Ne ha fatta di strada Jimmy Levine! Ne ha macinata di musica il ragazzino con gli occhiali di Cincinnati dalla sinagoga dove cantava il nonno al Metropolitan di New York! Nato in Ohio nel 1943 si dedicò fin da piccolo allo studio del pianoforte: supportato dalla famiglia (il padre era violinista in un’orchestra da ballo e la madre attrice), dal suo grande e precoce talento (debuttò a soli 10 anni con il Concerto per pianoforte di Mendelssohn) e dall’incontro con maestri come Rudolf Serkin e Walter Levin, entrò a 18 anni nella prestigiosa Juilliard School di New York dove si dedicò a tempo pieno alla direzione d’orchestra. Da lì in poi la carriera lo portò a calcare i podi più prestigiosi in USA e nella vecchia Europa. Da Baltimora a Cleveland (dove si perfezionò con Szell), da Philadelphia a Chicago e Boston sino al debutto al Met nel 1971 che segnò l’inizio di uno dei più longevi sodalizi artistici nella storia del teatro musicale. Il trionfo di New York fu tale che dopo esserci tornato spesso e volentieri nelle stagioni successive, nel ’76 ne assunse la carica di direttore musicale per lasciarla solo 40 anni dopo e nonostante gravi problemi di salute e una paralisi che gli impedisce di camminare: sabato scorso quando le ultime note della recita pomeridiana del Ratto dal Serraglio hanno lasciato posto all’ovazione dei quasi quattromila spettatori del “suo” Met che hanno voluto salutare con l’abbraccio di un applauso infinito e commosso l’ultima volta di Jimmy. Un addio non definitivo: Levine resterà “direttore emerito” e dirigerà ancora qualche titolo lì al Lincoln Center, ma certamente si è chiusa un’epoca. Il Met deve molto a Levine, più di quanto il direttore deve al teatro: sotto le sue cure l’orchestra ha fatto passi da gigante, tanto da potersi permettere qualsiasi repertorio (neppure ai tempi eroici di Toscanini e Mahler, Reiner e Walter, il teatro disponeva di una compagine affidabile, tanto che le testimonianze del vecchio Met lasciano sempre l’amaro in bocca per la pochezza dell’orchestra, nonostante la mano dei grandissimi direttori e i cantanti che aveva la ventura di accompagnare). Levine appartiene a quella categoria di direttori “onnivori”, dal repertorio sterminato e perfettamente a proprio agio con 3 secoli abbondanti di musica: da Bach a Schoenberg, passando per il classicismo viennese, il grande sinfonismo tedesco, l’opera italiana, Wagner, Brahms, Bruckner, Mahler… Sotto la sua bacchetta si sono esibite le maggiori voci in attività dagli anni ’70 al 2000 e i maggiori solisti. Impossibile dare conto della sua discografia, del suo smisurato repertorio e del suo impegno (ha collezionato sino ad oggi più di 2.500 serate d’opera al Met!). Levine ha dedicato tutti i suoi sforzi a promuovere le orchestre americane, ma ciò non gli ha impedito di esibirsi con una certa regolarità in Europa: Vienna, Berlino, Londra, Salisburgo, Monaco, Dresda, Bayreuth…manca quasi del tutto l’Italia dove con una certa spocchia non venne mai ritenuto “degno” di calcare il podio scaligero: certo i motivi saranno stati molti, forse mancò l’occasione, forse non si trovò l’accordo…ma è indubbio che Levine è considerato in certi ambienti con una superficialità irritante. La sua naturale esuberanza, il suo carattere estroverso, la sua gioia nel far musica sono spesso scambiati per faciloneria o effettismo: pregiudizi di un antiamericanismo spocchioso, da custodi di presunte tradizioni ed esclusive (allo stesso modo veniva giudicato Bernstein). Spiace che l’arroccamento più o meno interessato a difesa di immaginarie identità abbia impedito di ascoltare alla Scala uno dei più grandi interpreti verdiani del XX secolo. Ma ci sarà tempo per la polemica, oggi vogliamo solo unirci all’applauso al grande Jimmy, sempre sorridente e vitale anche se costretto a dirigere in sedia a rotelle, con i suoi capelli ricci un po’ più stempiati e i suoi occhiali che non riescono a trattenere la gioia contagiosa del suo sguardo.
