Fughiamo subito ogni dubbio: la Favorite è una grande opera, non semplicemente un Grand-Opéra, ma un capolavoro del Donizetti maturo alle prese con il pubblico parigino, le convenzioni del melodramma d’oltralpe e gli spesso intriganti protagonisti della vita teatrale dell’epoca. Dell’alto valore del lavoro del compositore di Bergamo e del meritato e duraturo successo dell’opera, mai uscita dal repertorio specie nella sua per certi aspetti discutibile versione italiana, se ne è avuta la conferma a Venezia nonostante uno spettacolo che definirei senza mezzi termini deludente. Lodevole riproporre un titolo tanto importante quanto oggi poco rappresentato, lodevole l’impiego di un’edizione in lingua originale e pressoché integrale con qualche sforbiciata ai ballabili, ma si tratta dell’ennesima occasione sprecata. Come per il Crociato in Egitto e come per Africaine tanto per citare altri due esempi. Insomma, come per quasi tutti i tentativi recenti, non solo a Venezia è bene precisarlo, di ridare linfa vitale ai titoli del Grand-Opéra. Il problema primo non sono tanto i mezzi scenici e gli impianti registici inadeguati, oggi mediamente pessimi oltre che costosi (alla faccia dei problemi di budget!), ma la scelta dei cast, raccolti senza criterio alcuno e prevedibilmente, e puntualmente, travolti dalle necessità di parti vocali di difficoltà e impegno improbi.
La direzione di Renzetti è stata semplicemente pessima: pesante, fracassona, con tempi ora slentati ora da velocisti, ma soprattutto inelegante e irrispettosa dei cantanti, già da par loro provvisti di doti e tecniche limitate, molto spesso coperti. Va da sé che un’interpretazione coerente era assente: i momenti di concitazione rasentavano il parossismo e i decibel si sprecavano, i momenti poetico-elegiaci erano slavati e mosci. A titolo d’esempio, gli accompagnamenti di O mon Fernand e Ange si pur parevano randellate.
John Osborn alle prese con un ruolo Duprez rivela molti limiti e suscita parecchie perplessità: molto cauto nel primo atto, evidentemente preoccupato, cresce a poco a poco nel corso della serata fino alla famosa Ange si pur, probabilmente il suo momento migliore per lo sforzo di ricercare un buon legato e una buona linea. Bisogna aggiungere a titolo di merito che è l’unico tra i protagonisti ad avere una buona pronuncia della lingua francese. Esito finale molto modesto da parte di un cantante che da qualche anno frequenta abitualmente un repertorio ben più pesante di quello che la sua natura gli consentirebbe e con plauso pressoché unanime. Sue virtù sono una certa intelligenza nel dosarsi e un’indiscussa resistenza, ma la voce oltre ad essere perennemente bassa di posizione e quindi priva di squillo è davvero piccola. Ho molte perplessità su come faccia a cantare e farsi sentire in teatri più grandi, che abitualmente frequenta, visto che era spesso coperto dall’orchestra e che negli insiemi spariva letteralmente, anzi, peggio, si sentiva solo il secondo tenore. La cautela negli acuti, comunque la parte migliore della sua voce contraltina per natura, non lascia presagire belle cose per il futuro.
Veronica Simeoni, che ho trovato molto peggiorata rispetto a prove precedenti, ha realizzato una Léonor insufficiente. Voce piccola, spesso coperta, quasi sempre calante in acuto, vacua in basso, priva di punta e squillo in tutta la sua modesta gamma tanto che neppure gli acuti, ghermiti o presi con strani tentativi di gonfiare la voce, hanno un minimo di espansione ma restano piccoli quanto i gravi. Pressoché inesistente sotto ogni punto di vista nei primi due atti, ha usato tutto il carburante rimastole nella celebre aria, rivelatasi prevedibilmente ben superiore alle sue doti. È sì arrivata alla fine, ma da una voce che lottava semplicemente per farsi sentire non ci si può aspettare né interpretazione né un risultato vocalmente soddisfacente. Della grandeur del personaggio e del talento della Stolz, la prima interprete, non vi è neppure l’ombra. Imbarazzante l’ultimo atto in cui la nostra, ormai svociata e sussurrante, pareva stesse davvero morendo sul palco. Meglio non infierire.
Vito Priante, il più sonoro dei protagonisti, ha cercato di interpretare con cognizione di causa il personaggio di Alphonse XI trovando buoni momenti anche vocalmente. I gravi sono deboli, gli acuti non riescono sempre bene, ma è stato convincente nella cavatina (non nella cabaletta) e in altri momenti dell’opera senza essere coperto spesso come i colleghi. Non è certamente un interprete ideale né rispecchia quello che doveva essere il primo interprete Barroilhet, ma è risultato meno inadeguato dei colleghi e ha dimostrato una buona dose di professionalità.
