E’ forse il desiderio di evitare riflessioni serie, fondate su una corretta analisi dei dati oggettivi, siano essi storici o contemporanei, sulla miseranda condizione in cui versa oggi il melodramma a spingere la maggior parte dei melomani ad aderire alle coorti degli acritici adoratori dei miti del presente… oppure, più banalmente, il conformismo. Con un certo disgusto si assiste inermi alla formazione di improbabili pantheon creati dalle multinazionali del disco e dalla critica allineata, consessi di divinità assurte a tale status senza alcun evidente merito sul campo, ma per semplice virtù del marketing, delle conoscenze, della bella figura; questi miti sono sempre più instabili e virtuali, in continuo aggiornamento alla stessa velocità dei refresh di certe pagine web. Gli eventi, lo si è ribadito ormai molte volte, si creano prima ancora che abbiano avuto luogo, le patenti di storicità sono talmente deprezzate da aver perso qualsivoglia valore, la critica ufficiale non fa che alimentare questo sistema viziato di cui essa stessa fa parte con modalità a tutti ben note, incurante delle contraddizioni e delle assurdità in cui il pensiero incorre. Senza alcun intento denigratorio, ma come spunto di riflessione, si vuole proporre di seguito la traduzione di una recensione di un sito operistico francese (http://www.forumopera.com/tosca-munich-harteros-kaufmann-terfel-aux-portes-de-la-legende) sulla Tosca di fresco data a Monaco con protagonisti Kaufmann, Harteros, Terfel diretti da Petrenko quale esempio, uno solo dei tanti che si possono trovare un po’ ovunque, delle capriole che è costretta a fare per sopravvivere la critica odierna, ormai puramente nominale. Salti mortali e contraddizioni, infatti, saltano all’occhio nella recensione di questo spettacolo, che evento doveva essere e tale è stato grazie all’accoglienza di pubblico e ai grandi nomi dello star system in essa coinvolti: eccone un breve assaggio. Un direttore eccezionale, attento ai cantanti, ma che spesso li copre senza pietà (per scelta interpretativa?!); un tenore divo dal timbro scuro e del tutto privo di solarità, ma che ricorda comunque Corelli nell’impeto; divissimo questo tenore di cui non si può che dire bene, ma che poco entusiasmo desta al primo atto e si vede passare sotto silenzio la celeberrima aria dell’ultimo atto senza dubbio perché il pubblico non voleva rompere la magia (?!); un baritono sulla scia di Gobbi che parla, ruggisce anche rozzamente, disegna uno Scarpia complesso, ma si sente solo se strilla; un soprano straordinario, luminoso negli acuti, puro nell’emissione e saldo coi fiati, dal fraseggio ispiratissimo, egregio nelle movenze sceniche anche se convenzionali per colpa della regia, insomma, una nuova Callas… solo che anche lei non si sente. Tutte le colpe vengono infine scaricate sulla senza dubbio discutibile regia di Bondy e sulle scenografie, accusate addirittura di essere la principale causa del fatto che i cantanti non si sentissero nella tredicesima fila della platea. Ai lettori, dunque, esaminare a loro volta la recensione, spetta a loro l’ultima parola e la possibilità di giudicare l’approccio che ritengono più corretto e, soprattutto, corrispondente alla realtà. E certi critici, d’oltralpe e non, non se ne abbiano a male se non condividiamo la loro linea, giacché si sono trovati della sempre gradita pubblicità in regalo.
“Si tratta, sulla carta, di una Tosca sensazionale: Anja Harteros, Jonas Kaufmann, Bryn Terfel, tre dei più grandi cantanti del presente, diretti alla Bayerische Staatsoper da Kirill Petrenko, che oggi tutti sono concordi nel considerare un direttore d’orchestra eccezionale. I musicisti dei Berliner Philarmoniker, formazione prestigiosa quant’altre mai, l’hanno scelto, d’altronde, per essere loro direttore a partire dal 2018 prendendo il posto di Sir Simon Rattle. Di fatto, l’accoglienza finale del pubblico di Monaco è all’altezza del cartellone con una sala in piedi che chiama ancora e ancora gli artisti, salutati ogni volta da ovazioni e battiti di piedi tali da sfondare il parquet.
La regia di Luc Bondy non è, però, di quelle che segnano gli animi: convenzionale, spesso esagerata e percorsa da un eseguo numero d’idee. La musica di Puccini è talmente esplicita da lasciare poco campo libero all’immaginazione. In queste condizioni, è forse necessario scervellarsi per nulla – le prostitute nell’appartamento di Scarpia – o, peggio, di battere sempre sullo stesso chiodo sottolineando ciò che è già di per sé saliente – le leziosaggini di Tosca, i suoi eccessi di collera gelosa… ? I costumi collocano il dramma in un XIX secolo risorgimentale; le scenografie, grandiose, ne suggeriscono i luoghi. La loro aperta monumentalità è forse una delle cause del disequilibrio sonoro che abbiamo subito, al primo atto più che ai due successivi: dalla tredicesima fila della platea le voci parevano spesso lontane e il bilanciamento orchestrale incerto. Debolezza acustica o scelta interpretativa? Per quanto attento ai cantanti, abbiamo sentito Kirill Petrenko impaziente di allentare la briglia all’orchestra ogni qualvolta la partitura glielo consentiva.
Insiemi fragorosi, commenti musicali eloquenti punteggiano una lettura dettagliata in cui gli imperativi drammatici vincono sulla poesia, in cui le tinte impressioniste della campagna romana all’inizio dell’atto terzo sembrano dipinte da un pennello impaziente, ma in cui il braccio di ferro tra Tosca e Scarpia raggiunge un livello di tensione raramente uguagliato. La parentesi del “Vissi d’arte”, unica aria di Tosca, non ne risulta che più apprezzabile e più applaudita.