12 pensieri su “Jimmy Levine”
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James Levine è un grande direttore ed ha molti pregi, incluso il raro dono di “costruire” e non fare terra bruciata, come molti suoi colleghi che prendono e non danno. Incredibile nella capacità di fare musica insieme a cantanti, quella che una volta si chiamava la capacità di accompagnare. Pur tutto questo non cambia che la sua personalità musicale sia fondamentalmente generica, non originale. Non lascia molto come eredità di gusto, di stile, di interpretazione. Per questo l’accostamento a Bernstein mi sembra fin troppo generoso.
Ecco, con grandissimo rispetto mi viene da dire…la routine di più alto livello!
Caro Hollander, non voglio certo dire che Levine sia tra i più grandi direttori del secolo (come si spinge il solito Isotta nella sua nuova rubrica al Fatto Quotidiano e che naturalmente non perde occasione, per elogiare il suo, di denigrare con estrema volgarità gli altri: i “fortunati” questa volta sono Boulez – definito un solfeggiatore pessimo – e Pappano), ma trovo piuttosto ingiusta l’accusa di genericità. Mi pare che sia una specie di ossessione tutta del vecchio continente, forse per protezionismo culturale, forse per snobismo, forse per diffidenza… Io credo, invece, che Levine una sua cifra personale la possieda eccome: certo il suo è un “far musica” diversissimo da come è inteso in Europa e credo proprio qui stia il punto. L’esuberanza, i contrasti accesi, il trasporto…è spesso interpretato come superficialità. Anche Bernstein fu accusato nello stesso modo: proprio per il suo essere “americano”. Ma Bernstein ebbe poi una carriera internazionale laddove Levine restò al Met per 40 anni, preferendo dedicarsi alle orchestre americane. Certo è un direttore onnivoro, dal repertorio vastissimo e senza pregiudizi o sindrome da “grande direttore”, così che ben poteva dirigere Moses und Aron e Donizetti. Ovviamente – aldilà della bravura tecnica – non tutte le pieghe di un repertorio così ampio sono pienamente riuscite, ma se si guarda indietro non si può non cogliere in Levine lo stesso atteggiamento di certi grandi direttori del passato (come Reiner o Toscanini o Walter) che si spostavano con agio in 3 secoli di musica. Forse proprio questo suona strano all’orecchio europeo, troppo abituato ad un prototipo di direttore padre padrone dell’orchestra e a mezza strada tra il genio incompreso e il filosofo nichilista… Forse l’evidente allegria di Levine non convince, perché abituati a tormenti interiori e spigolosità caratteriali. Che eredità lascia Levine? Difficile dirlo adesso, ma sicuramente lascia al Met una vera grande orchestra (orchestra che non ha MAI avuto) oltre ad un repertorio vario e solido. In USA Levine è un modello da porre a paragone – più di quanto noi possiamo pensare, abituati al nostro eurocentrismo – e credo che il suo Verdi dovrebbe essere un esempio per tutti. Alla Scala si sono sentiti i peggiori battisolfa affrontare il repertorio nazionale, e mai Levine. Questo, aldilà dei gusti, è molto grave.
Jimmy Levine non è forse un genio ma pochi direttori hanno saputo raccontare le storie come lui. Non si è mai posto problemi intellettuali ma ha sempre preso per mano lo spettatore per condurlo nel mondo delle fiabe. E l’opera è quasi sempre una fiaba; dolce, amara, tragica, comica, ma sempre una fiaba.
Mi vengono in mente alcuni esempi.
1 Idomeneo, il video con Pavarotti. Sin dall’ouverture Levine è fluido ma fiero, sa sottolineare i cambi di umore, i momenti tragici, il furore di “fuor del mar” e l’intervento del deus ex machina e l’happy end, senza crearsi troppi problemi filologici ma non facendo mai staccare gli occhi dal video e le orecchie dalla rappresentazione.
2 Don Carlo. Completo, ben cantato è narrato in modo superbo. Levine non fa proclami filologici ma mette alla prova teatrale la versione completa e ne dimostra, solo con la narrazione, l’assoluta superiorità. Provate a fare un confronto Levine – Muti. Il ricettore italiano semplicemente dirige, non racconta, annaspa e perde il bandolo della matassa. Il suo Don Carlo è incomprensibile e noioso quanto quello di Levine è chiaro e ti fa venire la voglia di andare avanti per scoprire come va a finire.
