Termina con l’uscita di scena “onz a onz” della protagonista ufficiale Eva Marie Westbroek l’avventura della Fanciulla del West nella pubblicizzata edizione senza gli interventi “di Toscanini”. Inutile ripercorrere le faraginose tappe che hanno portato alla sostituzione prima dell’annunciato regista, poi dell’annunciato tenore. Diciamo solo che, dopo una vita ad andar per teatri, la repentina sostituzione della signora Westbroek il giorno della generale “presentata” dal sovrintendente con l’auspicio che si esibisse per la prima, seguito invece dall’annuncio sul sito del teatro che per le prime 3 non sarebbe stata disponibile, ci è parsa storia in odore di malattia diplomatica. Puntuale è, infatti, seguita la conferma della completa indisponibilità dell’artista, a recite iniziate con altro e diverso soprano. L’edizione “originale” è stata spedita prestamente in fanteria assieme a tutte le velleità culturali del maestro Chailly, e buonanotte suonatori, tanto un forfait in più o uno in meno alla Scala non fa gran differenza per un pubblico che forse la foglia di una gestione non proprio lineare delle cose l’ha anche mangiata, ma pare ancora acquiescente di fronte alla deriva del suo amatissimo teatro. Dopo aver visto la 3° recita trasmessa per tv, ho assistito alla recita del 18 e di questa vi dirò, essendo che la ripresa televisiva non corrispondeva molto alla realtà teatrale.
Dello spettacolo di Carsen non si può dir male, perché il suo western è parso godibile ed efficace, non provocatorio né altro di urtante, ma nemmeno ha brillato per genialità inventiva o accuratezza di lettura del testo, anzi. La Fanciulla di Carsen è incardinata su un idea di cui si potrebbe celebrare il quarantennale tanto è innovativa ( occorre anche che si inizi a scremare la verità dei fatti dalla misconoscenza entro la prosa dei moderni distributori di incensi “da buon comando” ), ossia il cinema nel teatro, per cui i protagonisti ed il coro appartengono ad un pubblico che rivive in prima persona la proiezione del film dell’opera. Idea messa in scena già da Ronconi, tanto per esemplificare, nell’anno di Dio 1976 a Parigi nel Barbiere di Siviglia ( allora si proiettava il film con Tito Gobbi ), poi parecchie altre volte ancora con registi di gran fama, da Pizzi ( alludo al finale del Cappello di Paglia di Firenze ) al più recente Livermore di Ciro in Babilonia etc.. Idea che è abusata se poi pensiamo ad altri casi preclari, quasi da “cultura popolare”, come il Woody Allen della Rosa Purpurea del Cairo o il nostrano Tornatore del Nuovo Cinema Paradiso….Ergo, non un’idea, ma un clichè, adottato per metter qualcosa nello spettacolo. Quello che pare evidente nel riflettere sullo spettacolo è come questo venga gestito addirittura come successione di clichè, dal coro che si muove e recita ritmicamente al primo atto come nel cabaret ( dai Contes d’Hoffmann all’indietro potremmo scorrere l’intera produzione del regista per ritrovare questo tipo di movimento), cosa che poi si ripete al terzo, quando questo si allinea per consentire una sorta di passerella, rubata ancora alla rivista come al musical, per Johnson Ramirez che sta per essere impiccato ( la vena di ridicolo del momento si coglieva..…). Altro clichè da musical l’entrata di Minnie, col sipario drappeggiato che si alza velocissima e lei ferma, davanti ad una immagine cinemascope di un Colorado rosso fuoco, in posa col braccio in alto e la pistola, immobile per vari secondi, l equivalente dell’acuto tenuto a perdifiato di un tenore gigione. Ama il colpo di scena e cerca l’effettone anche nel finale, quando Minnie non arriva al bosco ove stanno per linciare l’amante, ma appare in visone, anni ’20, davanti all’ingresso di un cinema, i neon e i cartelloni pubblicitari col volto della protagonista ed il finale con la coppia in cappotto che esce a piedi camminando. Esagerato poi il sangue alla Tarantino ( perché di Tarantino si tratta ) che colora il grigio della capanna allucinata da teatro espressionista del secondo atto. Lo spettacolo risulta una successione di immagini tipiche e comuni, mutuate un po’ ovunque e che, come detto, funzionano anche, ma non riescono a togliere una certa sensazione di superficialità, talora anche gigionesca, come i due ingressi al 1 e al 3 atto di Minnie di cui ho detto.
