Si sono concluse alla Fenice le recite de L’Amico Fritz di Pietro Mascagni, secondo lavoro di un compositore da decenni vittima di critiche e giudizi ingenerosi frutto più di posizioni ideologiche e snobismo verso il melodramma italiano postverdiano, escluso Puccini ovviamente, che di reali motivazioni. Questo titolo ebbe accoglienza trionfale nel 1891 con un cast d’eccezione in cui spiccavano Emma Calvé e Fernando De Lucia nei panni dei protagonisti, in seguito godette di vasta diffusione e plauso pressoché incondizionato per lungo tempo; l’opera uscì poi dal repertorio fino a diventare una rarità. L’occasione di assistere a questa ripresa è dunque degna di interesse e permette di constatare, ancora una volta, come molti titoli italiani di fine ‘800 e inizi ‘900 non solo funzionano ancora, ma risultano graditi al pubblico che, spesso poco avvezzo e informato su questo repertorio, ha modo di riscoprire alcuni compositori ricavandone un riscontro positivo.
Pietro Mascagni fu un grande autore che si cimentò, molto spesso con gran successo, con soggetti molto vari dando vita ad opere estremamente interessanti e tra loro molto differenti anche musicalmente quali Cavalleria Rusticana, Amico Fritz, Guglielmo Ratcliff, Iris, Parisina, Lodoletta, il piccolo Marat. Dopo lo sfolgorante successo di Cavalleria, suo trionfale debutto, il livornese si dedicò con entusiasmo a un argomento ben lontano dal dramma verista: una vicenda dalle tinte liriche e delicate che mescola l’elemento borghese a quello campestre rievocando una poetica che esalta le piccole cose e il genuino candore delle passioni giovanili. Il libretto redatto da Nicola Daspuro è un testo privo di qualsivoglia ispirazione poetica, ma è perfettamente funzionale alla musica oltre a vantare una “giusta” lunghezza. L’esito è un’opera semiseria, quasi un quadretto di costume scevro da velleità tragiche che trova la sua cifra più vera nell’elemento naïf. La compagnia di Fritz restia al vero amore, cioè l’accasarsi, e dedita alla baldoria, le nobili intenzioni del rabbino, sorta di wedding-planner di paese mosso da un fervore religioso trattato con gradevole leggerezza, l’ingenuità e il candore così puri quanto un filino ottusi della giovane Suzel, la capitolazione finale di Fritz all’amore, la serena giocondità dell’ambiente rurale e la rigogliosa fertilità di una natura materna e protettiva costituiscono gli elementi fondamentali di quest’opera deliziosa in cui è proprio la musica di Mascagni a conferire unitarietà e gradevolezza all’insieme. La musica ora allegra e disimpegnata, ora patetica e a tratti più seriosamente sentimentale è sempre trattata dal compositore con bonaria ironia, scorre sempre piacevole per poi trovare alcuni squarci davvero ispirati che fanno comprendere appieno le motivazioni del trionfo che accolse l’opera al suo apparire.
Fabrizio Maria Carminati ha reso giustizia alla partitura di Mascagni ricca di spunti melodici, tratti coloristici e momenti lirici alla testa dell’orchestra della Fenice. Il direttore ha assicurato all’opera l’opportuna coerenza narrativa differenziando il tono scanzonato e leggero del primo atto, quello romantico-bucolico del secondo e, infine, il lirismo più drammatico nell’ultimo atto fino al lieto epilogo che corona il sogno d’amore dei due protagonisti. Anche il famoso intermezzo è stato reso adeguatamente.
Il cast purtroppo è stato complessivamente insufficiente nonostante tutti i cantanti fossero scenicamente credibili e a proprio agio nelle rispettive parti.