Al contrario, “E lucevan le stelle” trova il pubblico muto, certo desideroso di non rompere la magia di un’interpretazione in cui Jonas Kaufmann offre la quintessenza della sua arte. L’aria è cantata a mezza voce, senza eccessi di pathos, con un timbro scuro che si accorda con lo stato d’animo di Cavaradossi. Il successivo duetto d’amore è della stessa qualità torbida e sognante, come se l’eroe, rassegnato, si preparasse a uscire da questo mondo dopo aver consumato le sue ultime forze nel “Vittoria” dell’atto precedente, corelliano per quanto queste forze parevano lunghe. Queste prodezze non bastano, però, a chiudere la discussione intorno al tenore di Monaco. “Recondita armonia” nonostante la nota finale tenuta a lungo e, più in generale, il primo atto, mancano disperatamente di solarità, per chi, come noi ama i Mario “latini”.
Mentre l’ardore di Jonas Kaufmann risveglia l’ombra di Corelli, Bryn Terfel si presenta come erede di Tito Gobbi. Il testo importa tanto quanto il canto, largo, possente, grezzo, in un’interpretazione schiumante di uno Scarpia terribile e malvagio, ma non solo. Crudeltà, perversità e vanità partecipano alla composizione di un ritratto che avrebbe voluto un’acustica più favorevole perché avessimo modo di apprezzare meglio le circonvoluzioni sinuose, i singulti erotici e i sussurri quanto i ruggiti.
Conviene poi dimenticare in fretta le seconde parti, abbastanza insignificanti – ma, circondati da tali mostri, potrebbe essere diversamente? – perché, come recita l’adagio, il meglio arriva alla fine. Ancora una volta avremmo voluto delle migliori condizioni sonore per prendere la misura di tutto ciò che offre Anja Harteros, ma ciò che si percepisce della sua Tosca, più o meno nettamente a seconda della posizione della cantante sulla scena, è già sorprendente. Vi è, incontestabile, la luce accecante di un registro acuto inoppugnabile, preciso, sprezzante, supplichevole, sferzante poi penetrante quando serve evocare al terzo atto il pugnalato Scarpia. Vi è la purezza d’emissione, la tenuta della linea, la lunghezza dei fiati che scolpiscono il più bel “Vissi d’arte” che abbiamo mai vissuto, vero squarcio belcantista nel cuore di un atto altrimenti soffocante. Vi è l’autoevidente presenza scenica, la pertinenza della caratterizzazione, nonostante gli atteggiamenti convenzionali imposti dalla regia. Vi è, soprattutto, la costante attenzione al testo, un’appropriazione di ciascuna battuta che non deve nulla alle sue illustri precorritrici, ma che, eppure, evoca per la sua intelligenza, dopo Corelli e Gobbi per i suoi colleghi, un’altra leggenda: la Callas”.
Un‘ultima osservazione prima degli ascolti riparatori: l’espediente retorico di evocare a sproposito – e con assai poca fantasia – celeberrimi cantanti del passato con l’intento di nobilitare questi modestissimi epigoni presenti ammantandoli del riflesso dell’altrui grandeur non è sufficiente a occultare l’amara verità. Non so voi, ma di fronte a questi nuovi traballanti miti, qui si preferiscono senza esitazione alcuna quelli vecchi, quelli originali con la loro reale grandezza e coi loro difetti, ma che, banalmente, si sentivano!
Divertentissima, piena di comicità involontaria la critica dei gallici.
Ma in certi casi neppure loro sono in grado di fare troppi peana:
cfr http://www.forumopera.com/la-juive-munich-anatheme
Dimenticavo. Ma se il Vissi d’arte della Harteros è il migliore sentito dal critico, cosa ha sentito costui finora in vita sua?
Caro baccelliere e presto in utroque dottore,
“il nuovo deve essere migliore del vecchio altrimenti non ha senso”. Cosí disse Zdanov, il responsabile della politica culturale di Stalin, durante il processo a Shostakovich del 1948. Questi monsieurs sono evidentemente fedeli seguaci delle sue teorie.
Diciamo che se il nuovo non è migliore del vecchio, basta ripetere che lo è un numero sufficiente di volte, e sui giusti mezzi di comunicazione, ed in breve tempo lo diventa (almeno nelle percezione generale)
Aggiungiamo anche che i francesi di canto non capiscono un tubo e fanno Buona compagnia ai tedeschi in questo. Si godano i baroccari e tutti gli altri cani xhe incensano nei teatri parigini!
La nostra critica nazionale? Ampio soggetto… Come dice Giulia, venite un po nei nostri teatri e capirete tutto.Vi ricordo semplicemente che la Bartoli, Petibon o Fagioli sono adulati qui e che la Lemieux canta Tancredi con grande successo pubblico e critico.Non dico che va meglio in Italia, ma, almeno, non assistete alla distruzione sistematica del barocco seria, il più bello repertorio in assoluto, al mio modesto parere…
In questi testi insipidi, non si parla di canto, non c’è la ricchezza lessicale, non c’è l’analisi ne il senso della storia di chi ama profondamente quest’Arte. Che possiamo mai imparare di questi individui ignoranti e chiacchieroni che di voce non sanno parlare? Ci sono unicamente esasperanti lieux communs: “voce bella”, “bel colore” ,logorrea sui timbri (sembra l’unico termine vocale da loro -mal- argomentato ), o, peggio, enormità tipo “purezza d’emissione” per Harteros (del fondo della gola? Dai…).
Poi, i discorsi interminabili sulla scenografia quando, spesso, non è degna di 2 linee, il tutto con un pizzico di glamour e di paragoni assurdi…Ah, dov’è, dov’è il canto?
Grande H. !