Il procedere per effetti del regista è certamente assai diverso da quello di Puccini, che ad usare gli effetti è superlativo, ma li dispone sempre alla fine di un processo analitico di fraseggi, tutti da cesellare, di ricercatezze orchestrali, di completa aderenza della momento musicale all’azione. Nulla è casuale o gratuito in Puccini e certo a Chailly è piaciuto dimostrarci la qualità di orchestratore del compositore. Abbiamo sentito un’orchestra che ci ha fatto sentire ogni strumento in maniera nitida e distinta, soprattutto quelli cui forse non avevamo mai prestato attenzione, cercando di mostrarci la tutta la modernità e la propensione novecentesca di quest’opera. A mio avviso non ha diretto male, ma gli è sempre mancato qualcosa per avvolgere lo spettatore e rapirlo, come già nella Turandot. All’analisi, soprattutto agli interventi dei tanti comprimari del I atto, anatomizzati uno dopo l’altro, il maestro ha sacrificato la grandiosità e soprattutto la poesia di quella sorta di poema sinfonico per comprimari, coro e grande orchestra che và dalle battute iniziali fino all’attacco del duetto tra Minnie e Johnson. Il primo atto stentava a procedere, perché il tutto si fermava ramificato nei singoli episodi, che sembravano quasi di colore, mentre l’orchestra deve imporre un grande respiro al tutto, il grande poema, appunto, del ricordo della casa lontana, della nostalgia e della solitudine introdotta dal canto di Wallace fuori scena, degli improvvisi squarci dinamici in cui l’azione riparte, del coro utilizzato come un grande e suggestivo solista. Anche Minnie è introdotta dal canto del coro, e tutta la scena che culmina nel suo ingresso deve essere quasi un’esplosione dell’orchestra, costruita centellinando la progressione delle battute che portano ad essa. Meglio il duetto d’amore, che aveva un bello slancio appassionato, mentre l’atto della capanna, dopo il secondo duetto, era povero di tensione dal momento che và della furia di Minnie contro Johnson (“Vieni fuori Vieni fuori….”) alla partita a carte finale, in cui Puccini impone un ritmo incalzante e terribile all’orchestra. Al finale, apoteosi di solisti e coro, con l’acme sul si naturale coronato di Minnie su tutti, è mancato quel mix pucciniano di teatralità, forza ed edonismo sonoro che porta l’opera alla celebrazione della riconoscenza per il bene ricevuto da Minnie, il perdono ed il lieto fine. Per quanto attiene la sfera dell’accompagnamento al canto, và detto che l’operazione ha subito un pesante ridimensionamento perdendo la protagonista in prossimità del debutto. Non posso però non rilevare gli stacchi di tempi per Sgura e soprattutto per Aronica, che cantava in una tessitura per lui molto grave. L’aria del terzo atto, “Ch’ella mi creda” è stata staccata ad un tempo biblico per una voce adeguata a tessiture più alte e ciò esemplifica il rapporto del maestro con canto ed i cantanti. La scena del I atto di Jack Rance – Sgura non aveva alcuna dinamica o respiro interno alle frasi e così il canto, costruito come una grande progressione all’acuto, espressione dello slancio amoroso di Rance per Minnie, ha sortito un esito insignificante. Se il cambio di protagonista su un ruolo molto difficile impone una certa tolleranza sull’esito finale sortito da buca e solista, non così per i protagonisti maschili dove ancora, come già in Giovanna d’Arco ed altre occasioni precedenti, abbiamo riscontrato accompagnamenti che poco sembravano giovare ai cantanti. Sgura ha realizzato un personaggio ieratico e credibile, grazie anche alla sua figura. Carsen lo ha messo “in posa” alla De Niro-Al Capone per tre atti, il sigaro in bocca, la mano in tasca e o sui fianchi, fedele al sopradescritto concetto del procedere per clichè. La voce è piuttosto piccola, quindi anche le impennate del canto del cattivo non erano in grado di essere molto incisive sul piano vocale e la parte è stata risolta col grande aiuto del visual. Aronica ha cantato con continuità di rendimento, la voce al centro piuttosto sabbiosa, forse per via della tessitura e del fatto che tende a spingerla. Gli acuti sono stati, anche se non sono girati, la parte migliore del suo canto, frutto di una dote notevole