Il basso Simon Lim, anche lui ben udibile, è affetto dai soliti problemi dei bassi di oggi: ingolatura, gravi deboli e stomacali, acuti traballanti e spinti. Aveva un’illusoria autorevolezza in rapporto alle voci piccole degli altri.
L’Inès di Pauline Rouillard ha un peso vocale nullo ed è sembrata una Dessay completamente spoggiata e priva di nerbo.
Sorpresa della serata Ivan Ayon Rivas nelle vesti di Don Gaspar: voce dal bel timbro tenorile, la più sonora e la meglio impostata del cast. E’ lui che ha tirato nei concertati e che risultava udibile coprendo senza sforzo alcuno il celebrato collega persino nella puntatura al termine del terzo atto.
Della regia di Rosetta Cucchi, le scene di Massimo Cecchetto e i costumi di Claudia Pernotti sarebbe meglio tacere, ma i fischi che non hanno ricevuto dal pubblico della Fenice sempre così buono (i più sono turisti in villeggiatura) vogliono che si spendano due parole. Una casta di sacerdoti-scienziati in un possibile futuro tiene in scacco popoli e sovrani collo spauracchio di un credo legato al contatto con l’elemento naturale, ormai praticamente estinto nel mondo, ma sopravvissuto in campioni saldamente in mano alla casta stessa. Un popolo privo di libero arbitrio con uomini che combattono e si riproducono e donne che velate tacciono e passivamente vengono montate. Un protagonista in balia delle altrui decisioni, una protagonista che muore nell’opporsi al regime, un re che si crede padrone di tutto, ma non lo è neppure di se stesso. Tavole periodiche, ampolle, giardinetti artificiali, costumi ispirati al Trono di Spade e ad Avatar. Un susseguirsi di inutili sciocchezze neppure belle a vedersi e prive di legame con la vicenda. Nel libretto di sala si può però ammirare l’ego della regista, compiaciuta esegeta di se stessa. Del libretto e di Donizetti, ovviamente, chissenefrega!
Il libretto di sala ricorda, impietosamente, gli interpreti che cantarono Favorita a Venezia nel 900: Stignani-Malipiero-Guelfi-Pasero, Cossotto-Mori-Taddei-Vinco, Verrett-Ballo-Coni-Scandiuzzi… nel 2016, paradossalmente, a destare maggior sensazione è stato invece il secondo tenore!
Giovanni David
Donizetti – La Favorita
Atto III
O mio Fernando – Bianca Berini
La signora Cucchi già scarsina come pianista e insignificante come direttore artistico ha ammorbato l’opera con la sua infondata ed illegittima messa in scena. Degna di Cazzenger la sua expositio nell’intervista tv, culminata in quella frase sull’uso dell’aria che rende solide le scene……cazzate! Francamente vergognoso che si gettino i soldi pubblici in siffatte operazioni che nulla hanno a che fare con il teatro vero e d’autore. Nell’ auspicare una spending rewiew che inibisca tali manifestazioni , auspichiamo anche che i cantanti ritrovino il senso della decenza e del rispetto di ciò che fanno ed anziché mancare deliberatamente di prepararsi una propria concezione di ciò che cantano perché tanto poi i registi gli innestano addosso siffatte porcherie (come la simeoni ha dichiarato la Simeoni nell’intervista tv), trovino il coraggio di dire di no a messe in scene che oltretutto li penalizzano. Vedremo a Genova la prossima Salome della signora cucchi , ormai onnipresente sui palcoscenici italiani…..chissa cosa si inventera per la perversione di Salome, la testa mozzata etc etc
Non ho visto lo spettacolo, ma mi è capitato di ascoltare mentre ero a cena il frammento dell’intervista della Simeoni. Mi si è davvero stretto il cuore e per la prima volta ho pensato che l’opera davvero stia morendo. O meglio non che stia morendo, ma che la stiano uccidendo. Quelle parole amare (che forse sono anche comode) rivelano il vero stato dell’opera attuale: tristemente in mano a registi che fanno e disfano cast, fanno e disfano carriere, assumono posizioni di controllo (i direttori artistici/generali sono sempre di più registi e non musicisti e poi sono loro che invitano direttori e cast) ma soprattutto fanno bassa macelleria dell’opera.
