Sembra proprio che i fasti del Grand-Opéra siano i più ardui da far rivivere: ridare linfa a quelle splendide e monumentali ancorché ipertrofiche macchine teatrali è un obiettivo che viene puntualmente disatteso, vuoi per l’aspetto musicale, vuoi per quello scenico. Eppure, sono convinto che le cause più profonde di questi buchi nell’acqua siano da rintracciarsi nella poca cura e nell’insufficiente convinzione di chi progetta e lavora a queste iniziative, caratteristiche che non mancano, ad esempio, ai baroccari tanto discutibili (per esser gentili!) quanto palesemente entusiasti e convinti. Bando ai giri di parole: questa riproposizione della Juive a Monaco ha fallito nel rendere giustizia all’opera e al suo autore, non rientra, cioè, nel ristretto novero delle eccezioni positive, di quelle iniziative che, per quanto deficitarie, sono condotte con cura, serietà e convinzione tali da sortire un esito complessivo soddisfacente e interessante. Come il Vasco da Gama di Chemnitz per citare un esempio recente.
Personalmente non vedo il senso di rappresentare così, oggi, il capolavoro di Halévy (ma anche un qualsiasi altro Grand-Opéra): una non-regia costituita da una scena unica, tagli per più di un’ora soprattutto alle grandi scene di massa e soppressione totale dei balletti, una direzione priva di ispirazione, cantanti per la gran parte inadeguati o impari ai ruoli.
Calixto Bieito, divo del firmamento registico, ha optato per un’imponente parete mobile composta da enormi blocchi di ferro inclinabili che hanno costituito l’unica scena per tutti e 5 gli atti, qualche proiezione di brevi frasi in tedesco legate all’elemento divino e di un agnello pronto ad essere sgozzato, una gabbia da circo cosparsa di liquido infiammabile nella quale Rachel viene arsa viva nell’ultimo atto. Le idee latitano: all’inizio dell’opera una scena di battesimo forzato di massa, i fondamentalisti cristiani sono bendati in quanto accecati dal loro fanatismo, Rachele, legata, viene fustigata da Brogni con un ramo frondoso alla fine dell’atto terzo. I cantanti sono costretti a compiere continui movimenti esagerati, a gettarsi a terra, agitarsi… il tutto senza reale motivo. Coro in abiti borghesi, Éléazar vestito a mo’ di impiegato con valigetta o giacca sempre appresso e occhiali da nerd, Rachel in abitino verde, Eudoxie in tailleur, Léopold in maglioncino e camicia: mancava, insomma, qualsiasi tipo di riferimento temporale e di connotazione visiva e scenica per caratterizzare i personaggi. Bieito ha dimostrato che, tolte le sue solite “trovate” scandalose e prevedibilmente provocatorie, quel che resta di una sua regia è prossimo al nulla.
Il direttore Bertrand de Billy ha guidato l’orchestra senza guizzi interpretativi e senza valorizzare la partitura di Halévy non riuscendo a dare coesione all’opera e a differenziare le numerose situazioni che offre il libretto, forse anche per colpa dei tagli e della regia. Come già accennato, i tagli hanno riguardato l’ouverture e i balletti per intero, le parti corali molto scorciate, le parti di connessione tra i numeri (quelle con i “recitativi”) e, infine, tagli interni ai vari numeri. Le tre ore e cinque minuti di musica sono filate sì senza grandi intoppi, ma anche senza lasciare il segno.
Non mi soffermerò sulle parti di contorno, del tutto dimenticabili in quanto mal cantate. Potrei dire lo stesso dei protagonisti, ma è bene soffermarsi per dovere di cronaca. Il meglio, se così si può dire, si è sentito dai due tenori, Roberto Alagna e John Osborn. Osborn doveva interpretare un Léopold qui concepito come uomo pavido e indeciso, complessato e circondato da personalità più forti di lui. Vocalmente riesce a risolvere con un certo decoro e stile la parte molto acuta grazie alle mezze voci e all’uso convincente della voce mista. I problemi si riscontrano nelle note gravi (per uno che si picca di cantare certi ruoli da baritenore o altri Grand-Opéra!), negli acuti di forza problematici, incerti nell’intonazione e sgradevolmente prossimi al belato, e negli insiemi in cui spariva. La posizione della voce è sempre più bassa del dovuto, ma in un ruolo come questo, più adatto alla sua voce leggera rispetto ad altri che abitualmente affronta, i difetti appaiono meno evidenti. Il suo momento più convincente è stata l’aria di sortita, nel confronto con Rachel, poi, spiccava per il tentativo di essere nobile e contenuto di fronte alla dissennata partner. Non so cosa si sentisse in teatro dato che in Fenice la voce di Osborn era flebile, ma con i microfoni della ripresa video è risultato essere quello più corretto.