3) Tetralogia. Qui, più ancora che inelle altre opere wagneriane, la visione “favolistica” di Levine offre una prospettiva nuova e coinvolgente. Come dite? Manca la sacralità di un Knappertsbush? Per fortuna! Per una volta Wagner non fa venir voglia di invadere la Polonia.Manca il culto del suono di Karajan? Vero; in compenso abbiamo la narrazione di un mito che sembra scaturire da chi quel mito ha scoperto è fatto suo, senza fronzoli. Manca ovviamente la visione “sociale” di Boulez? Vero. Ma il “film” che dirige Levine è un altro e ha una coerenza unica.
In conclusione: se con l’opera voglio divertirmi e voglio provare passione, allora scelgo Levine su tutti. Ma l’opera non era lo spettacolo nazional popolare che, unica, univa le persone di ogni ceto? Levine, con il suo gesto entusiasta, la sua capacità di allevare e allenare l’orchestra, la capacità di sostenere anche i cantanti in condizioni non perfette non è che è il vero filologo del teatro musicale?
“Non si è mai posto problemi intellettuali ma ha sempre preso per mano lo spettatore per condurlo nel mondo delle fiabe” …ma che significa, scusa? Ma chi lo dice? A me pare che questa sia l’ennesima reiterazione del solito pregiudizio per cui Levine sarebbe un facilone e uno che mai si è posto problemi. Diresti lo stesso di Bernstein? Credo di no…eppure anche lui era accusato di non porsi problemi. Oggi quando si parla di Levine si sminuisce sempre il suo essere musicista, scambiando ANCORA, il carattere estroverso e la bonomia per superficialità. Ma perché mai dire che Levine “raccontava fiabe” o coglieva dell’opera solo l’aspetto favolistico o di mero intrattenimento? Quando ha fatto il Don Carlo (in 5 atti e recuperando alcuni brani dalla versione provata all’Opera) non ha raccontato una favoletta, ma si è posto problemi musicali e interpretativi che, ad esempio, Muti non si è mai sognato di approfondire. Così come il suo Idomeneo, o il suo Schoenberg: è una fiaba il suo Moses und Aron? Ma quando mai! E poi Levine ha diretto anche molta musica sinfonica: ha raccontato qualche favoletta con Mahler o Mozart (di cui ha inciso un’interessante integrale sinfonica)? E il suo Ring? E’ una fiaba per bimbi scemi? Ma per favore: il suo Wagner pieno di contrasti e poderoso si ispira EVIDENTEMENTE alla tradizione esecutiva americana e a certa vecchia scuola europea. Non è certo un Wagner in formato Disney…
Caro Duprez,
la distanza con Bernstein è colossale e non per l’esuberanza, che comunque è di diversa pasta (Levine non è il dionisiaco, “l’essere la musica” di Bernstein).
Bernstein, forse perché conscio del pregiudizio anti-intellettuale verso gli americani ha sempre risposto con una carica analitica (a volte anche fastidiosa), soprattutto dagli anni ’70 in poi. E al di là dell’intellettualità pura e semplice, della quale può anche non importare molto, Bernstein con la sua forza creatrice e anche distorsiva, ha cambiato il modo in cui ascoltiamo certo repertorio. O per esempio ha cambiato il modo in cui si guarda all’educazione musicale. In una parola ha un marchio, intellettuale e musicale, inconfondibile. Tristemente l’opposto di Levine, delle cui grandi qualità ho già con grandissimo rispetto parlato.
Come esempio, l’operazione su Don Carlo fatta da Levine non fu all’epoca né nuova né fatta bene: i pezzi delle prove del 1866 furono riscoperti negli anni ’60, e già eseguiti da Abbado nelle sue versioni scaligere (almeno alcuni e poi li registrò tutti in una versione enciclopedica). Per di più JL scelse di fare una versione molto mista, scegliendo à la carte da più versioni, una sorta di mix à la Pappano (autore di un altro grande pasticcio di versioni). A coronamento del tutto, fece l’opera in Italiano, inclusi quegli episodi che furono scoperti negli archivi dell’Opera di Parigi. Cosa che più falsa storicamente non si può dare, dato che questi pezzi non poterono mai essere uditi in italiano, né Verdi decise mai di riportarli in nessuna delle sue versioni italiane.
