L’ultima rappresentazione romana di Linda di Chamounix nel 1913 fu una parata di stelle del tempo. Il teatro della capitale, guidati da Rosina Storchio, di cui la poverissima discografia offre una esemplare esecuzione della cavatina,
schierò un cast all stars e precisamente: Gabriella Besanzoni, Giuseppe de Luca, Giulio Cirino e Ferruccio Corradetti sotto la guida di un appassionato del repertorio antico come il maestro Vitale.
Linda è uno degli ultimi esempi di cosiddetto dramma semiserio. Un genere che ha prodotto assoluti capolavori come la Gazza Ladra, un genere che nel tempo è sempre stato carissimo ai divi sino all’inizio del 900 (e, poi, spiegheremo il motivo) e che oggi è difficilissimo da comprendere perché accusato a partire dai libretti, di inconsistenza drammatica, di povertà della trama e consimili. Tutte argomentazioni, che possono anche essere condivisibili se si considera come uno criterio quello della drammaturgia del testo, quando, però, si consideri il genere semiserio come l’occasione per poter mettere in rilievo le qualità vocali ed interpretative delle compagnie di divi, che facevano l’intera stagione in un teatro e la cui esigenza era quella di offrire al pubblico un saggio della loro arte si può comprendere il genere o quando meno la funzione. Preciso anche che questa non era la chiave di lettura del tempo perché basta leggere le entusiastiche critiche riservate alla Tacchinardi, Linda nella ripresa parigina (per la quale venne anche predisposta la pagina oggi più famosa dell’opera) o per la Belloc e la Pasta nel ruolo dell’infelice Ninetta della Gazza, per capire che il pubblico del tempo stimava quale peculiare il genere soggetto a regole sue proprie.
Eppure oggi il pubblico del 2016 può entusiasmarsi come accaduto nonostante il clima da savana del teatro dell’opera di Roma per la protagonista di questa ripresa stante la capacità della prescelta protagonista di passare nel secondo atto attraverso una sfilata (lunga poco meno di un’ora) dei momenti topici della primadonna ottocentesca. La Pratt, che erroneamente reputata “il soprano del blog”, è stata sempre passata in rassegna con una “attenzione” dallo stesso, ha dato luogo ad una prestazione esemplare passando dalla tenera espressione e languida fiorettatura del duetto con Pierotto, che ripropone le sezioni centrali dei duetti soprano contralto di Rossini, alla vocalità di forza applicata al genere comico nel duetto con il marchese dove Linda ripropone la psicologia e soprattutto la tipologia vocale di Norina, ovvero della parodia della primadonna da opera seria (quale per inciso sia la prima Norina che la prima Linda appartenevano) al canto del duetto d’amore con Carlo passando per quello tragico e patetico dello strazio della figlia, che fa la carità al padre, sino alla tensione tragica del finale, una scena di lucida follia in piena regola, che non è la follia di Lucia come scrissero i critici con riferimento alla Tacchinardi prima Lucia, per il suo peculiare andare e venire della mente della offesa fanciulla e nella quale la Pratt ha padroneggiato l’accento, dando una versione davvero tragica della pagina e nella quale l’ottava superiore svettante e squillante del soprano australiano è stata non solo sfoggio di grande sicurezza e dominio tecnico, ma di espressione allucinata e svincolata dalla realtà. In questa scena Jessica Pratt ha toccato credo uno di quelli che nella carriera di una cantante sono e restano vertici, spesso raggiunti inconsciamente per la concomitanza di splendida forma vocale, preparazione e consonanza con il personaggio. Ne potrei citare con riferimento alla mia personale esperienza di ascoltatore altri cinque o sei con star di rilevanza storica. Preciso: non sto dicendo che miss Pratt sia una cantante di levatura storica, ma semplicemente che in questa Linda preparata forse da tempo e per tempo senza lo stress di altre recite e prove, ha offerto qualche cosa che è un gradino sopra una ottima prestazione vocale ed interpretativa. Aggiungo anche che quale che sia l’interprete questo lavoro di Donizetti ormai sull’orlo della follia ed alla fine della propria produzione offre a tutti i protagonisti pagine di altissima qualità ed emozione (emozionare, far piangere era uno dei tratti essenziali del dramma di mezzo carattere o semiserio).
