Il confronto di oggi riguarda uno dei lavori più noti di Mendelssohn: l’ouverture da concerto “Die Hebriden”, Op. 26. Il compositore, appena ventenne, compose l’opera nel 1830 sulle impressioni del viaggio compiuto in Scozia l’anno precedente e della natura maestosa e impressionante delle Isole Ebridi (in particolare l’isola di Staffa e le famose Grotte di Fingal). Il lavoro – da parte della critica dell’epoca accusato di bozzettismo – evoca invece il movimento del mare trascinato dal vento, le onde che si infrangono sulle scogliere e la pace della solitudine di luoghi remoti e deserti in una visione essenzialmente romantica. Entrata da subito nel repertorio sinfonico più noto e diffuso, l’opera è molto amata da generazioni di interpreti e pubblico, così da avere una ricchissima storia interpretativa e molte testimonianze audio a mostrare le diverse anime degli esecutori chiamati a confrontarsi e a condividere le proprie impressioni rispetto alla profonda evocazione di Mendelssohn. Tante sono le incisioni disponibili, ma oggi voglio mettere a confronto tre letture molto differenti: o meglio due interpretazioni – pur distanti nei presupposti e nella realizzazione – ed una mera esecuzione priva, a mio parere, di anima e interesse. La versione di Furtwangler colpisce fin da subito per il tempo incalzante: un moto ondoso che non dà tregua in un’interpretazione tesa e drammatica in cui la natura è colta nel suo aspetto più furioso. Quello di Furtwangler è un mare profondo e oscuro che accompagna il viaggio incerto dell’interprete tra pericoli, tempeste ed abissi sino quasi ad infrangersi sul basalto delle colonne naturali delle Grotte di Fingal: i temi si rincorrono uno nell’altro in tempi generalmente veloci (a cominciale dall’allegro moderato iniziale) e senza indulgere nella pace dei momenti più lirici. Di segno opposto la lettura di Klemperer: i tempi si fanno più ampi e distesi e l’orizzonte si allarga in una visione della natura più generale e distaccata. Le tempeste e il mare agitato di Furtwangler lasciano spazio ad una visione più meditativa e melanconica in cui prevale l’aspetto più solenne e sovra umano della natura. Klemperer pur indulgendo in tempi dilatati non perde tuttavia tensione e concentrazione, ma il dramma è più distaccato in un incedere fatalistico e determinato da fattori ingovernabili. Due letture opposte, dunque, ma entrambe fascinose e capaci di rendere nell’animo dell’ascoltatore le impressioni e i contrasti di fronte alla meraviglia. Nathalie Stutzmann è prima di tutto una cantante: “specializzata” nel repertorio barocco ha di recente intrapreso una carriera parallela come direttore d’orchestra. Ovviamente molto apprezzata in Francia – suo paese natale – in virtù del noto sciovinismo d’oltralpe (tanto da metterla sul podio di un Tannhauser prossimo venturo in quel di Monte Carlo), tradisce – sul podio – un approccio del tutto manieristico e privo di un qualsiasi vero interesse. L’ascolto di queste Ebridi lo mostra chiaramente: un che di generico e di piatto si percepisce, in una lettura che pare la mera replica di atteggiamenti e visioni altrui. La Stutzmann è insincera e fasulla nell’incedere lentamente senza tensione, nell’indulgere mollemente negli strappi lirici resi in modo ruffiano ed effettistico, nel rifugiarsi nel comodo bozzettismo – lo stesso che la critica più sprovveduta rinfacciò a Mendelssohn e che, a sentire la Stutzmann, pare tuttavia aver qualche ragione – in una lettura mediocre e figurativa, tipica del musicista che si accontenta – per carenze non tecniche, ma interpretative – di eseguire le note, senza cavare da esse nient’altro che un suono gradevole. Tecnicamente non si sentono strafalcioni (altri direttori – italici e non – che si dedicano a tempo pieno al podio fanno sentire spesso ben di peggio), ma non si va oltre ad una lettura corretta e svogliata.
Wilhelm Furtwangler (1930):
Otto Klemperer (1969):
Nathalie Stutzmann (2014):