Diciamo subito che tutti i canali che sul web distribuiscono registrazioni live (pirata è un termine passato di moda) sono stati a dir poco invasi da quelle del Lohengrin allestito a Dresda con la direzione del maestro Thielemann e la presenza di tre attuali stars del canto lirico, di quelle presenti quasi ogni stagione in quasi tutti i teatri del gran circuito popolato di supposti divi e dove il pubblico è convinto di sentire il meglio del mercato lirico. Si trattasse di prodotti alimentari altro che NAS! Tralascio che da almeno 40 anni quelli della Grisi sono convinti che si tratti di una ben orchestrata mistificazione e questo Lohengrin, se la gente facesse uso proprio di cervello ed orecchie, servirebbe non già a celebrar miti, ma a disvelare mistificazioni ed imbrogli.
Ai fatti il teatro con un’orchestra di grandi qualità ha riunito il maggior direttore che esegua Wagner secondo i dettami della cosiddetta tradizione (che, poi, era ben differente nella sua realizzazione, che la bacchetta la tenessero in pugno Bruno Walter, Erich Kleiber, Hans Knappertsbusch, Fritz Busch) e due cantanti che, frequentando quasi esclusivamente il repertorio italiano o al più francese, dovrebbero offrire un Wagner rispettoso dei valori canori ossia del bel suono, del legato, cui aggiunta una Ortrud dedita, secondo una deteriore tradizione tedesca, al canto espressivo, come se Ortrud fosse l’antesignana della Strega Marzapane e non già la versione wagneriana di Eglantine di Euryanthe di Weber. Per la cronaca una grandissima Eglantine fu anche una famosa Ortruda e rispondeva al nome di Marianne Brandt. Se questi erano i presupposti, ammesso che oggi si pensi un istante ad una “linea guida dello spettacolo” soprattutto sotto l’aspetto vocale, non prediligendo il mero aspetto del richiamo commerciale, il risultato è stato ben scadente e mediocre e, comunque, non congruente a quelle che potevano essere le premesse delle scelte artistiche.
Un tale cast solo ed esclusivamente sulla carta poteva essere la riedizione di uno che quasi un secolo fa proponeva Lohengrin. Che fosse nei paesi di lingua tedesca, francese, russa o italiana, che il protagonista si chiamasse Jacques Urlus, Hermann Jadlowker, Leo Slezak, Karl Jorn, Nicolai Figner, Paul Franz, Florencio Constantino, Fiorello Giraud, Giuseppe Borgatti tanto per citare quelli di levatura storica. Alla resa dei conti ovvero dopo un attento ascolto abbiamo i due “amorosi” che gridano in alto, benché pochi acuti la parte preveda per entrambi (e nonostante la soppressione del concertato, che segue il racconto del Graal, riduca ulteriormente i rischi per la primadonna) e che soprattutto stentano a legare, limite assai maggior che non gli acuti strillati perché le parti prima di tutto suono di qualità morbido e rotondo e legato anche nei momenti più tesi (incontro Ortruda – Elsa all’atto secondo, scena del matrimonio, chiusa del duetto della camera) pretendono. Nel dettaglio basta ascoltare la chiusura del cosiddetto sogno di Elsa dove la linea di canto è scomposta o l’assolo in traduzione “dolci aurette che spirate” e tutta la lunga scena della stanza dove la Netrebko appare stanca e dove la dizione latita (peccato veniale in altro repertorio, non in questo, in cui il testo è consustanziale alla musica). Lascia molto perplessi che un soprano che ha cantato, apparentemente senza incidenti, Lady Macbeth ed anche Manon sia in affanno al concertato, che chiude il secondo atto. Ai due assoli di Elsa, dove le cantanti di scuola italiana (come le loro omologhe mitteleuropee) montano in cattedra per accento casto ed ispirato nel contempo, morbidezza di suono, legato e gioco dinamico, la cantante russa è piatta e, come sempre, stenta a legare le singole frasi.
Le cose non vanno meglio con il protagonista il quale anche in una parte relativamente centrale dimostra di non sapere “girare” la voce e quindi in alto (praticamente in ogni frase del racconto del Graal, che oltrepassi il sol) suona spesso afonoide e fisso. Difetto che si rivela particolarmente fastidioso quando il personaggio deve sfoggiare la natura semidivina e fors’anche asessuata (in questo nessuno supera l’interpretazione di Fleta) perché queste caratteristiche del personaggio e del canto mal si conciliano con suoni sgradevoli e stridenti.