Questa peculiarità diviene poi un gravissimo problema per la direzione d’orchestra perché le continue modifiche di situazioni drammaturgiche ora tragiche, ora patetiche ed ora comiche rende difficile la resa di una continuità drammatica. Nonostante la fama di conoscere questo repertorio e di rispondere alle esigenze dei cantanti anche questa volta Riccardo Frizza ha dimostrato incapacità assoluta della bacchetta anche nei singoli brani. Basta sentire che cosa è accaduto nella cabaletta del duetto Prefetto Antonio, per la quale l’autore aveva pensato come modello al finale secondo dei Puritani, o nella scena di follia quando gli strumenti a fiato ed ottoni strombazzavano senza pietà! Oltre tutto non si dà ragione di alcuni tagli come la sinfonia (che si esegue a sipario calato sicché la scelta registica non può essere addotta a scusa) o nella pazzia di Linda (cantabile “Nel silenzio della sera”).
Lo spettacolo è stato, si sarà capito, un trionfo per la Pratt e per la presenza di questa efficiente ed efficace protagonista tutti sono stati elevati sugli scudi. Ma la verità con la sola eccezione di Ismael Jordi è ben differente. Nel ruolo del Visconte Carlo languido amoroso, che fu una delle parti di Alfredo Kraus, indiscusso modello del tenore andaluso Jordi si è difeso con classe, ottime intenzioni, fraseggio espressivo, misurato. Ogni tanto dà di naso ed emette suoni schiacciati sul passaggio, che non sembra perfettamente risolto, donde un’aria del secondo atto ben fraseggiata, ma non entusiasmante, mentre l’espressione del finale, che è in fondo un’aria con pertichini, il tono di misurata disperazione sono stati davvero notevoli. Si capisce facilmente la ragione del successo catalano nel ruolo ben superiore a quello del divo Florez.
Il punto debole del cast sono stati Antonio (Roberto de Candia) e Pierotto (Ketevan Kemoklidze). Il primo perché Antonio pur non essendo una parte lunghissima è l’antesignano dei padri verdiani e dell’elevato tasso di etica e morale che al baritono, uomo non vecchio, ma maturo, il melodramma romantico affida. Basta la frase al duetto con il Prefetto in cui il contadino savoiardo parla del vizio della nobiltà di “comperare” onore e dignità del popolo. Siamo a Verdi o forse alla rettitudine morale dei contadini bergamaschi, che avevano sentito pure loro un po’ del sapore della rivoluzione bonapartista. Tutto questo affidato ad un cantante corto in alto, dai pochi ed avari colori dal timbro identico a quello del buffo castra le prerogative del personaggio. Non dimentichiamo che Antonio fu caro ai grandi baritoni nobili dell’800 e fu anche il debutto scaligero di Bruson, che nei primi anni di carriera si presentava al pubblico come baritono grand seigneur. La seconda perché l’esornativa parte di Pierotto languido e patetico (poche sono le fiorettature, nessuna autentica agilità di forza è richiesta al giovane savoiardo) fedele a Linda, scritta, però, nel registro centro grave del contralto deve essere risolta con il legato e la morbidezza dell’emissione e non con suoni ingolati di un mezzo acutissimo che si ingegna, senza troppa tecnica, di fare il contralto.
Quanto a suoni ingolati ne ha emessi parecchi anche Christian Van Horn nel ruolo del Prefetto, qui trasformato in sacerdote della diocesi di Milano, vista la talare che gli è stata messa indosso, e prestato alla scrittura da autentico basso quando il suo repertorio ed anche la voce sembrerebbero quelle del cosiddetto basso-baritono. Nulla di rilevante se non forse per la presenza scenica l’esecuzione di Bruno de Simone nel ruolo del “libertino buono”. Libertino buono è un ossimoro, ma in fondo il vero ossimoro per gli ascoltatori del 2016 è il cosiddetto dramma di mezzo carattere o genere semiserio.
