Martedì 9, seconda tappa del festival pesarese con la proposta dell’unico titolo buffo dei tre offerti quest’anno. Nelle più recenti edizioni del Rof il titolo buffo, spesso anche quello di mezzo carattere (Matilde di Shabran, Inganno felice sono i primi esempi che vengono in mente, ma non i soli possibili) è stato ridotto a una farsetta da teatrino parrocchiale, a base di frizzi, lazzi, risatine e aperture al parlato. Questo Turco in Italia non ha smentito la tradizione, fin dal prologo recitato che il regista Davide Livermore ha imposto, in uno con gli inserti in prosa nei recitativi, anche agli ascoltatori radiofonici. Forse il regista credeva di dover allestire la versione napoletana (Teatro Nuovo, 1820), con i recitativi passati in prosa e tradotti, per quanto riguarda il personaggio di Geronio, nel vernacolo locale. Peraltro non è ben chiaro quale versione sia andata in scena l’altra sera. In linea di massima è stata seguita la versione milanese, ma con cospicui inserti provenienti dalla ripresa romana del 1815 (l’aria “Un vago sembiante” destinata al tenore nel primo atto, l’assolo di Geronio “Se ho da dirla avrei molto piacere”, probabilmente opera di un collaboratore, come del resto almeno altri tre numeri dell’opera), che però non prevedeva l’aria di Geronio al primo atto e quella di Albazar al secondo, tagliando inoltre l’arietta di Fiorilla “Se il zeffiro si posa” e il susseguente duetto con Selim. La primadonna, poi, entrava con altra aria (“Presto amiche”, poi passata nella Gazzetta) ed eseguiva una versione differente del rondò conclusivo. Quando Giuseppina Ronzi e il di lei consorte De Begnis portarono l’opera prima al Teatro degli Italiani e poi a Londra, la stessa era divenuta un pastiche olorossiniano che accoglieva anche pagine da Italiana in Algeri, Ciro in Babilonia, Cenerentola, Torvaldo e Dorliska.
Al divismo ottocentesco e alle sue licenze (ampiamente censurate dalla dirigenza del festival adriatico, ma che meritano di essere conosciute e meditate, ché la storia di un titolo è anche la storia delle sue avventure, e asserite disavventure, esecutive) è subentrato quello dell’attuale generazione di interpreti rossiniani, attivi in Pesaro e altrove al dichiarato scopo di “svecchiare” il repertorio, proponendo un approccio meno inamidato (dove inamidato spesso è sinonimo di cantato professionalmente), più vivace e coinvolgente. I proclami devono poi tradursi in atti, e qui cominciano i dolori. Anzi, i c***i amari.
Dolori diffusi fin dalla sinfonia di apertura a opera della direttrice Speranza Scappucci, già collaboratrice di Riccardo Muti, qui ministratrice di clangori e cigolii in uno con la Filarmonica Rossini, dagli attacchi spesso sporchi e in décalage rispetto al palcoscenico (e viceversa). Nessuna leggerezza, zero atmosfera, tanta confusione negli ensemble come nei recitativi, che la signora ha accompagnato personalmente al cembalo. Sorvoliamo sulle variazioni suggerite (si presume) ai cantanti, o almeno tollerate, ché per variare in questo modo il testo di partenza, meglio eseguire Rossini come scritto e rinunciare alla filologia in nome della riduzione delle perdite.
Attenzione a questi dettagli (che dettagli non sono), desiderio di contenere i danni avrebbero dovuto suggerire alla direttrice il non inserimento della prima aria o per contro, il taglio della seconda con riferimento a René Barbera, che nella tessitura acuta di don Narciso stenta e pena assai più che in quella centrale di Almaviva ed esibisce, soprattutto nel secondo assolo, suoni sgangherati e nasali. Nella media dei tenori rossiniani di oggi, cresciuti a imitazione del divo della prima sera, l’Albazar di Pietro Adaini, che a conti fatti avrebbe meritato la parte del cicisbeo.
Per la prima milanese Rossini poteva contare su tre grandi cantanti in chiave di basso (Filippo Galli, Luigi Pacini, celebratissimo buffo e padre del compositore Giovanni, e Pietro Vasoli, già primo Pacuvio nella Pietra del paragone) e aveva quindi predisposto ruoli che sono la declinazione delle rispettive possibilità del basso cantante, buffo e parlante (e questo benché Selim non disponga di una grande aria solistica e Prosdocimo si esprima, di fatto, solo negli ensemble). L’altra sera il solo cantante accettabile è risultato Pietro Spagnoli nei panni del Poeta. Accettabile nel senso che il sillabato l’ha visto in limitato affanno (illimitato e imbarazzante, invece, per Nicola Alaimo, che per giunta ha malamente berciato gli acuti ed esibito una voce senescente, che mal si concilia con scelte di carriera fortemente orientate ai titoli del repertorio successivo, verdiano in primis) e che la voce ha sufficiente ampiezza per reggere una parte non scabrosa sotto il profilo della coloratura (di fatto assente), ma che richiede fraseggio vario, sapido e misurato. Intendiamoci, in scena non avevamo l’anziano Mariano Stabile, dicitore a tutt’oggi insuperato in questa parte, ma un prodotto dignitoso, in rapporto ai tempi, grami, che corrono. Il divo Erwin Schrott, cantante di limitata esperienza rossiniana e ormai da diversi anni in fase calante, ha sfoggiato una dizione e una scansione del testo piuttosto confuse (curioso, per un cantante di lingua spagnola), voce bitumata, ma non ampia, al centro e sistematiche difficoltà in acuto. Si aveva quasi l’impressione che fosse capitato per caso sul palcoscenico e partecipasse, con udibile perplessità, alla rappresentazione, senza affrontarla con la sicurezza di chi abbia “passato” alla perfezione la parte e le sue non poche insidie.
