Ieri sera l’Opera di Stato bavarese ha trasmesso in diretta streaming la prima rappresentazione de Les Indes galantes, nuova produzione del locale Festival operistico. Dalla trasmissione il vostro Tamburini è uscito con un senso di sconforto, dettato non tanto dagli esiti canori (previsti perché prevedibili), ma più in generale dal tono, o come oggi si dice, dal mood della rappresentazione.
Le Indie galanti sono una delle più alte affermazioni del genio di Rameau: un genio che ha nell’invenzione inesausta, nella fantasia mirabolante, nel continuo dispiegarsi di varietà melodica, timbrica e armonica il segreto della propria incantevole freschezza. Le tre anime del compositore di Digione (strumentista, autore e teorico musicale) si fondono in una sola con una perfezione che giustifica ampiamente gli elogi che volle dedicargli un collega, per tanti aspetti così distante da lui, come Claude Debussy.
Proprio questa varietà di accenti, questa ricerca inesausta del meraviglioso, che è propria della tarda stagione barocca, è venuta a mancare nella rappresentazione monacense, per demerito tanto della bacchetta quanto della regia.
Ivor Bolton, specialista del repertorio barocco e classico, è al più un onesto professionista, capace di non perdere le fila del discorso musicale, non già di caratterizzarlo in maniera non dico personale, ma almeno vivida. Nonostante i tagli (segnatamente nei balletti), le tre ore abbondanti di musica sono parse, per la monotonia che si sprigionava, come un gas mefitico, dalla buca, lunghe almeno il doppio.
L’elemento peggiore e autentica delusione della serata è stato però l’allestimento, affidato a Sidi Larbi Cherkaoui, astro della danza europea e autore, in passato, di coreografie di qualche rilievo (ultima quella, realizzata in collaborazione con altre prestigiose firme, dello Schiaccianoci all’Opéra di Parigi). In scena abbiamo visto non già le esotiche fantasie ideate da Rameau e dal suo librettista Fuzelier, ma qualcosa che deliberatamente rinnegava tanto l’esotismo quanto la galanteria, rimpiazzati da polverose allusioni all’attualità geopolitica. Non siamo, ovviamente, nella Francia di Luigi XV, ma in una sorta di centro di raccolta profughi (lager?) da qualche parte in Europa (le bandierine sventolate dai bambini della locale scuola multiclasse e la visita in pompa magna dei potenti statunitensi non permettono fraintendimenti). Di esotico abbiamo solo un gruppo di profughi, attrezzati con sacco a pelo e canadese d’ordinanza, mentre i Turchi, i Persiani e gli altri popoli evocati dal libretto indossano, sopra tuniche da suk di Carnevale, le giacche Oviesse ormai di ordinanza negli allestimenti à la page, quando non sfoggiano abiti da matrimonio di paese. Il décor unico viene di volta in volta ravvivato (si fa per dire) da arredi modulari componibili, che ricordano quelli di un mobilificio piemontese reso celebre dai caroselli televisivi negli anni Ottanta. Oltre i facili ammiccamenti all’attualità (Bellona assomiglia molto ad Angela Merkel e il capo pellerossa Adario al Segretario di Stato americano John Kerry) non c’è che una sola idea, ovvero quella di legare assieme le vicende delle quattro entrée: (quasi) ogni cantante interpreta due personaggi, che sono vestiti allo stesso modo e agiscono in tutte le vicende, a costo di sacrificare non solo la coerenza dell’azione scenica, ma la natura stessa dell’opéra ballet, genere che nasce dalla giustapposizione di situazioni drammatico-coreografiche tra loro indipendenti. A ciò si aggiungono perle difficili da dimenticare, su tutte il gran sacerdote del Sole mutato in prete cattolico (che costui aspiri alla mano della principessa Inca, ipotesi implausibile per un sacerdote di Santa Romana Chiesa, è assolutamente irrilevante agli occhi del regista, che ha dichiarato in un’intervista di essersi ricordato del cattolicesimo praticato dalla madre – e meno male che la signora non era adepta di altri culti, o avremmo rischiato una fatwa). La cosa peggiore è che questa sfilata di immagini tetre, che si vorrebbero dense di dolore, morte e cupi pensieri a proposito della natura umana, si riduce a una successione di luoghi comuni, tristemente monocorde, priva di qualsiasi bellezza e grazia e quindi in perenne e insanabile conflitto con la musica, che nonostante l’esecuzione grigia e qua e là pasticciata (soprattutto dai cantanti, molti dei quali evocano volatili da cortile o treni in partenza) emerge, specialmente nei balletti, intatta nella propria grandezza, adorna di invenzioni che spingono l’ascoltatore al ricordo dei fasti settecenteschi, all’evocazione di un mondo immaginario (le Indie galanti, paradiso perduto, anzi mai esistito e reso possibile solo dalla musica) in cui tutto è sentimento, eleganza, levità. Per quale motivo noi, uomini del Ventunesimo secolo, che tutto sappiamo e conosciamo, non riusciamo più a cogliere l’idea del Bello, ma la utilizziamo come trascurabile pretesto per inscenare queste veglie funebri travestite da teatro di avanguardia, queste rancide rimasticature di tormenti ai quali non sembra credere più nessuno, in primis chi, lautamente foraggiato, le propone? È un modo di denunciare l’irriproducibilità di un ideale ormai irraggiungibile? Sembra, piuttosto, la testimonianza di un mondo che, parafrasando Woody Allen, non ricerca più l’arte, ma sempre e soltanto la cattiva televisione. Recenti realizzazioni (come quella di Andrei Serban con coreografie di Blanca Li, che proponiamo in appendice, e che con tutti i suoi limiti si sforza di rispettare l’opera, invece di rimpinzarla di significati estranei) costituiscono eccezioni troppo sporadiche per risultare davvero incisive in questo senso.
2 pensieri su “Chi ha paura di Rameau?”
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Louis XV era un sovrano peculiare: tanatofobico, ansioso, taciturno, diffidente, solitario, amante della caccia, del gioco, del cibo e, ovviamente, delle sue numerose favorite (Pompadour e du Barry le più celebri), mal sopportava il peso del suo ruolo istituzionale e i problemi legati al governo del paese. Se all’epoca di Rameau gli avessero propinato un simile spettacolo probabilmente avrebbe abbandonato la rappresentazione per il disgusto e avrebbe fatto cadere in disgrazia tutti questi presunti geni che dimostrano, puntualmente, di ignorare la materia di cui si occupano e di riproporre sempre il solito ciarpame ideologico.
Grande Tamburini!
Le definizion della raga “polverose allusioni all’attualità geopolitica” e delle prestazioni dei cantanti ” molti dei quali evocano volatili da cortile o treni in partenza” sono mirabili nella lro sintesi i Ma evocano purtroppo tante mie dolorose esperienze di ascoltatrice …