Opera di un Mozart diciannovenne, all’epoca ancora al servizio dell’arcivescovo di Salisburgo, il Terzo concerto per violino K. 216 è ritenuto dagli studiosi (in prima fila Alfred Einstein, che gli dedicò un appassionato elogio) un gioiello della prima produzione del compositore. In particolare il primo movimento, che riprende il tema di un’aria del Re pastore, sembra già proporre, sia pure in chiave di prudente sperimentazione, quel dialogo incessante e incessantemente vario fra solista e orchestra che sarà la caratteristica regina dei grandi concerti per pianoforte. È proprio questo scambio (non già alla pari, ma sempre esattamente calibrato) che ci ha indotto a comparare due esecuzioni, in cui al primo violino viene richiesto di essere quello che fu almeno sino all’Ottocento inoltrato, ovvero concertatore. In particolare, la scelta è caduta su David Oistrakh (1908-1974) e Fabio Biondi (nato nel 1961), entrambi fanciulli prodigio e in seguito professionisti letteralmente ricoperti di riconoscimenti da parte di critica e pubblico, titolari di nutriti cataloghi discografici, il primo approdato alla direzione d’orchestra dopo il cinquantesimo anno di età, il secondo già in possesso, prima del trentesimo, di un proprio ensemble (Europa Galante) specializzato nell’esecuzione di musica barocca (con incursioni in repertori affatto diversi, come avvenne in occasione di una Norma proposta a Parma), laddove il russo predilesse, forse, il repertorio romantico e novecentesco. È pertanto curioso rilevare come il Novecento faccia la sua surrettizia comparsa in maniera decisamente più marcata nell’esecuzione di Biondi che non in quella di Oistrakh: il direttore italiano opta per un tempo decisamente più serrato (ai confini della parodia volontaria) dell’Allegro previsto in partitura, proponendo un’esecuzione dai toni taglienti e dal suono aspro, che sembra evocare lo Stravinsky del periodo neoclassico, mentre il russo predilige una cantabilità molto più morbida e distesa, che non per questo sconfina nella leziosaggine, trovando il direttore (e più ancora, naturalmente, il solista) sempre il giusto equilibrio tra grazia e mordente virtuosistico. In particolare, si confronti la capacità di Oistrakh di evidenziare la differenza tra i passaggi legati e quelli caratterizzato dal ricorso allo “staccato”, anche all’interno della medesima frase (ad es. alle battute 68-70), con la tendenza, da parte di Biondi, a offrire – e a richiedere al resto degli esecutori – un fraseggio che procede per incisi brevissimi, più martellati che staccati, sacrificando alla brillantezza tutto o quasi il potenziale melodico della pagina. Il tempo maggiormente disteso consente poi a Oistrakh (che dispone, giova ricordarlo, dei Berliner Philharmoniker) di sottolineare, nell’introduzione, le molteplici linee musicali che si intersecano alle battute 15-23 (in cui Mozart sembra rievocare la ricchezza polifonica dei concerti bachiani), mentre Biondi procede spedito e lascia che gli interventi dei “tutti” vadano a sovrapporsi, più che a intrecciarsi. È una lettura, quella del direttore italiano, in ogni senso più “squadrata” e a tratti quasi militaresca, apprezzabile soprattutto per il rigore geometrico con cui alterna “piano” e “forte” (il pezzo sembra in questo senso memore della lezione del concerto grosso secentesco), anche se il timbro piuttosto secco e la limitata ampleur del primo violino emergono con chiarezza (purtroppo) nei momenti in cui all’esecutore è richiesto di spingersi nelle zone più basse e più elevate del pentagramma, come alle battute 194-212, che preparano la conclusiva cadenza. Il grande momento riepilogativo del movimento (durata analoga nelle due esecuzioni: circa un minuto e mezzo) vede Oistrakh sfoggiare, con un suono più corposo, la capacità di riproporre (ulteriormente fiorite) le principali idee musicali dell’Allegro, inframmezzate da passaggi cromatici in cui sembra affermarsi la voce più melanconica del violino; Biondi, che molto opportunamente introduce parche varianti alla ripresa (battute 156-166), risulta, malgrado il nitore dell’esecuzione, un poco più meccanico nell’enunciazione dei temi e decisamente più limitato nell’esplorare le possibilità tecniche ed espressive dello strumento.