Roberto Alagna ha perso lo smalto di un tempo, ha perenne difficoltà nel governare gli acuti ormai duri e tendenzialmente troppo aperti. Come ben si sa, se la presenza scenica si è preservata il suo bello strumento lirico-leggero ha, invece, pagato caro le scriteriate scelte di repertorio: la voce si stimbra nei piani, gli acuti sono raggiunti di gola con spinte e quelli in piano sono più falsetti che mezze voci. Il ruolo relativamente centrale di Éléazar gli permette di cantare in una tessitura abbastanza comoda e di ritagliarsi dei bei momenti specie nei primi atti quando il cantante è ancora fresco. L’elemento di punta in questo caso è la dizione, perfetta e ben scolpita, mediante la quale Alagna cerca di fraseggiare, visto che non sempre può far affidamento sull’uso delle dinamiche, molto meno facili di un tempo. La celebre aria del quarto atto è risolta con molta cautela, ma con una certa dignità, invece la cabaletta che segue lo trova ormai allo stremo e, complice la tessitura più acuta e scomoda, la voce si rompe negli negli acuti e le stecche sono evitate per miracolo. Alagna si trova davvero al limite quando si tratta di reggere dei tempi rapidi che richiedono un canto di slancio (le strette, la cabaletta,..) e passi di agilità (qui ridotti al minimo). Il personaggio nella concezione registica viene letto come un uomo di mezza età tormentato, privo di eroismo e poco convincente negli scatti d’ira e d’orgoglio.
Veniamo alle due signore, la principessa Eudoxie di Vera-Lotte Böcker e la Rachel di Alexandra Kurzak, inizialmente prevista come Eudoxie e poi promossa al ruolo principale (viene il dubbio che ci sia lo zampino del compagno…) dopo la defezione di Kristine Opolais. Che dire? Forse che i due ruoli scritti per la Dorus-Gras e la Falcon sono assolutamente intercambiabili, proprio come Marguerite e Valentine degli Huguenots?! Se mancano la competenza e l’onesta intellettuale dei cantanti, degli agenti, dei teatri, ecco che i risultati non possono che essere questi: le due donne hanno lo stesso tipo di voce, cioè la vocalità da soubrette che canta male, quindi con poco corpo, inesistente in basso e stridente sopra. In altri tempi non avrebbero di certo cantato alla Salle Pelletier e forse neppure all’Opéra-Comique, ma, più adeguatamente, in qualche teatro dedito all’operetta, solo dopo aver imparato un corretto metodo di canto ovviamente. I difetti di entrambe sono i medesimi, ma la Böcker ha una voce più fresca e canta un ruolo più acuto quindi ne esce leggermente meglio. La Kurzak è stata indecente: i tentativi di pompare la voce non servono a nulla perché la tessitura è troppo grave e la voce è poca, manca l’accento tragico, la dizione è malvagia, non è in grado di eseguire le due agilità presenti (e cantava Rossini fino a qualche tempo fa!), gli acuti sono regolarmente delle grida incontrollate e spesso stonate. Non si può non menzionare lo stile semplicemente scandaloso, verista e impressionista oltre ogni umana idea da Clitemnestra in disarmo. Intollerabile tanta volgarità spacciata per fine interpretazione. Il secondo atto con un’aria, un duetto e un terzetto la vede compiere le peggiori efferatezze vocali e sceniche e i primi piani denunciano un volto sconvolto da una tensione e una stanchezza che la portano ad accennare ormai svociata “Pour lui, pour moi mon père” e poi a gridare come una disperata nella stretta che chiude l’atto. Dal terzo atto si arrabatta come può uscendo perdente dai confronti con la più fresca Eudoxie e rovinando i concertati con sgradevoli urla belluine. La Böcker ha voce leggera leggera e vetrosa, una dizione oscena e uno stile inesistente come se non capisse minimamente cosa canta, ma ne esce comunque meglio della Kurzak. La voce è sotto è sorda, non è in grado di eseguire i trilli, la voce diventa aspra e spinta salendo, non è in grado di onorare i passi di agilità (come in “Je l’ai revu”). Nonostante sia costretta a fare l’oca e moine di ogni sorta dalla regia, nei duetti fa sparire la Kurzak coprendola quasi sempre (persino in “Dieu tutelaire” in cui la tessitura bassa fa boccheggiare entrambe) e nei concertati è lei a tirare perché tutti gli altri giocano di rimessa e cercano di dosare le poche forze rimaste. Suo l’applauso più convinto della serata (insieme a quello di “Rachel quand du Seigneur”) per un’esecuzione assai modesta di “Mon doux seigneur et maître”.