Ad ogni modo, vale solo come esempio.
Bisogna anche aggiungere che la bonomia ed estroversione di Levine sono anche caratteristiche di facciata. C’e’ un lato molto oscuro nella personalità di questo musicista, molto noto quanto taciuto.
Ad ogni modo, tutto questo e’ solo per dire che diamo a Cesare quel che è di Cesare. Le sue enormi qualità ci sono, ma non inventiamoci quelle che non ha mai avuto.
A volte Levine fa anche banda, diciamolo. E i guizzi di personalità, talora anche istrionca di Bernstein, non li ha mai posseduti. Bernsten sta in un’altra classe come direttore rispetto a Levine
in questa sede però i pettegolezzi su gusti, inclinazioni sessuali (mai nascoste almeno in parte) non trovano luogo. Per altro con riferimento alla sola storia della direzione d’orchestra chi è senza peccato scagli la prima pietra. Diciamo solo che i soprani che scaldarono il letto di Toscanini (tante!!!) sono una quisquillia per dirla con il principe de Curtis. E il nostro è uno dei tanti!
Non mi sogno neppure di paragonare Bernstein e Levine artisticamente, mi limito solo a confrontare le resistenze e i pregiudizi che hanno accompagnato – pur nella differenza – le rispettive percezioni europee
Personalmente ho sempre nutrito grande ammirazione per questo musicista. E scrivo musicista intenzionalmente, per sottolinearne la più che poliedrica personalità. Direttore di straordinario mestiere, nel senso nobilissimo del termine; studioso, attento, concertatore vigoroso e sensibile. Si parla del suo Wagner nei comenti qui sopra. Ecco: nell’ultima Tetralogia del Met, lo scarto fra in Rheingold e soprattutto la Walküre di un Levine già parecchio sofferente (in particolare magnifica la gestione musicale e drammatica di una pagina tremendissima come il lungo monologo di Wotan nel secondo atto, o l’annuncio di morte, concertato con una tale intensità da rendere sopportabile perfino Kaufmann) e il Siegfried e la Götterdämmerung di Luisi offrono parecchi spunti di riflessione.
Di nuovo personalmente, ho sempre trovato interessantissimo il suo Mahler: non è Bernstein, non è Abbado, non è Boulez… eppure ho sempre voglia di riascoltarlo. E ciò vuol ben dire qualcosa.
E poi non dimentichiamo la sua intensissima attività di pianista in formazioni da camera – purtroppo ingiustamente relegata ai soli Stati Uniti, poiché in Europa c’era da gongolare per, chessò, un Muti che salva la recita di Traviata suonando al pianoforte – cosa che, indidentalmente, potrei fare anche io – non stiamo parlando di Turandot, o di Elektra; la sua attività di accompagnatore al pianoforte (Winterreise con la Ludwig; il concerto di Salisburgo con l’insopportabile Battle, dove Levine è indiscusso protagonista; il concerto al Met con il mai troppo rimpianto Lucianone, dove Levine suona divinamente ed è sempre pronto a far passare inosservate alcune linceze ritmiche del comunque sempre grandissimo Pavarotti). E ancora: esiste un disco bellissimo che testimonia di un suo concerto, al pianoforte, con un tal Evgenij Kissin. Ecco: non credo che un Kissin sia stato convinto a suonre con Levine per motivi commerciali; né l’uno né l’altro ne avrebbero avuto bisogno.
Sono d’accordo con Duprez. Levine ha sempre sofferto di un radicato pregiudizio che ha sostanzialmente cancellato la formidabile solidità della sua preparazione musicale, la straordinaria bellezza e efficacia del suo gesto direttoriale, il suo senso del teatro, la capacità di accompagnare i cantanti senza svilire l’orchestra, alcuni suoi particolari sodalizi fruottuosi di esiti memorabili (penso, in particolare, a tutto ciò che ha fatto con Renata Scotto; ma anche all’Elektra con la Nilsson).
