Generalmente sottovalutata è l’importanza nella storia della musica di Pier Francesco Caletti-Bruni, detto Cavalli (1602-1676), allievo di Claudio Monteverdi nonché musicista di grande fama, anzi, il più importante compositore operistico italiano dopo la morte del suo maestro. Leonardo García Alarcón, direttore d’orchestra e profondo conoscitore di questo repertorio, ricorre al celebre dualismo nietzschiano per esemplificare la differenza tra i due: se l’estro monteverdiano che non temeva torsioni, dissonanze, tensioni armoniche e manierismi ben rappresentava il versante “dionisiaco” della musica dell’epoca e uno stile che non trovò un reale successore, Cavalli, invece, si fece portatore di un classicismo in musica che inaugurò uno stile “apollineo” fondato sulla primazia della melodia. Questo stile sarebbe poi diventato il tratto distintivo della tradizione compositiva italiana nei secoli a venire. L’opera intesa come genere pubblico era nata proprio a Venezia nel 1637 con l’Andromeda di Manelli e Ferrari al Teatro S. Cassiano: fu proprio sull’onda di questo straordinario evento che Cavalli decise di tentare la sorte in questo nuovo campo. Il debutto al Carnevale del 1639 con Le Nozze di Teti e Peleo segnò la prima tappa di una brillante e duratura carriera che portò il nostro a guadagnarsi fama e successo sempre crescenti fino all’invito in Francia di Luigi XIV in persona (che molto dovette insistere per convincerlo a metter piedi a Parigi) e all’incarico di Maestro di Cappella di San Marco nel 1668, titolo che detenne fino alla morte. Risulta perciò sconcertante l’oblio pressoché totale che ha coperto Francesco Cavalli in seguito alla sua dipartita, oblio che solo negli ultimi decenni di riscoperte filologiche e riproposizioni dagli esiti alterni può dirsi in reale controtendenza rispetto al passato. Le ragioni di questo destino eccessivamente ingrato sono, come sempre, molteplici e anche, come spesso accade, di natura pratica: Cavalli in vita non pubblicò mai le sue opere, né tantomeno volle occuparsi di diffonderle (a differenza di Monteverdi che vi si dedicò con alacrità guadagnandosi chiara fama in tutta Europa), inoltre scrisse quasi solo drammi per musica e non canzoni, madrigali o pezzi strumentali per le corti, cioè quei generi che più favorivano la circolazione della musica di un compositore.
L’opera di quel periodo ricercava un equilibrio assoluto tra parola e musica: il testo aveva un’importanza fondamentale, certamente superiore alle tipologie vocali – che erano passabili di modifiche anche radicali per essere adattate a questa o quella circostanza – e all’aspetto meramente vocale. Altro obiettivo perseguito con determinazione era creare un rapporto di intimità tra lo spettatore e la musica per favorirne la fruizione. Questa intimità era realizzata anche per mezzo di fattori meramente “quantitativi”: le sale erano di grandezza limitata e le orchestre prevedevano, generalmente, un numero limitato di elementi. Eliogabalo fu pensato per sei soli strumenti, cioè due violini, un violone, un clavicembalo e due liuti, perché il compositore – all’epoca anche impresario – doveva tenere ben presenti ragioni di natura economica quando scriveva. Ciò non significa affatto che fosse sempre così: laddove la disponibilità di denaro era possibile, l’orchestra poteva crescere considerevolmente, come dimostra lo stesso Cavalli che predispose musica per quaranta strumenti per il suo Ercole Amante, composto nel 1660 su commissione di Luigi XIV per celebrarne le nozze.
La scelta di un soggetto così noto e scandaloso quale era quello di Eliogabalo si rivelò funesta per Cavalli che, di fatti, non vide mai rappresentata in vita la sua opera: la famiglia Grimani che l’aveva commissionata per il Teatro dei SS. Giovanni e Paolo semplicemente la ritirò dal cartellone preferendo perdere 450 ducati e chiedere a un musicista di poco conto, Giovanni Antonio Boretti, di rimusicarla a partire da un libretto ritoccato in modo tale da risultare molto meno scabroso e provvisto di un posticcio finale lieto (la morte violenta di un sovrano legittimo è sempre un qualcosa di aberrante, pur se si tratta di un tiranno). Le motivazioni reali di questo ripensamento non sono note, certo è che la lunghezza dell’opera, lo stile ormai démodé (la presenza di poche arie e poco virtuosistiche non incontrava più i gusti del pubblico) e, soprattutto, il libretto giocarono a sfavore del compositore. Forse, proprio la sessualità fluida di Eliogabalo, le sue gesta perverse, la sua blasfemia e i suoi vizi licenziosi furono reputati eccessivi persino nella libera e moderna Serenissima, solitamente impermeabile alle ingerenze di Roma e meno ancorata a certo rigido moralismo.