e di uno squillo naturale invidiabile. Fraseggio poco e disomogeneità di volume tra la zona centro grave e gli acuti, sempre per via della tessitura, che gli ha reso difficile provare a legare veramente il suono. Barbara Havemann ha fatto la sua difficile sostituzione senza prove, ma alla quarta recita credo si debba dire di lei come di una titolare. Canta un repertorio molto più pesante della sua vera natura vocale di lirico leggero dal timbro chiaro. Una dote che avrebbe dovuto applicare ad altro repertorio, alterata invece da una concezione del canto che è quella oggi corrente presso certe scuole, ove si insegna ad ingrossare, forzare e spingere la voce. Di fatto non ha le note centrali e men che meno quelle gravi, necessarie per cantare questa parte. Ha parlato con grande frequenza, primo atto in primis. Gli acuti, anche se spinti, sono risultati accettabili, assai meno la mancanza di sonorità e l’incapacità di cantare laddove la parte insiste di continuo. Qualche fiato in più del dovuto, e soprattutto l’assenza di legato derivato da quanto detto sopra, han fatto sembrare la sua Minnie una regina del declamato, mentre la parte non declama affatto. Canta piuttosto su zone del pentagramma ove è difficile attaccare i suoni, mentre sono pesanti da reggere le discese ai gravi come certe impennate selvagge all’acuto, coniugate all’ampiezza che la parte richiede in tanti momenti, come il finale, dove non c’era abbastanza suono e canto per restituire la potente magnificenza della scena. Quanto al parco comprimari, da segnalare soltanto il bravo Carlo Bosi come Nick, voce fin troppo puntuta e sonora in un contesto di voci indietro e Alessandro Luogo come Sonora. Da sempre Fanciulla si dice che costi un patrimonio, perché i comprimari come il coro hanno un ruolo fondamentale nello straordinario complesso che è il primo atto e forse qualche voce migliore si sarebbe potuta aggiungere ai due di prima.
Insomma, nonostante le peripezie variamente cagionate, ne è uscita una Fanciulla che non è stata un flop ma nemmeno un vero successo e men che meno quello che ambiva essere, ossia lo spettacolo di punta della stagione destinato ad unire buona musica e contenuti culturali. Non male…ma far bene è un’altra cosa.
sono tornato a risentire questa fanciulla sabato sera . Dal loggione la voce del soprano ha un minimo più di volume, ma la prima ottava non esiste affatto come pure sgura non si sente. La verità è che hanno un po’ più di volume i comprimaria. Ma al secondo ascolto il problema è un altro ossia la bacchetta. Intendiamoci bene l’orchestra è precisa e la qualità in sé del suono elevata, ma manca il concertatore. Fanciulla è fatta per metà del primo atto e per un terzo del terzo di scene di colore dove il fraseggio deve essere dell’orchestra che accompagna, sostiene ed illumina il canto di conversazione. Questo non c’è latita ad onta del suono di per sé buono e della precisione. Credo che Chailly come tutti i direttori degli ultimo cinquant’anni anche famosi e di grande carriera non sappia descrivere con l’orchestra e non sappia avere stacchi di tempi e sonorità fra loro congruenti e conseguenti. Singoli episodi anche validi, ma l’insieme latita
Quindi Bernstein non sa descrivere, Kleiber non sa descrivere, Abbado non sa descrivere, Karajan non sa descrivere, Boulez non sa descrivere, Jansons non sa descrivere, Salonen non sa descrivere (e potrei andare avanti con altre decine di nomi di alcuni – come del resto i precedenti – tra i più grandi direttori del ‘900)
ti rispondo limitandomi all’opera subito facendo un po’ di conti Karajan è di un’altra generazione molto precedente. e con lui Bernstein. Abbado è il negato per eccellenza a questa operazione e in parte son tutti figli suoi gli attuali direttori belli asettici . e riguardo abbado ti basti la sua carmen o se vuoi l’elektra di salonen sulla quale abbiamo lungamente disputato e inutile ripetere. Gli altri hanno un tale limitato repertorio operistico che non entro nel merito. Sotto sotto però la gola del lupo di Furtwangler è più descritta di quella di Kleiber junior, ma è logico quella cultura profondamente romantica apparteneva al primo non al secondo direttore.