Ho constatato che questa ripresa di Linda che vantava una protagonista oggi senza paragoni in questo repertorio e un tenore con delle belle qualità non ha avuto molto seguito nelle discussioni sui media e sui blog… ok che Roma è una piazza secondaria (tranne se si parla della Traviata di Valentino si badi bene!), ma la rarità e la qualità del titolo, nonché il valore dei due protagonisti (coi tempi che corrono!) avrebbero meritato ben più attenzione. E’ chiaro che qui non c’è trippa per lo star system, non c’è la pubblicità, non ci sono gli interessi, non c’è il gossip… quindi è tutto secondario, provinciale.
Condivido le parole di Donzelli sia sui cantanti (tutti pessimi eccetto i due protagonisti) sia sulla direzione basandomi sull’ascolto della prima, in cui non tutto, evidentemente, era ancora perfettamente rodato sia per la Pratt (qualche caduta di stile, la cavatina un poco cauta ma in tono, un certo grado di tensione come è anche naturale in un debutto) sia per Jordi (qualche problema di intonazione e della gestione delle zone di passaggio, dell’imbarazzo nel primo duetto in cui Carlo canta sopra rispetto a Linda, ma forse sarebbe stato meglio invertire le linee…).
La Pratt si conferma cantante di grande qualità e trovo che il ruolo di Linda le calzi molto bene sotto ogni punto di vista: c’è il rammarico che probabilmente non lo affronterà più senza aver modo di approfondirlo e sarà costretta a prodursi nella duecentesima Lucia. Una prova maiuscola che le meglio pubblicizzate rivali si possono solo sognare: il suo secondo atto è di altissimo livello, il duetto col marchese è forse il migliore che abbia sentito (era questo il punto debole della Gruberova, altra grande Linda) e la pazzia (tolta una puntatura non ben centrata alla prima e il tempo che personalmente non condivido). Una Linda non storica, come l’incisione per me ancora insuperata nonostante qualche taglio di Serafin con la Stella, ma sicuramente degna di essere ricordata!
Il genere semiserio non è sopravvissuto alle temperie del melodramma ottocentesco, alle tinte fosche e tragiche del romanticismo musicale (pur declinato in modo differente rapportandosi alle peculiarità culturali e sociali dell’ambiente in cui è attecchito) e, a seguire, al dramma verista. Ciò non di meno l’opera semiseria – proprio per il suo carattere ambiguo e sfuggente, per la sua sostanziale inattualità, per la macchinosità degli intrecci – ha un fascino suo proprio che permane nel tempo, pur in una lettura che evidenzia talune criticità. Sarà anche il fatto che il genere ha prodotto veri capolavori assoluti che, se discutibili nel contenuto drammaturgico, musicalmente sono altissimi: l’esempio di Gazza Ladra è probante (musicalmente paragonabile – per complessità – solo a Semiramide e Guillaume Tell, per restare a Rossini), ma aggiungerei anche Sonnambula e la Nina di Paisiello. La difficoltà maggiore, secondo me, risiede nell’aspetto interpretativo: ci si deve credere. Di vitale importanza, quindi, è l’aspetto teatrale perché limitandosi ad un impianto bozzettistico si rischia la noia e si evidenziano gli aspetti più deboli della drammaturgia. La Linda è raffinatissima e ispirata, quasi sempre è un Donizetti al suo meglio (forse meno nel ruolo buffo, troppo caricato e musicalmente non indimenticabile). Ovvio che tutto ciò deve passare dal podio, chiamato a governare un lavoro lungo e diseguale (in alcune parti). Non ho sentito questa Linda, ma certe omissioni di Frizza mi paiono poco sensate.
Linda di Chamounix e’ un capolavoro assoluto e la Pratt me lo ha fatto capire.