Gli spettacoli di Stefan Herheim sembrano fatti apposta per accontentare, o per lo meno non scontentare, tanto i fautori del teatro di regia quanto gli appassionati di allestimenti più canonici: audaci nella concezione e solidamente tradizionali, quasi classici, nell’impostazione scenografica (elegantissima, spesso sfarzosa) e nella costruzione del racconto, densi di simboli e tuttavia estremamente leggibili, al tempo stesso realistici ed onirici, gli allestimenti del regista norvegese possono al primo impatto sconcertare, ma raramente annoiano, anche quando, come nel caso della Dama di picche proposta alla Nationale Opera di Amsterdam, centrano solo parzialmente il bersaglio. Come sempre il soggetto dell’allestimento è, oltre alla trama prevista dal libretto, una fitta rete di allusioni alle circostanze in cui l’opera è stata creata. In questo caso, protagonista dell’intreccio è lo stesso Tchaikovsky che, dopo avere deliberatamente bevuto un bicchiere di acqua contaminata dal colera (probabile causa della sua morte), rivive in una sorta di lucido delirio la storia della Dama di picche, identificandosi con il principe Eleckij, ma trovando punti di contatto con tutti gli altri personaggi, che indossano abiti in qualche dettaglio legati a quelli del compositore. Dopo un breve prologo recitato, in cui si esplicita (senza autentica necessità drammatica) l’omosessualità dell’autore e si richiama il tema musicale del Papageno mozartiano (spunto del divertissement pastorale del secondo atto, quadro primo), l’allestimento procede in maniera piuttosto lineare e anche piacevole. Lo stesso décor unico (la biblioteca/sala della musica in casa di Tchaikovsky) è un’illusione, dal momento che, fin da subito, le pareti si aprono, ruotano su se stesse e, attraverso un calibratissimo gioco di specchi, moltiplicano le prospettive, riuscendo a suggerire, se non a illustrare, i diversi ambienti dell’azione. Il versante spettacolare risulta solo marginalmente appannato, mentre la presenza del coro (costituito da sosia di Tchaikovsky e della sua governante) si fa man mano sempre più inquietante, arrivando a cingere letteralmente d’assedio i vari personaggi, incalzandoli malignamente (scena della Contessa al secondo quadro del secondo atto) e provocandone più o meno direttamente la rovina (Liza al termine della scena della Neva e lo stesso compositore, che si sostituisce a Hermann durante il coro conclusivo). La regia trova il suo vero limite nella raffigurazione dell’elemento sovrannaturale e demoniaco, abolito completamente: la Contessa è una donna anziana (non certo decrepita) e disillusa, non l’inquietante figura delineata dalla musica, e tutto il primo quadro del terzo atto è risolto tramite prevedibili bagliori rossastri, tre figure intonacate che dovrebbero suggerire le carte fatali e che evocano invece graziosi calchi in gesso di altrettante statue di san Sebastiano e un’apparizione esclusivamente vocale (per giunta amplificata) del fantasma. Del pari claudicante la raffigurazione, piuttosto didascalica, di Liza quale Angelo della morte, con enormi ali nere che evocano, più che Doré, la celebre fiction Angels in America. C’è insomma grande suggestione in questo allestimento, frutto di un lavoro serio e di competenze vere (a differenza di tanto teatro di regia, di impianto tedesco ma non solo, allegramente spacciato per innovazione necessaria al teatro d’opera), ma il risultato complessivo non convince fino in fondo. Allo stesso modo, non si può non ammirare la levità davvero mozartiana della concertazione di Mariss Jansons, magnificamente assecondato dall’Orchestra del Concertgebouw e dal Coro dell’Opera Nazionale: le scene “di colore” (cori dei fanciulli e delle bambinaie all’inizio dell’opera, scena della musica al secondo quadro del primo atto, il divertissement alla festa del secondo atto e la susseguente epifania della Zarina, o ancora l’inizio dell’ultimo quadro alla casa da gioco) risultano brillanti, perfettamente calibrate, in equilibrio quasi miracoloso tra l’eleganza e la vivacità dell’invenzione musicale. La direzione non coglie in pari misura l’aspetto tragico dell’opera: c’è (come, del resto, nella regia) una calibrata elegia sul dramma dei personaggi, non autentica passione (il duetto d’amore