Eppure Eliogabalo, terz’ultima opera di Cavalli per Venezia e ultima sua opera a noi nota, è un capolavoro, oltre che una summa dell’arte del compositore. L’opera si inserisce nel filone storico, il cui modello indiscusso è l’Incoronazione di Poppea, e si avvale di uno splendido libretto che mescola con grande sapienza il tragico e il comico, riuscendo conferire compiutezza alla vasta paletta di azioni e emozioni che costellano il complicato intreccio. La musica di Cavalli rifiuta consapevolmente l’opera a numeri chiusi e ricerca, di contro, la fluidità musicale (ed emotiva) dello spettacolo nel suo complesso grazie alla maestria assoluta dello stile del recitar cantando con brevi arie incastonate in un tessuto di lunghi ariosi e parti più recitate.
Un altro mistero riguarda il libretto anonimo di Eliogabalo che, stando al librettista del rifacimento realizzato per Boretto, Aurelio Aureli, sarebbe stato scritto da un illustre poeta ormai deceduto. L’alto livello letterario e analisi stilistico-lessicali hanno portato gli studiosi a ipotizzare con una certa sicurezza che l’autore misterioso non sarebbe altri che Giovanni Francesco Busenello, notevole librettista che aveva collaborato con Monteverdi e più volte con lo stesso Cavalli, oltre ad essere stato anche il maestro dell’Aureli. Il motivo per cui il nome del librettista sarebbe stato taciuto nonostante la sua grande fama non è noto neppure in questo caso, ma potrebbe essere legato a ragioni di natura estetica e ideologic. Eliogabalo appartiene a quella schiera di antieroi effemminati e viziosi (su modello di Nerone) che erano in gran voga nei decenni precedenti a Eliogabalo, il libertinismo e l’immoralità dei sovrani nell’ultimo terzo del Seicento, infatti, spiacevano ormai al pubblico, i cui gusti lasciavano ormai presagire alcuni tratti della futura riforma metastasiana. Tenuto presente ciò, ecco che la decisione di tacere il nome di un sì valente poeta non sembra più così incomprensibile.
Conclusa questa necessaria premessa, veniamo allo spettacolo così come rappresentato all’Opéra Garnier venerdì 16 settembre. Il punto forte della serata è stato senza dubbio la direzione di Leonardo García Alarcón il quale ha garantito coesione alla partitura cercando di valorizzarla al meglio e di metterne in luce le sfumature e i repentini cambi di passo. L’orchestra, portata da sei a una ventina di elementi per adeguarla alle dimensioni della sala, è stata all’altezza della situazione e ha assecondato il direttore, perdendo via via una certa secchezza iniziale. Va aggiunto che Alarcón ha fatto davvero tutto il possibile per aiutare i cantanti, ma il dono di compiere miracoli gli è precluso. A lui come a noi del resto.
La vera zavorra dello spettacolo sono stati i cantanti: non solo hanno globalmente mal cantato per più di 3 ore, ma, ancora peggio, per più di 3 ore tutti, con la parziale eccezione dei tenori, non hanno reso intellegibile una parola. E qui casca l’asino! Di fronte a un sì miserando esito poco contano le belle spiegazioni del libretto di sala e la giusta esaltazione da parte del direttore dello splendore del recitar cantando di Cavalli in cui tutto ruota intorno alla parola e alla dicitura del testo e non alla linea vocale e alle difficoltà tecniche. Il cast sotto questo aspetto fondamentale era praticamente tutto da riprovare; si aggiunga che i sottotitoli erano previsti solo in francese e inglese e che, paradossalmente, chi conosceva l’italiano doveva ricostruire il testo originario a partire dalla traduzione e da qualche vocale azzeccata per caso dai cantanti. Ovviamente il pubblico, che ha assai gradito il libretto in traduzione, non ha colto questa falla imperdonabile, un buco nero bastante da solo a invalidare l’esito dell’intera serata.