Il migliore in campo è stato senza dubbio il Fritz di Alessandro Scotto di Luzio che ha almeno cercato di tratteggiare con bel timbro giovanile un protagonista sfumato e vario, tutto sommato attendibile sia nei momenti più gioviali, sia in quelli sentimentali e riflessivi. La sua voce lirico-leggera ha bel colore, espansione limitata ma accettabile, timbro abbastanza omogeneo nonostante negli acuti si sentano chiaramente i limiti nel girare correttamente i suoni, spesso un poco troppo aperti e non perfettamente coperti. A questo cantante per migliorare significativamente converrebbe cercare di portare i suoni in una posizione più alta così da guadagnarne in squillo e facilità. Gli va riconosciuta a titolo di merito una certa cura nel conservare morbidezza e nel cercare di dare un senso a ciò che canta, ma il risultato complessivo è piuttosto pallido. Esemplificativo per comprendere quanto si possa ottenere da questo personaggio (se si dispone di tecnica sopraffina) resta ancora oggi l’ascolto dei vari grandissimi del passato che hanno vestito i panni di Fritz quali Gigli, Tagliavini, Valletti, Pavarotti, Raimondi…
Purtroppo la Suzel di Carmela Remigio, ormai tuttologa del repertorio italiano, è stata pessima. L’unico pregio che le riconosco è la dizione. Va da sé che Suzel le stia meglio di Norma o di altri ruoli più pesanti, ma la voce suona ormai vecchia e usurata, sotto parlata vuota e prossima alla raucedine, sopra spinta e gridata. Le note tenute tendono a ballare, la postura e i movimenti cui ricorre per emettere gli acuti sono preclaro esempio di cosa non si debba fare per emetterli. La parte medio-alta della voce resta quella meglio conservata e denuncia chiaramente la natura lirico-leggera, se non proprio da soubrette, della Remigio. Parlare di interpretazione è impossibile: tutto uguale, un mero solfeggio accompagnato da pose e accenti leziosi e lagnosi. Il ruolo non è certo irto di grandi difficoltà e la tessitura si adatta perfettamente a quella di un soprano lirico o addirittura più leggero se si sanno gestire i gravi: servirebbe bel timbro, purezza d’emissione, legato, dolcezza e propensione al canto patetico per rendere al meglio un personaggio talmente ingenuo e angelicato da risultare un poco insulso a noi moderni. Insomma, siamo in un altro pianeta rispetto a una Carteri, una Freni, una Chiara tanto per restare nella seconda metà del ‘900, ma sono persuaso che anche la Pagliughi sarebbe stata un’eccellente Suzel.
Il Beppe di Teresa Iervolino si è contraddistinto per una prima aria in cui sembrava la parodia di una cantante a fine carriera alle prese con Ulrica tanto i gravi erano pompati e una seconda in cui legato e poesia erano del tutto assenti. La cosa non stupisce visto che la voce è bassissima di posizione, intubata, gonfia sotto, tirata e fibrosa sopra modello Barcellona, ma con molta meno voce. Stesso discorso della Remigio: meglio qui che nel belcanto e nel barocco, repertori sui quali pare ormai essere ben lanciata.
Elia Fabbian è stato un rabbino più parlante che cantante, più tenore che voce grave, in grande difficoltà nelle poche note acute della parte. William Corrò e Alessio Zanetti erano gli allegri compari di Fritz, egualmente spigliati e ingolati, Anna Bordignon chiudeva il cast.
La regia è di Simona Marchini, le scene di Massimo Cecchetto e i costumi di Carlos Tieppo. Lo spettacolo aveva un impianto generale dal sapore tradizionale che però risulta migliore nelle riprese video piuttosto che a teatro perché lo spazio fisico in cui si muovono i cantanti era un non grande quadro centrale ritagliato nello spazio del palcoscenico che in breve tempo diventava leggermente fastidioso. Scene e costumi erano colorati e piacevoli, ma davano troppo spesso l’idea di finto, di riproduzione turistica di un ambiente tradizionale che ricorda molto lo Skansen a Stoccolma. Buffa a vedersi la scena del secondo atto in campagna in cui non potevo non pensare al delizioso cartone animato Shaun the Sheep. Una contesto più attento al versante lirico e romantico della partitura avrebbe giovato, ma almeno era chiaramente intelligibile quanto è previsto dal libretto senza aver bisogno di un manuale esplicativo da parte del regista atto a spiegare qualche nuova non-idea.
Direi che l ascolto irrinunciabile per quest opera continui ad essere tito schipa, senza nulla togliere agli altri grandi.
e Basiola dell’aria del Rabbino https://www.youtube.com/watch?v=spnFhVCi2GM
Remigio: premio Abbiati?????!!!!
La ricordo l’anno scorso alla Fenice in Norma come uno dei peggiori bistrattamenti della sacerdotessa druidica.Se non vado errato, confinata a un paio di recite concusive, c’era una Alessandra Rezza a tutto tondo, portentosa. Misteri delle scelte di alcuni direttori artistici…
Ha ragione! Sono rimasto basito perché è una delle peggiori che circolano attualmente in Italia. La cosa è sintomatica di come vengano gestiti questi premi dal valore reale assolutamente nullo!