Il tutto a tuo gusto, naturalmente e legittimamente, atteso che il “colore” non è condicio sine qua non d’una direzione operistica o sinfonica: personalmente in un’interpretazione musicale (sia essa canora o direttoriale) ricerco personalità e comunicazione di una certa idea, non conferma a gusti o – PEGGIO – ricopiatura di modalità appartenenti ad altri, poiché non c’è nulla di più inutile di un’eterna fotocopia di una tradizione pur gloriosa (ma passata). Contesto però con forza ciò che scrivi di Kleiber Jr, ben più “romantico” nell’approccio (e nel ricreare suggestioni che sanno d’antico) del grande Furt nella cui Gola del Lupo si sente tutto fuorché la favola gotica di Weber. Allo stesso modo il Rosenkavalier di Carlos Kleiber riporta OGGETTIVAMENTE all’atmosfera di Finis Austriae – con le sue malinconie e il richiamo, straussiano, al passato absburgico – molto più di altre letture. Il fatto è che non trovo corretto parlare di “capacità” o “incapacità”, semplicemente di scelte interpretative: ed è normale e giusto che oggi l’Elektra sia la sciabolata tesissima e sfuggente di Salonen e non più l’ipertrofia tardoromantica di Solti. Il mondo cambia e con esso il modo d’eseguire la musica. Tutto ciò, però, attiene solo marginalmente alla Fanciulla scaligere e alla lettura di Chailly che pecca – per quanto possa aver compreso dalla pessima trasmissione televisiva – non di “mancanza” di colore locale (neppure Mitropoulos indulgeva nel folklore), ma di tensione unitaria: la sua Fanciulla è assai poco novecentesca in questo senso e molto “vecchio stile”. Mi sembra poi una bestemmia parlare di direttori “asettici” per Jansons, Kleiber, Boulez, Salonen e tutto il meglio dell’arte direttoriale del ‘900…
Anche io sabato ero in teatro. La parte registica/scenografica mi è piaciuta molto. Sicuramente qualche dettaglio era un po’ trascurato ma nel complesso sono rimasto soddisfatto. Effettivamente il soprano non ha i centri e i gravi per cantare questa parte e in un punto del secondo atto è stata (insieme al tenore) coperta dall’orchestra. Meglio Sgura e Aronica.
Chissà cosa sarà successo tra il secondo e il terzo atto? Hanno fatto un intervallo lunghissimo, tanto da farci temere qualche defezione – è proprio il caso di dirlo – in corso d’opera. Come se questa produzione non avesse già avuto abbastanza cambi (soprano, tenore e regista)…
Concordo con la recensione pur avendo visto lo spettacolo solamente in tv. La regia mi è parsa non molto originale (forse è un bene), ben fatta e tutto sommato fedele all’opera. Chailly bravo nell’evidenziare i dettagli, ma mancava una linea unitaria dall’inizio alla fine: tutto molto curato, ma scorreva via senza dare il pathos necessario alle varie parti, senza commuovere, senza divertire, senza creare tensione.
I tre protagonisti sono stati insufficienti: lei chiaramente a disagio e piuttosto urlante (si percepiva nonostante i microfoni che la sonorità era limitata), tenore con voce ingrata e tecnica approssimativa, baritono pessimo e ingolatissimo (purtroppo l’ho ascoltato diverse volte).
Non ho capito, in tutta sincerità, se alla fine abbiano riaperto o meno questi benedetti tagli…
L’operazione in sé era interessante, regia e direzione ce l’han messa chiaramente tutta e con un buon risultato, ma servono almeno tre cantanti decenti e qui erano assenti.
Magari se la riprendono l’anno prossimo o più avanti con cast più adeguato ne verrà qualcosa di buono.