Per quanto concerne un giudizio sui singoli cantanti cercherò di essere sintetico. Il protagonista è il controtenore Franco Fagioli, famigerato astro di questa tipologia vocale in costante ascesa, che ci dona un canto fatto tutto di smorfie, spinte e contorsioni corporali con voce ingolatissima, gravi gutturali, colpi di glottide, acuti belluini e un uso delle dinamiche inesistente (ma in questo è in buona compagnia); si aggiunga, a mo’ di chiosa, che il Fagioli si produce regolarmente in un canto che è un’imitazione particolarmente riuscita del modo di cantare e interpretare della nuova stella polare per tutto ciò che è precedente al 1850, cioè Cecilia Bartoli. Nadine Sierra (Flavia Gemmira), per me la grande delusione della serata, ha la classica mela in bocca per simulare una voce più corposa di quella leggera che ha in natura, i gravi sordi e ingolati, gli acuti sottili, esili e fragili che reggono solo in virtù dei verd’anni; anche lei astro in grande ascesa eppure zero dinamiche, zero dizione, recitazione più che convenzionale, timbro artefatto, poco squillo e stessa ampiezza vocale del controtenore Fagioli. Inudibile, incomprensibile e ululante è il controtenore Valer Sabadus (Giuliano) che si sente solo nei primi acuti, ma solo a patto di vocalizzare nella vocale u che, infatti, sostituisce puntualmente alle altre. Penoso. Elin Rombo (Anicia Eritea) ha la voce più sonora tra le signore ed è l’unica che tenta di pronunciare il testo senza però riuscirvi compiutamente, la sua voce è aspra e il gusto verista. Mariana Flores (Atilia Macrina) è quasi inudibile e ciò che si sente fa sperare che smetta il prima possibile. Scott Corner (Nerbulone, Tiferne) è uno pseudo basso che tenta di imitare Ramey, ma è solo pessimo. Un discorso a parte meritano i tre tenori Paul Groves (Alessandro Cesare), Emiliano Gonzales Toro (Lenia) e Matthew Newlin (Zotico), uniche voci relativamente normali in quanto a sonorità e comprensibilità. Nonostante i molti difetti che condividono, cioè la tendenza a parlare più che a cantare, l’incapacità di sfogare correttamente la voce e mantenerla adeguatamente focalizzata, l’imbarazzo evidente nell’emettere acuti (fortunatamente pochissimi), sono stati comunque i più decenti e gradevoli della serata. Comprendo che la tecnica e la grande voce in questo repertorio passino in secondo piano rispetto ad altri aspetti, però bisognerebbe cercare sempre di cantare con un minimo di decenza e gusto oltre che sforzarsi di dare almeno una parvenza di correttezza.
La regia di Thomas Jolly, giovane regista di prosa che pare si stia facendo un nome, era tutta giocata su un soppalco mobile, cioè Roma e le sue istituzioni, e un sistema di fari sul palco, cioè il sole, nume cui Eliogabalo è associato, che si illuminavano con intensità variabile a seconda della situazione creando contrasti cromatici con uno sfondo quasi sempre nero. Lo spettacolo, pur non essendo stato particolarmente fantasioso, è risultato godibile e ha sempre reso comprensibile quanto accade nel libretto, seppure l’azione sia spostata in un’epoca senza tempo (con reminiscenze di film di fantascienza, ma anche orientali a tratti). Alcuni momenti, quali il volo dei gufi infausti (ballerini in questo caso) e l’ultimo atto sono stati particolarmente azzeccati; spettacolare visivamente parlando e di grande effetto l’immersione di Eliogabalo in una piscina di acqua dorata da cui usciva completamente rivestito d’oro. La recitazione dei cantanti è stata ben curata pur restando convenzionale, le comparse (ballerini e ballerine seminudi) hanno svolto adeguatamente il loro ruolo puramente estetico. I costumi dai tratti al contempo antichi e futuristici di Gareth Pugh (stilista di grandi star del pop come Lady Gaga, Rihanna e, specialmente, Beyoncé) sono stati evocativi e si inserivano armoniosamente nel contesto.
Da segnalare che una parte del pubblico durante il primo e il secondo intervallo ne ha approfittato per tagliare la corda e che un discreto numero di presenti in sala ronfava sulle scomode poltroncine, certamente a causa della difficoltà del titolo. Successo molto caloroso per tutti e grande entusiasmo riservato ai cantanti. Incomprensibile.
Per chi volesse conoscere quest’opera si propone da YouTube l’esecuzione del 2004 di René Jacobs.