E’ in scena in questi giorni in Arena il Trovatore nel fiammeggiante allestimento presentato per la prima volta da Franco Zeffirelli nel 2001, certamente uno degli spettacoli più amati dal pubblico negli ultimi anni. Il che non toglie che, alla prima di sabato scorso, la platea fosse semideserta e gli spalti (ivi compresi i posti non numerati) tutt’altro che esauriti. Forse chi, lautamente stipendiato, vigila sulle sorti dell’anfiteatro veronese dovrebbe chiedersi come mai uno dei titoli più amati del repertorio, pur proposto in confezione extralusso (almeno dal punto di vista visivo), ottenga un riscontro così modesto, ché il box office, o come si diceva una volta la cassetta, e non il vociare della claque, è da sempre l’autentico termometro dell’interesse e del gradimento da parte degli spettatori.
Lo spettacolo resta di una grandiosità impressionante, anche quando appare fuori di posto, come nel finale del secondo atto, in cui più che una dama della Regina sembra farsi monaca direttamente una principessa del sangue, tale è l’apparato scenico (il torrione posto nel fondo della scena si dischiude a rivelare un interno di chiesa che richiama la festa di Piedigrotta, ma resta di indubbio impatto, mentre schiere e schiere di ecclesiastici, nobili e popolo accorrono alla cerimonia nel chiostro della Croce), e all’inizio del terzo atto, in cui l’arrivo dei rinforzi evoca i preparativi per il palio dell’Assunta, con tanto di cavalli veri e instancabili sbandieratori. Bellissimo anche il “Miserere”, con una sfilata di frati incappucciati che richiama il Ku Klux Klan. Non mancano neppure i balletti, seppur ridotti a scampoli e ulteriormente falcidiati dalla bacchetta di Daniel Oren, il quale propone una lettura dell’opera improntata alla più totale genericità: l’orchestra (in cui gli ottoni coprono sistematicamente gli archi, nonostante le meraviglie del sound enhancement, o forse proprio a causa di queste) esibisce un suono opaco, privo di grandiosità e mistero, i tempi sono maldestramente slentati (soprattutto nelle arie solistiche) e domina una generale confusione, specie nei concertati (finale secondo su tutti), ma anche in momenti che non dovrebbero essere particolarmente complessi, come “L’onda dei suoni mistici”, in cui l’organo sembra dar vita, assieme ai solisti (a loro volta tutt’altro che impeccabili sotto il profilo dell’intonazione), a un’improvvisata jam session. Inspiegabile anche il taglio di alcune battute alla chiusa del concertato che segue “Giorni poveri vivea”.
Fra i signori il solo Sergei Artamonov, pur privo dell’ampleur del basso autentico, esibisce una linea vocale corretta e risulta, se non piacevole, almeno tollerabile. Pessimi i fratelli: Marco Berti risolve la parte con suoni strozzati fra naso e gola, massacrando (soprattutto sotto il profilo dell’intonazione, ma anche dal punto di vista del fraseggio e del senso musicale delle frasi, spezzate da incongrue riprese di fiato) tutti i momenti solistici, in particolare “Ah sì, ben mio” (forse il punto peggiore della recita nel suo complesso) e l’intervento fuori scena al “Miserere”. I si naturali della “Pira” (abbassata di mezzo tono) son gridacchiati e privi di squillo, ma costituiscono il peccato veniale nell’ambito di una prestazione, per la quale sembra generoso spendere persino il termine di provinciale (e d’altra parte la carriera del tenore comasco si svolge in teatri tutt’altro che di seconda fascia). Anche peggio Artur Ruciński, degno epigono della scuola del muggito, ma senza la cospicua natura di certi esponenti della medesima: fin da “l’amorosa fiamma” al recitativo d’ingresso la voce risulta stomacale e malferma, “Il balen” (unico punto della serata salutato, va detto, da un applauso non di circostanza) è gravemente insufficiente sotto il profilo del legato non meno che dal punto di vista dell’intonazione, nei passi più concitati (terzetto finale primo, chiusa della scena con Azucena) l’esecutore gridacchia malamente anziché suonare altero e minaccioso, al duetto con Leonora l’accento, che si vorrebbe accorato, richiama più che altro personaggi da opera di mezzo carattere. Il fatto, poi, che debba ricorrere sistematicamente a deprecabili portamenti per prendere le note acute, stile Nucci vecchio per intendersi, la dice lunga sulla sua tecnica deficitaria. In tanta miseria spiccano le signore, più per demeriti altrui che per meriti propri. Violeta Urmana, abbandonati i panni (incautamente indossati) del soprano drammatico, ritorna alla chiave di mezzo con voce vuota e sorda in prima ottava e urla diffuse in zona medio-alta: il mestiere e la lunga consuetudine con il personaggio le permettono se non altro di evitare, salvo che in alcuni passaggi (chiusa del “Giorni poveri vivea” e finale ultimo, in cui la regia costringe Azucena a fare harakiri), scivolate nel cattivo gusto. Hui He si conferma interprete diligente, benché poco personale, ma la sua natura di schietto soprano lirico, appesantita e ingolfata dall’ormai lunga frequentazione di un repertorio troppo oneroso, non riesce a venire a capo della parte (malgrado i tagli generosamente praticati da Oren): passabile la sortita, nonostante uno scivolone in acuto alla chiusa, poca grinta al terzetto (chiuso da un re bemolle acuto assolutamente evitabile), qualche difficoltà nelle frasi più esposte del finale secondo, nuovi sbandamenti musicali e d’intonazione a “L’onda dei suoni mistici”, discreto il “D’amor sull’ali rosee”, insufficienti il “Miserere” e il “Tu vedrai” (con stecca sul do conclusivo), il duetto con il Conte e il finale dell’opera, anche perché la stanchezza fa sì che la voce “balli” in maniera piuttosto evidente. Ed è un peccato, perché la cantante potrebbe emergere in ben altro modo, risultando quasi unica nel panorama odierno, se solo venisse proposta in altri titoli (Butterfly e Bohème su tutti) e in contesti meno abborracciati.
A. Tamburini (feat. G. David)
Verdi – Il Trovatore
Finale Ligure
10/08/1982
Leonora – Maria Parazzini
Manrico – Luciano Saldari
Conte Di Luna – Franco Giovine
Azucena – Maria Luisa Nave
Ruiz – Lodovico Malavasi
Direttore – Giuseppe Morelli
Atto IV