al primo atto risulta fiacco e poco convincente), e latita, soprattutto nella seconda parte dello spettacolo, il clima fosco, il senso di un destino opprimente e incancellabile che neppure la morte riesce a dissipare fino in fondo. C’è anche da dire che la presenza, nel cast, di voci nella più felice delle ipotesi appena adeguate ai rispettivi ruoli può avere indotto direttore e regista a optare per una lettura più melanconica e “intimista” che autenticamente tragica. Onore a Misha Didyk per avere affrontato, non per la prima volta, una parte così terribile sotto ogni profilo, ma archiviato il primo monologo, in cui il cantante riesce ancora (complice l’orchestrale meno denso che in altri punti dell’opera) a dominare la scrittura vocale e persino a fraseggiare in maniera misurata, al susseguente quintetto cominciano i problemi (note schiacciate sul passaggio superiore, scarso “giro” della voce) e l’accento si fa ora brutale (senza che l’ampleur risulti adeguata alla scelta espressiva), ora querulo, comunque distante dalle richieste della partitura e anche dall’impostazione conferita da bacchetta e regista. Rose e fiori, comunque, davanti a una Liza (Svetlana Aksenova) che al centro ha poca voce (per di più mal emessa, al punto da risultare senescente) e che dai primi acuti emette suoni fissi e stonati, di volume più che sufficiente a guastare l’effetto tanto della parentesi “salottiera” del duetto con Polina, quanto dei momenti di maggiore tensione drammatica (imbarazzante, in particolare, la prima parte della scena della Neva). Male anche Anna Goryachova, “virtuosa” rossiniana con la voce bloccata tra naso e gola, che non riesce a destreggiarsi nella scrittura non certo trascendentale di Polina e in quella dell’intermezzo pastorale. Larissa Diadkova non ha una presenza scenica memorabile (la lettura del personaggio proposta dallo spettacolo, del resto, va in tutt’altra direzione), ma vocalmente regge ancora piuttosto bene e soprattutto ha una parvenza di legato, quanto basta per eseguire la cantilena di Grétry senza evocare involontarie immagini di consunzione ed esumazione. Alexey Markov (Tomskij) ha la cavata tipica del cantante russo, ma solo quella, e i problemi d’intonazione in alto sciupano l’effetto della ballata al primo atto (funziona meglio nell’intermezzo, anche per la disinvoltura scenica). I mezzi di Vladimir Stoyanov (Eleckij sempre presente in scena, sia pure in alternanza con l’ottimo mimo Christiaan Kuyvenhoven) risultano ormai appannati dal tempo e dalla prolungata frequentazione di un repertorio troppo oneroso (Verdi), ma la voce fioca non gli impedisce di ben figurare nel quintetto e di eseguire con eloquenza la propria aria (maggiori difficoltà alla scena conclusiva, anche per la ben diversa consistenza drammatica del passo). Teatro esaurito o quasi e grandissimo successo, anche al termine dei singoli numeri (in questi punti con qualche entusiasmo un poco in odore di claque, more Scala all’ultimo Boccanegra per intenderci).
Chiudiamo queste osservazioni proponendo il cast di una Dama di picche allestita a Parma nel dicembre 1957. Questo non, come vorrebbero alcuni critici (e assidui lettori) del nostro piccolo insignificante Corriere, per magnificare a ogni costo il passato, ma solo per ricordare, sommessamente, come nella tanto vituperata provincia italiana degli anni Cinquanta fosse possibile proporre questo e altri titoli, ormai anche più desueti, senza venir meno al decoro della professione canora e offrendo, in alcuni casi, prodotti di autentica qualità.
Interpreti: Augusta Oltrabella (La Contessa); Renata Scotto (Lisa); Paola Mantovani (Paolina); Pier Miranda Ferraro (Ermanno); Ivo Vinco (Tomsky); Dino Dondi (Jeletzky); Athos Cesarini (Chekalinsky); Ivan Sardi (Surin); Vittorio Pandano (Ciaplinsky); Giorgio Algorta (Narumof); Vittorio Pandano (Maestro di casa); Lola Pedretti (La Governante); Rosa Bini (Mascia); Anna Maria Calzolari (Un’Amica di Lisa); Giuseppe Brunetti e Giampaolo Catozzi (I Comandanti dei bambini); Interludio: Cloe – Prilepa (danza: Rya Teresa Legnani, canto: Elena Todeschi); Dafni – Milovoz (danza: Walter Scherer, canto: Paola Mantovani); Pluto – Zlatogor (danza: Giancarlo Rossini, canto: Ivo Vinco).
Maestro Direttore: Francesco Molinari Pradelli.