Anche il Comunale felsineo celebra il secondo centenario del capolavoro rossiniano proponendone un nuovo allestimento. Il terzo, se la memoria non ci inganna, che passa sul palcoscenico del Bibiena nell’arco di un quindicennio scarso. Questo, in particolare, è coprodotto con la Greek National Opera di Atene, a rammentarci che la più severa delle crisi economiche non sempre induce a comportamenti in ogni senso virtuosi e prudenti.
Scorrendo i curricula degli esecutori radunati per l’occasione viene spontaneo osservare che tutti o quasi intrattengono rapporti costanti con il festival di Pesaro e con altre manifestazioni, che animano l’estate lirica sul versante dell’Adriatico. Non è quindi inesatto dire che lo spettacolo propone una fedele fotografia di quello che è, oggi come oggi, lo stato dell’arte delle esecuzioni rossiniane, o almeno di quelle che nel Rof trovano il loro contenitore ideale. Donde una serie di riflessioni.
Notiamo in primo luogo, e lo facciamo da appassionati che non hanno mai coltivato lo sterile feticcio dell’integralità a tutti i costi, che ancora nel 2016 risulta, per gli addetti ai lavori, plausibile proporre un Barbiere privo del rondò di Almaviva. Ricordiamo, anche a noi stessi, che il ripristino dell’aria in questione non è un portato della Rossini Renaissance, atteso che già Erich Leinsdorf aveva riaperto il taglio nell’edizione in studio del 1958 (quali ne fossero stati i risultati artistici è altra questione, che non interessa in questa sede). Ma senza risalire così indietro nel tempo, possiamo affermare che sono trent’anni che la consuetudine (ancora viva ai tempi di Angelo Masini) si è ristabilita ed è almeno da altrettanto tempo che studiosi ed interpreti, non ultimi quelli di area pesarese, sostengono la necessità di includere nelle moderne esecuzioni la pagina in questione, anche per rendere giustizia all’importanza drammatica del personaggio e al virtuosismo di una parte pensata per il sommo Garcia. L’omissione bolognese risulta ancora più sorprendente laddove si consideri che il prescelto Conte, René Barbera, si esibisce regolarmente a Pesaro in ruoli di primo piano e non costituisce, per giunta, l’elemento peggiore dello schieramento vocale, anche se la tendenza a gonfiare i suoni propizia stonature in zona medio alta (cavatina di sortita alle parole “quest’anima amante”) e gli acuti, benché sonori, risultano fastidiosamente nasali (chiusa della cavatina medesima, con acuto finale sulla tonica, altra consuetudine tacciata di scarsa aderenza filologica da parte degli esegeti adriatici).
Peraltro la stessa (scarsa) attenzione al testo dimostra la scelta di sforbiciare abbondantemente i recitativi (eliminando anche dalla locandina il personaggio di Ambrogio) e di eseguire nella tonalità “accomodata” di do maggiore (in luogo del previsto re) una versione de “La calunnia”, sfrondata nella sua parte conclusiva (ripetizione della frase “E il meschino calunniato”). Singolarmente, anche questo vistoso taglio ha interessato un esecutore come Luca Tittoto, che pur non brillando per vocalità immacolata o singolare profondità interpretativa ha comunque sfoggiato una voce di un certo peso (quasi torrenziale, se rapportata a quella dei suoi compagni di palcoscenico) e un’apprezzabile continenza espressiva (a dispetto dei toni grotteschi imposti da costume e pettinatura), delineando un don Basilio di solida, se non entusiasmante, tradizione. Neanche questa, invece, per il don Bartolo di Paolo Bordogna, che a ogni nuovo ascolto risulta sempre più tenorile nel timbro e sempre più in affanno nel sillabato, oltre che incline a vezzi e cacchini veramente d’antan. Questi ultimi erano il punto di forza (si fa per dire) anche della Berta di Laura Cherici, per il cui balletto (con tanto di boys) durante l’aria del sorbetto “il silenzio sia loquace”.
“Fiore all’occhiello” (così, virgolette comprese, è stata definita da un quotidiano) dell’Accademia rossiniana e di quella della Scala, Aya Wakizono, nominale mezzosoprano che ha molto, per non dire tutto, del soprano leggero non sfogato in alto, ha cantato con voce tubata e precocemente senescente, oltre che di limitato volume, con agilità sgallinacciate e acuti periclitanti fin dalla cavatina di sortita, copiosamente, ma non brillantemente, variata. Stupisce e meraviglia non la prova della cantante (analoga a quella di tante altre colleghe), bensì la benevolenza, gli esitanti distinguo e il complice silenzio di certa critica, la stessa, guarda un po’, che pochi mesi fa trovava da ridire sulla prova di un’altra Rosina, crocifissa a prescindere in quanto ritenuta la Rosina della Grisi. L’altro elemento asiatico del cast, Julian Kim, è un po’ più solido della collega, ma, come già notato in occasione di un Elisir parmigiano, la voce artificiosamente scurita e bassa di posizione impedisce quella sicurezza in alto, quello svettare sull’orchestra e quella varietà di fraseggio cui Figaro non può rinunciare.
Mediocre, e qui confessiamo la vera delusione della serata, la direzione di Carlo Tenan, che non va oltre un generico “bel suono” e non riesce a cavare dall’orchestra del Comunale l’energica precisione che sarebbe necessaria: i crescendo si sfilacciano ancor prima di iniziare, nei concertati si respira più che altro l’affanno e l’impossibilità di far andare a tempo palcoscenico e buca, le atmosfere (il languore della serenata, la vivacità delle scene di Rosina e Figaro, lo sconvolgimento del temporale) restano sulla carta. Non aiuta, in questo senso, lo spettacolo di Francesco Micheli: décor fisso (una parete con aperture praticabili e una griglia di luci al neon, che nel primo atto, variamente ruotata, fa da sfondo all’azione e nel secondo incombe sul resto della scenografia) e costumi ammiccanti al glam rock (nel primo atto) e alla musica beat (nel secondo), contenitore di un serie di gag risapute e piuttosto ordinarie, con qualche ideuzza (Rosina che si libera dalla schiavitù di Bartolo solo per finire nella gabbia, non meno dorata, del Conte) a navigare in un mare di noia e giovanilismo d’accatto. Imbarazzante.