Con la proposta di Così fan tutte si è aperta la nuova edizione del Festival d’Aix-en-Provence. Sarebbe inutile e ingiusto lagnarsi del fatto che l’ultimo allestimento del titolo (diverso dall’attuale) nell’ambito della manifestazione provenzale risalga a poco più di un decennio fa. È evidente a tutti (salvo, forse, a certi amministratori, o meglio tenutari, di manifestazioni italiche, assai meno prestigiose della francese, e con fondata ragione) che un festival non possa e non debba seguire le logiche di un teatro di repertorio e proponga, di conseguenza, spettacoli non solo nuovi, ma di alto profilo e difficilmente collocabili in un cartellone più “tradizionale”. Peccato che, nel caso specifico, simili intenti restino, al di là del prestigio dei nomi coinvolti, lettera morta. Anzi, in putrefazione.
Dopo Patrice Chéreau un altro cineasta, Christophe Honoré (noto anche alle platee italiane per l’adattamento del romanzo di Bataille “Ma mère”, con Isabelle Huppert), si cimenta con la storia delle due coppie a vario livello fedifraghe. Ovviamente non siamo nella Napoli tardo settecentesca, ma nell’Eritrea della colonizzazione fascista, i soldati fanno parte della Milizia Coloniale ai “nobili albanesi” si sostituiscono, per logica conseguenza, gli autoctoni. E qui cominciano i guai, propiziati dalle dichiarazioni del regista, secondo il quale l’ottusità degli uomini nei confronti dell’incostanza femminile (e più in generale umana) è una conseguenza diretta del pensiero violento e machista, tipico del trionfante fascismo. Peccato che simile ottusità attecchisca presso i maschi (e non solo i maschi) di ogni tempo e paese, indipendentemente dall’uso di camicie brune e altri ammennicoli. Banalizzare in questo modo il percorso dell’inganno che si fa disinganno per gli amanti (che più saggi omai saranno, chiosa don Alfonso nel finale) significa mortificare l’estro del drammaturgo e anche quello del compositore, costringendo l’affascinante meccanismo dei travestimenti nei binari di un pensiero non meno schematico e mortificante di quello che si attribuisce, in via esclusiva, ai fascisti. Forse ancora più grave, però, è che l’ambientazione esotica non suggerisca al regista e allo scenografo Alban Ho Van una cornice più estrosa di un mesto cortile di caserma, in cui sembrano, più che ospiti, detenute anche la fidanzate dei militari, abbigliate più anni Cinquanta che non anni Trenta (un modo di evidenziare la distanza psicologica ed erotica dai rispettivi uomini? Bah…). In questo spazio aperto e polifunzionale si svolge tutta l’azione. En passant va notato che proprio ad Asmara il regime fascista edificò non pochi edifici tuttora in buono stato di conservazione e che, anche laddove sia stato inclemente lo scorrere del tempo, le fotografie dell’epoca avrebbero permesso una ricostruzione più che accettabile di interni ed esterni storicamente plausibili. Ma appare evidente come al regista interessi, più che la ricostruzione storica, l’esibizione di torture (fin dall’ouverture), manipolazioni, palpeggiamenti e altre lepidezze applicate ai corpi di schiavi africani d’ambo i sessi, con cui i personaggi variamente si trastullano nel corso dell’azione. Quel che vorrebbe essere pasoliniano e “di rottura” risulta però, nell’anno di grazia 2016, prevedibile nella concezione e parrocchiale nella realizzazione, senza che una sorpresa o un solo brivido si palesino in una messinscena di annoiata piattezza, in cui persino il coup de théâtre conclusivo del suicidio (tentato? attuato? non è chiaro) di Fiordiligi suona come l’estremo, vano tentativo di smuovere in qualche modo le acque, a dir poco stagnanti.
Se mi sono dilungato sulla parte visiva (il video, trasmesso in streaming, è ancora disponibile sul sito di Arte) è perché la componente musicale non presentava alcuna sorpresa, essendo affidata alla guida di Louis Langrée, già responsabile ad Aix (e prima ancora in Scala) di un piatto Don Giovanni e di una Clemenza di Tito egualmente monocorde e sfilacciata in quel di Vienna. Spiace che nel disastro sia stata ancora una volta coinvolta la Freiburger Barockorchester, solitamente più felice negli esiti quando la bacchetta viene (metaforicamente) impugnata da uno o dall’altro degli strumentisti coinvolti, come avviene regolarmente ad esempio nei concerti sinfonici dell’ensemble. Nel cast emerge per inadeguatezza Lenneke Ruiten, già periclitante (e riprovata) Giunia nell’ultimo Silla milanese (tornerà in Scala nientepopodimeno che nel Ratto, come Konstanze, ovviamente), che sarebbe, adeguatamente risistemata, una passabile Despina in provincia e come Fiordiligi letteralmente naufraga, esibendo segnatamente nelle due grandi arie un registro grave soffiato, un centro di scarsa consistenza e acuti fissi e ghermiti. Parata in modo da ricordare (involontariamente?) Juliette Binoche, Sandrine Piau è una pallida Despina, ma sufficiente in rapporto alla primadonna e a Dorabella, Kate Lindsey, che esibisce un fisico assai più interessante della voce (la parte, ben più limitata rispetto alla sorella, permette di contenere i danni). Tra gli uomini, Rod(ney) Gilfry, ultimamente più avvezzo alle scene del musical che non ai palcoscenici d’opera, ha se non altro una congrua presenza scenica; al netto di acuti sempre problematici, Nahuel di Pierro se la cava meglio di Joel Prieto, nasale e linfatico (d’inaspettata saggezza il taglio di “Ah lo veggio, quell’anima bella”).