Ain Anger è un Cardinal de Brogni stomacale con la voce sempre sorda e bitumata che riesce a stentare sia sotto che sopra con l’aggiunta di un odioso vibrato largo non appena la tessitura sale. Con un’impostazione simile l’intonazione è incerta e le sfumature non esistono; Anger trova i suoi momenti peggiori nell’ensemble che chiude il terzo atto.
Due parole sugli applausi piuttosto esigui ed elargiti con poca convinzione: nessun applauso al termine del primo atto e del terzo nonostante le brevissime pause, applauso al termine del secondo atto per la calata del sipario, idem al quinto seppur ritardato perché il pubblico non sapeva se l’opera era davvero finita, solo due arie applaudite. Seguono necessariamente gli ascolti riparatori scelti dal valente Nourrit che vogliono render conto di interpreti che avevano la tecnica e la voce adatta per interpretare degnamente i ruoli del Grand-Opéra senza far pensare a una maldestra parodia di questo maltrattato genere.
Gli ascolti
Jacques Fromental Halévy
La Juive
Atto I
Si la rigueur – Vittorio Arimondi
Si la rigueur – Francesco Navarrini
Loin de son amie – Eugène de Creus
Ô mon Dieu, ô mon Dieu que j’implore – Cecilia David & Augusto Scampini
Ô mon Dieu, ô mon Dieu que j’implore – Leo Slezak
Atto II
O Dieu, Dieu de nos pères – Jozef Mann
Dieu que ma voix tremblante – Jules Gautier
Dieu que ma voix tremblante – Augustarello Affre
Dieu que ma voix tremblante – René Verdière
Dieu que ma voix tremblante – Georges Granal
Pour lui, pour moi mon père – Henriette Gottlieb, Heinz Arensen & Paul Hansen
Pour lui, pour moi mon père – Janina Korolewicz-Wayda
Atto III
Vous qui du Dieu vivant – Adamo Didur
Vous qui du Dieu vivant – Francesco Navarrini
Vous qui du Dieu vivant – Lev Sibiryakov
Vous qui du Dieu vivant – Paul Aumonier
Vous qui du Dieu vivant – Nazzareno de Angelis
Atto IV
Ah! Que ma voix plaintive – Anna Moffo & Martina Arroyo
L’ai-je bien entendu – Cesar Vezzani & Paul Payan
Ta fille en ce moment est devant le concile – Louis d’Angelo & Giovanni Martinelli
Rachel, quand du Seigneur – Alexander Davidov
Rachel, quand du Seigneur – Charles Rousselière
Rachel, quand du Seigneur – Augusto Scampini
Va prononcer ma mort…Rachel, quand du Seigneur…Dieu m’éclaire – Georges Granal
Va prononcer ma mort…Rachel, quand du Seigneur – Giovanni Martinelli
Rachel, quand du Seigneur…Dieu m’éclaire – Cesar Vezzani
Rachel, quand du Seigneur – Josef Schmidt
Rachel, quand du Seigneur – Beniamino Gigli
Dieu m’éclaire – Léon Escalais
Dieu m’éclaire – Léon Beyle
che fosse il genere vocalmente più difficile da proporre è pacifico per la progressiva rarefazione dei titoli a partire dal 1920 circa e dalla mancata renaissance come accaduto con Donizetti e soprattutto con Rossini. Oggi il solo coraggio della disperazione o una presunzione senza pari può dar luogo a riprese di profeta od ugonotti
Sono assolutamente d’accordo! Ciò che vedo oggi è nella maggior parte dei casi è presunzione stupida per i teatri (che confermano la loro poca serietà) per i cantanti (che si distruggono le voci con questi ruoli non avendone la tecnica e la voce, ma solo vana ambizione… il tutto per risultati indecenti o di livello minimo) e dannosa per i compositori (perché le partiture vengono tagliuzzate in malo modo e e le opere stesse ne risultano snaturate). Con simili risultati il pubblico non può davvero apprezzare e capire questo repertorio che è, come ben dici, quasi vergine vista l’assenza di una vera renaissance, ed ecco che i pregiudizi nei confronti di questi lavori sono ancora vivi e vegeti nonostante la loro infondatezza.
Oggi i fuoriclasse di un tempo anche recente non ci sono più, quindi il tutto dovrebbe partire da un direttore amante del repertorio e seriamente intenzionato a dare lustro ai compositori, magari occupandosi anche di formare cast quantomeno plausibili seppur in formato mignon (meglio se di semisconosciuti piuttosto che divetti da quattro soldi). La cosa è evidentemente molto difficile…