Certo tenore e soprano sembrano non solo esecutori professionali, ma autentici e ispirati interpreti di fronte a un Re Enrico con voce e tecnica da comprimario nella profonda provincia germanofona (peccato che canti prime parti a Monaco di Baviera, Bayreuth, Salisburgo, Zurigo e per l’appunto Dresda) e soprattutto a una coppia di “cattivi” che più che urla stonate e fisse, oltretutto di limitato volume, non sanno emettere. Che Evelyn Herlitzius non sia un mezzosoprano, bensì un soprano lirico che, ove correttamente impostato, canterebbe Elsa e non già la perfida Lady Telramund, era di tutta evidenza anche quattro anni fa in Scala. Ora l’usura, già notevole, si è accentuata mercé la cospicua frequentazione di ruoli come Elektra e Brünnnhilde e il risultato è quello che si può sentire e anche vedere nel video che riportiamo di seguito: una declamazione intonata (leggasi: parla), nessuna traccia di legato degno di questo nome, smorfie e contorcimenti dai quali sorte una voce fibrosa e sgangherata. Una prestazione in assoluta e totale contiguità con quanto proposto da anni, per non dire da decenni, da Bayreuth, ovvero da quello che dovrebbe essere il luogo deputato delle più significative performance wagneriane. Si taccia di Tomasz Konieczny, anche lui habitué di Vienna e Monaco, per il quale nemmeno le penne più magnanime e misericordiose hanno trovato la forza di spendere una buona parola (ma aspettiamo che approdi in Scala – quale Commendatore nella prossima stagione – per assistere, probabilmente, anche alla rivalutazione di questo capo d’opera).
La delusione più cocente viene, però, dal direttore. Il quale sembra dimenticare che in Wagner non è sufficiente far suonare bene, con suono quasi sempre compatto (a eccezione di punti, che dovrebbero essere topici, quali i preludi al primo e terzo atto) e senza imprecisioni (salvo qualche intemperanza degli ottoni), un’orchestra che potrebbe, come si suol dire, “far da sola”, ma è necessario restituire l’atmosfera del grande affresco medievale, tra barbarie e fiaba. Invece la direzione di Thielemann procede mollemente, incapace di creare autentico pathos all’entrata di Elsa (predomina, qui, una graziosa elegia che non stonerebbe in Lakmé) e di restituire il senso della folla tumultuante all’ingresso di Lohengrin, o ancora il fosco dialogo notturno tra Ortud e Telramund contrapposto ai festeggiamenti fuori scena all’inizio del secondo atto. Come per il soprano, la pagina in cui maggiormente si manifestano i limiti della direzione è il finale secondo, in cui grandeur e tensione drammatica raggiungono i rispettivi apici. Funziona maggiormente l’incipit del terzo atto con il corteo nuziale, ma il duetto della camera, per quanto si voglia essere intimisti e post karajaniani, evoca al massimo una bella Bohème (del resto le voci sono quello che sono). Ancora, manca al finale dell’opera il senso di sublime e tragica epifania del divino, che il racconto del cavaliere del Graal dovrebbe suscitare. Una direzione in ogni senso rinunciataria e “minore”, non sappiamo se per malinteso desiderio di “umanizzare” Wagner o per suprema indifferenza nei confronti dello stesso.
Uno spettacolo raccapricciante:
– Direzione letargica con l’ingresso di Elsa caratterizzato da tempi talmenti lenti da inibire il legato anche di un Tebaldi o una Flagstad… figuriamoci la signora Netrebko. Perchè rallentare i tempi a priori fa tanto intellettualoide che vuole scavare la partitura… dimenticando che Lohengrin non è Parsifal.
– Herlitzius soprano lirico sfasciato a forza di urlare… Ovviamente non è stata ingaggiata una migliore interprete (penso anche ad una Petra Lang) per non far sfigurare quella che doveva essere incensata come protagonista unanime: Netrebko.
– Netrebko incapace di legare due suoni, trasforma Elsa in Ortrud cantata male… A forza di intubare i centri ormai anche i si risultano fissi e urlati. Ovviamente parlare di fraseggio (Was ist das???) è assolutamente fuori luogo.
– Tenore urlacchiante in acuto ma almeno in teoria avrebbe uno strumento e un volume più o meno adatto alla parte… A mio modesto parere il meno orrendo del cast.
– Sul resto stendiamo un velo pietoso…
– Unica nota positiva: l’allestimento abbastanza tradizionale non mi è sembrato malvagio rispetto a cosa ci viene propinato generalmente (cf. topoloni di Bayreuth).
Ho ascoltato anch’ io la registrazione e concordo in pieno con quanto scrivono Donzelli e la cara Kirsten. Aggiungo che quando la Netrebko canta in tedesco, le rare parole che si riescono a percepire sono pronunciato con il tipico accento che qui in Germania si sente dagli immigrati turchi