A volte mi sorprendo a pensare che, nella smania di trovare il genio, si perda di vista quanto sia straordinariamente raro e importante essere un grande professionista.
Non dimentichiamo quanto sono pragmatici gli statunitensi: non si regna sovrani in un teatro come il Met per decenni se non si è in grado di garantire un certo standard di qualità.
Ultima considerazione più umana che musicale: quanto è bello, commovente, vederlo, nei concertoni del Met, vederlo applaudire alla fine delle esibizioni dei “suoi” cantanti; leggergli “thank you” sulle labbra; a volte perfino mandare dei baci. Sembra incredibile che l’amore per il proprio lavoro e il rispetto e l’ammirazione per le persone con cui si lavora siano considerati, da certa critica, faciloneria, americanata, pressappochismo.
Bah. Long live Jimmy!
Condivido ogni singola parola. Aggiungo anche che, in genere, i cantanti con Levine cantano (o sembrano cantare) meglio del loro solito standard… L’unico mio grande rammarico è che per colpa di programmazioni scellerate o di direttori artistici sordi non sono mai riuscito ad ascoltarlo dal vivo (ahimè neppure a New York dove riesca ad andare solo d’estate…).
Forse non ci siamo capiti. La grandezza di Levine, condivisa con un altro grande come Colin Davis, è proprio quella di arrivare al nocciolo musicale e narrativo prendendo per mano l’ascoltatore e conducendolo dentro la storia. È superficialità questa? Non mi pare proprio nè l’ho scritto nè tanto meno l’ho pensato. Se mi consentì, da questo punto di vista supera persino Bernstein, che qualche volta deve spiegare a parole certe sue scelte (penso alle accelerazioni nel Fidelio). Levine parla con la musica, non ha bisogno di spiegarsi, gli studi li fa prima e a noi mette in mano un risultato narrativamente perfetto. In questo senso, soprattutto in opere che hanno bisogno di un interprete che sappia capire le cose al volo, oggi è senza rivali. Che sia frutto di un’intuizione straordinaria o del lavoro matto e disperatissimo, non sono in grado di dire, e meno male! Personalmente sono più interessato al risultato complessivo, che nel teatro musicale ha pochi paragoni e fa perdonare anche molti allestimenti scenici francamente banali ma che risultano quasi sempre funzionali alla narrazione musicale.
Già che ci siamo, parliamo del Levine sinfonico. Qui il discorso funziona a corrente alternata. Con i contemporanei americani e con Mahler abbiamo interpretazioni fuori dal mainstream, coraggiose e quasi sempre convincenti. Con Mozart e Beethoven sembra che qualcosa lo blocchi o lo intimorisca… Forse una risposta c’è e si chiama filarmonica di Vienna. Perché dico questo? Perché se si confrontano le esecuzioni delle due ultime sinfonie fatte a Ravinia e a Vienna ci accorgiamo che nelle prime c’è un fuoco che nelle seconde manca, sostituito da una sussiegosa routine che senti non venire dal podio ma da altrove.
E adesso una piccola chiosa… Prima della chiusa!
Quando parlo di fiaba intendo proprio un genere letterario che comprende anche Turandot, Barbablù, e poi Cenerentola, e poi… Se queste sono fiabe per bambini scemi, poveri noi e poveri i vari Busoni, Puccini, Bartok, Rossini… E se anche i miti wagneriani venissero più spesso ricondotti al loro essere originario di racconti cantati da menestrelli attorno al fuoco, forse avremmo più persone che li apprezzano. In questo sta la grandezza di Levine, nella conquista di una profonda semplicità.
Condivido le parole di Duprez e mi unisco al rammarico per il suo purtroppo necessario ritiro. Conosco solo il Levine operistico, ma il grande direttore non mi hai mai deluso e, anzi, mi ha spesso accompagnato nel primo ascolto di molte opere in cd e dvd sempre con mio gran diletto (nonostante Domingo un po’ ovunque).
La sua personalità allegra, energica e positiva mi ha sempre affascinato e me l’ha fatto apprezzare ancor più in un mondo in cui basta avere fingere un cruccio perenne e l’illuminazione divina per passare per geni.
Auguro a Levine tutto il meglio per la salute e gli anni della meritata pensione