Ben altro piglio ha sfoggiato la primadonna, Olga Peretyatko, eterna promessa del festival adriatico che stenta, però, a convincere nelle incarnazioni che non siano quelle della soubrette, tipologia vocale che in Rossini può trovare (a fatica) applicazione nelle farse, cui venne relegata Luciana Serra (La scala di seta è a oggi il titolo più riuscito nel percorso della cantante russa). La parte di donna Fiorilla è scritta per una primadonna (Francesca Maffei Festa) avvezza alle parti del Mozart tragico e a quelle che a quel tipo di scrittura si rifanno (Fiordiligi), e non è quindi una parte buffa in senso stretto, bensì un ruolo che propone una sistematica parodia dello stile dell’opera seria. E qui il pensiero corre non soltanto al rondò, scena grandiosa che costituisce la chiave di volta nella definizione del personaggio e l’autentico finale dell’opera (e non solo perché l’ensemble conclusivo è opera di un collaboratore), ma all’entrata al finale primo, in cui la capricciosa borghese napoletana è chiamata a esprimersi con la malia di una Circe o di una Armida. Dalla padrona di casa del festival (in questi termini le cronache non solo mondane, ma ahimè musicali, alludono alla signora) abbiamo udito un canto maldestramente arrabattato in prima ottava, con suoni ora vuoti, ora enfi, e palesi difficoltà non appena la scrittura sale anche solo di poco, con acuti (generosamente interpolati) sibilati e di malcerta intonazione. La dizione è buona, ma il fraseggio, che vorrebbe essere piccante e malizioso, risulta, con simili premesse, bamboleggiante e monocorde. Che il rondò venga (come già la grande scena di Desdemona in Scala lo scorso anno) ridotto a una successione di suoni calanti, agilità saponate e sigillata da un “bel” bercio, può risultare sorprendente solo per i cronisti radiofonici, che ieri sera non hanno potuto non prendere atto dello scarso valore della prestazione, rimarcato dai commenti degli ascoltatori (gli stessi che la sera precedente non avevano, peraltro, lesinato complimenti e lodi a un’esecuzione ugualmente deficitaria). Subito è scattata la difesa d’ufficio: un telefonino sarebbe squillato in sala, disturbando l’interprete nel finale dell’aria. Come se il problema fossero poche note conclusive, e non l’esito di un’intera serata.
Postilla: la signora Peretyatko ha comunicato tramite il suo profilo Facebook, ieri pomeriggio, di soffrire di fastidiose allergie. Certi annunci si fanno, per consuetudine, PRIMA della recita e a opera del teatro. In difetto di queste caratteristiche, assumono un carattere di pietismo farisaico, che dovrebbe far inorridire per primi gli artisti e chi li consiglia.
Gli ascolti
(a cura di Adolphe Nourrit)
Rossini – Il Turco in Italia
Sinfonia – dir. Peter Maag (1987)
Atto I
Vado in traccia di una zingara – Luigi de Corato, dir. Donato Renzetti (1983)
Un marito scimunito! – Mariano Stabile, Melchiorre Luise e Agostino Lazzari, dir. Oliviero de Fabritiis (1957)
Per piacere alla signora – Eugenia Ratti e Melchiorre Luise, dir. Oliviero de Fabritiis (1957)
Atto II
Credete alle femmine – Sesto Bruscantini e Alda Noni, dir. Nino Sanzogno (1951)
Se l antipasto (La donna del lago) faceva presagire sciagure , fortunatamente il Turco è andato un pò meglio e tolta lo signorina che ha squittito tutto il tempo la Olga
e l usurato Erwin Schrott che a parte la grande forma fisica nel canto sembrava un 77enne ; leggero come una piuma il bravo Alaimo ha condotto in porto la barca insieme con tutto l equipaggio guidato da la brava direttora Speranza Scapucci e grazie al frizzante e gustoso allestimento di David Livermore
omaggiante il cinema di Fellini ;
su tutti la scena della festa in maschera, che si trasporta in una finzione cinematografica di cui ‘regista’ nei panni di Mastroianni/Fellini è il deus ex machina Prosdocimo Pietro Spagnoli …
degno di nota narciso Rene Barbera.
Uno spettacolo che ha fatto tirare un sospiro di sollievo dopo la prima michellonata….
Caloroso e generoso successo per tutti anche per la Olga