico in quattro parti tratteggia con ironia e tenerezza, la quotidianità della vita domestica in un tono che varia dal divertito al caricaturale, dal lirico al nostalgico nel rappresentare gioia, felicità, ma anche piccoli dolori e incomprensioni, della quotidianità della vita familiare così come vissuta da Strauss stesso, senza mai scadere nel bozzettismo. La Sinfonia Domestica è il meno eseguito dei suoi poemi sinfonici, quello più sfuggente e, forse, più complesso. Anche dal punto di vista tecnico orchestrale. Petrenko coglie perfettamente il registro ironico, ma privo di cinismo, nostalgico, ma senza malinconia, facendo letteralmente danzare l’orchestra in una partitura ricchissima di espressione e contrasti. Alla fine il carattere schivo e riservato del direttore – dal gesto splendido e chiaro, ad onta di chi, leggo oggi, lo descrive intutt’altra maniera (e mi chiedo cosa abbia visto in realtà) – è emerso nelle poche parole di sincero e quasi imbarazzato ringraziamento, rivolte al pubblico al termine della serata prima di regalare un ultimo brivido con un altro Strauss (Johann) e la sua Stürmisch in Lieb’ und Tanz dalla squisita brillantezza viennese.
In appendice alcuni ascolti storici dei medesimi brani.
Gli ascolti:
– Die Meistersinger von Nürnberg: Preludio Atto I (Herbert von Karajan)
– Vier letzte Lieder (Kirsten Flagstad – Wilhelm Furtwängler)
– Sinfonia Domestica (Richard Strauss)