Ripeto: non si tratta della riapertura di tagli, ma il ripristino di una versione precedente ai ritocchi di orchestrazione voluti da Toscanini in sede di prove. Per quanto riguarda i “tagli” si tratta di un paio di episodi nel primo atto (le famigerate 16 battute del duetto Minnie/Johnson dell’atto II, invece, sono state aggiunte da Puccini nel ’23 quindi non fanno parte della versione tradizionale né di quella pre Toscanini). La versione eseguita alla Scala è, appunto, quella del manoscritto: ovviamente a causa dell’indisposizione della Westbroek, durante le prime tre recite i pochi brani aggiunti che coinvolgevano Minnie sono stati omessi – ma la partitura eseguita era quella pre interventi di Toscanini – ma a partire dalla trasmissione TV si è eseguito tutto come da programma. Certo si tratta di dettagli assai poco percepibili.
La westbroek non fa recite..
Grazie Duprez per il chiarimento Non era una provocazione la mia, ma semplicemente un dubbio perché tra cambi di cast, riprese saltate etc. francamente non mi era chiaro se in tv e in radio alla fine si era sentita la versione manoscritta oppure la solita oppure un misto delle due. Il dubbio c’era perché di cambi ne ho notati pochi, ma, come hai detto, sono poco percepibili. Semplicemente pensavo fossero più invasivi e consistenti i ritocchi. Stando così le cose oserei dire che si fatto un eccessivo parlare di questa benedetta versione originale.
Ma siccome è un enorme bolla d’aria più che una vera ragione culturale, la si è sinteticamente definita “edizione originale” tanto per tagliar corto. Qui ci facciamo dei gran cinema per cose di nessun valore che distraggono il pubblico dal fatto che mancano cantanti e direttori e registi per costruire degli eventi realmente dotati di contenuti. Ormai tutti parlano di edizioni originali, di prima edizione, di cavilli, di dettagli perchè all’opera manca la sostanza VOCALE E MUSICALE più in generale per resistere allo spegnimento. Poi possiamo anche fare i pedanti, ma alla fin fine il risultato non può competere in nulla con le grandi edizioni di Fanciulla. era robetta, ma presentata come chissa cosa
Giustissimo! Sottoscrivo pure le virgole Donna Giulia
Ho tenuto a precisare proprio perché è importante riportare le cose al loro vero significato: non vorrei che passasse la fola della “versione originale” come se esistesse DAVVERO una versione originale, oppure che si trattasse di “versione integrale”. Quella approntata per la Scala è qualcosa di differente: una curiosità legittima certamente, ma che non deve in alcun modo passare per edizione “autentica”, anche perché – logicamente – si dovrebbero definire non autentiche tutte le altre. Poiché la confusione regna sovrana in questi campi e in questi tempi (tempi nei quali nella presentazione della trasmissione TV della Fanciulla hanno voluto precisare che Minnie non è la fidanzata di Topolino) è meglio sgomberare ogni dubbio e chiamare le cose con il loro nome: così come è giusto specificare che le 16 battute in più del duetto dell’atto II non è che vengono tradizionalmente tagliate, ma semplicemente furono aggiunte successivamente da Puccini ed è dunque normale (e persin “filologico”) non trovarle. Non ho sentito questa Fanciulla in teatro, ma per quel che si percepiva dalla pessima ripresa RAI quel che latitava era proprio il ‘900, lo sperimentalismo e la modernità della partitura pucciniana, oltre ad un respiro unitario che, oggettivamente, non è mai appartenuto allo Chailly direttore, più a suo agio con partiture tradizionali da curare nel dettaglio.
Sì, alla fine la montagna ha partorito il solito topolino: sulla carta i ritocchi sono numerosi, ma la maggior parte di essi non è percepibile senza il diretto confronto con la partitura e un minimo di studi musicali. Ben diverso sarà il discorso della Butterfly prossima ventura, presentata nella prima redazione del 1904, quella del fiasco scaligero (di cui avremo modo di parlare e che comporta modifiche molto significative): come al solito però quello che potrebbe passare per giusta curiosità in un titolo usato e abusato viene preso a pretesto per i soliti proclami…in questo caso l’operazione viene presentata come una vera e propria “riparazione” all’affronto fatto nel 1904 a Puccini. Stucchevole!
Comunque i brani tagliati non sono affatto una novitá. Furono eseguiti per la prima volta alla Fenice in una produzione del 1981. In quella occasione la rivista “Musica Viva” ne pubblicò anche la partitura in un inserto.