Proprio oggi ho ascoltato affranto un giovane rampante regista, molto noto per i suoi allestimenti attualizzati, dire che cancella/sbianchetta sistematicamente le didascalie di regia nello spartito quando lavora ad una nuova opera.
Ma poi, come si pretende che la gente ami l’opera?
E’ tempo di cambiare atteggiamento, bisogna FARE, fare qualcosa in direzione diversa. Criticarli non basta, bisogna creare alternative, creare un circolo virtuoso: teatri dove questa gente non entra, scuole dove il “buon-canto” non si perde, teatri dove i “bellimbu-stonati” non cantano. Solo in questo modo la gente potrà ancora amare l’opera.
Da tempo la mentalità corrwnte è che criticare sia sbagliato, chi lo fa viene pesantemwnte diffamato. Buarli per disapprovazione non va bene….e va bene solo che ci offrano schifezze e noi si applauda mentre ci beviamo le loro balle. Il risultato della dittatura di discografici ottusi, manager incompetenti, commercialisti improvvisati direttori artistici è stato compiuto. Il politically correct ora impone di godersi con gioia la cacca, che producono e pagare con le tasse i loro interessi
Sono d’accordo. Adesso e’ diventato “sbagliato” buare, ma quando la critica non e’ possibile, vuol dire che ci troviamo di fronte al sacro: per cui siamo nell’epoca dell’idolatria della cacata d’oro.
Io ci credo nella critica e credo nel suo potere di dialetticamente fornire un servizio positivo. Ma non voglio solo fare il brontolone. E lancio la palla anche qui, cosa possiamo fare? Scuole? Teatri fai da te? Quali sono gli insegnanti che ancora fanno qualcosa di buono? Qualcosa di buono dovrà ancora esistere da qualche parte. Come trovarlo, proteggerlo, valorizzarlo? Non voglio vivere solo nelle registrazioni di un’epoca d’oro che purtroppo non c’è più. Voglio opera bella e ben cantata oggi, nella mia vita e vorrei fare qualcosa per questo!
Perfetta analisi. Seguo la signora Cucchi da quando esordì con una regia splatter d’altronde adeguata al titolo: Sweeney Todd, il diabolico barbiere di Fleet Street. Da allora non ha fatto che incartarsi nelle becerate sul registro dell’ultra-violenza, tipo una Traviata dove Germont padre stende il figlio con un uppercut mentre gli canta “No, non udrai rimproveri”. Si dice che costi poco, e forse è questo il segreto della sua fortuna.
Questo ennesimo capolavoro della cucchi me lo sono perso, ma ho vividi ricordi di altre “regie” della signora, che hanno avuto su di me gli stessi effetti di un celebre confetto. Ricordo reazioni letteralmente violente del pubblico della fenice per spettacoli ben migliori, quindi meraviglia che questa cosa qua sia passata senza drammi. Soprattutto meraviglia che continuino a chiamarla nei teatri….costerà poco. Si sa..c e’ crisi.
Ho seguito su Rai5 la Favorite da Venezia,e, a parte le considerazioni sugli interpreti ( ben analizzate da Donzelli) son rimasto stupefatto dall’intervista della regista e dello scenografo: non parlavano della Favorite di Donizetti ( Grand-Opéra un po’ atipico-vedi scarsa importanza del coro- e sopratutto basato su una vicenda privata) ma esponevano le loro farneticazioni come fosse normale non tener in alcun conto musica, testo ed azione dell’opera . Gia’ su questo sito Marianne , mi pare, ha analizzato le caratteristiche psichiatriche di questi pseudo-registi e poco vi e’ da aggiungere.
Rivolgerei a questi fenomeni psichiatrico-circensi un sommesso invito: “NOLI TURBARE CIRCULOS MEOS”
PS: ma, secondo voi, la Simeoni e’ un mezzo-soprano ?
no, non mi sembra… ma così è di questi tempi
Ho avuto modo sentirla molte volte persino come Azucena (!!!) e non è un mezzosoprano, bensì un soprano lirico che sotto è inesistente e afonoide e sopra non sa girare i suoni; la voce è modesta e piuttosto omogenea nel suo essere completamente priva di squillo e espansione dal grave all’acuto. Cerca di essere misurata e di spingere il meno possibile (i mezzi comunque non le consentirebbero l’opposto senza cedere), ma ultimamente ha maturato dei metodi pessimi (tipo il vezzo di gonfiare la voce salendo, cosa senza senso perché lede la linea, la dizione e la voce rimane piccola e sorda) che la portano a emettere mera aria sotto e calare con buona probabilità sopra.