Dopo il recital di quattro mesi fa torna alla Sala Verdi del Conservatorio Herbert Schuch, con un programma che accosta, anche in questo caso, Bach, Beethoven e Brahms. A dicembre avevamo osservato come il virtuosismo della prima parte fosse un’eccellente presentazione del pianista e preparasse adeguatamente il campo al tormentato abbandono della Sonata op. 111. In questo secondo appuntamento il programma è ancora più ambizioso: si parte dalle tempestose Ballate brahmsiane per approdare ai severi corali bachiani trascritti da Ferruccio Busoni e, dopo un breve intervallo, alla grandiosa architettura musicale, che cela infinite trappole tecniche ed espressive, delle Variazioni Diabelli. Quella che Richard Strauss ebbe a definire, con bonaria autoironia, la “musica seria tedesca” trova nel pianista romeno, tedesco di origini e formazione, un cantore di straordinaria quanto enigmatica efficacia. Le Ballate op. 10 suonano adeguatamente tempestose, ma la cura del dettaglio è sempre minuziosa, quasi maniacale, il suono prosciugato e cesellato con un’esattezza che non concede nulla all’edonismo, fiorendo per così dire direttamente dallo spartito, dai suoi silenzi inesausti, dalla tensione che esplode a tratti e subito torna a strisciare al di sotto di una superficie di ingannevole placidità. In Bach (tanto nei corali quanto nel bis proposto a fine serata) emerge una melanconia senza aggettivi che sembra richiamare Messiaen, mentre la polifonia si staglia con un rigore che fa pensare alle più ardite sperimentazioni di Webern. E proprio a un laboratorio di alchimia musicale fanno pensare queste Diabelli, con il tema principale esposto con pari vivacità e titubanza e poi pazientemente smontato e rimontato, variazione dopo variazione, sfoggiando un ventaglio dinamico, agogico e coloristico che può risultare spiazzante, ma evidenzia, onorando il carattere eterogeneo dell’opera, tutte le sue bellezze, non ultimo l’omaggio a Bach (questo sia per quanto riguarda l’opera nel suo complesso, sorta di grandiosa meditazione sulle Variazioni Golberg, sia per momenti specifici, come le variazioni 24 e 32). E il ricordo non può che andare al concerto prenatalizio, che aveva per l’appunto in un tema con variazioni (il secondo tempo della sonata op. 111) il suo fulcro e il punto di massimo interesse. È, quello di Schuch, un Beethoven sempre spiazzante, di un’energia inesausta, in cui gli ultimi echi dello stile galante si alternano con rapsodica brillantezza a presagi romantici e non solo (la variazione 22, letterale parodia mozartiana, anticipa di oltre un secolo gli esiti più consapevoli del neoclassicismo). Semplicemente, da antologia. Da antologia, purtroppo, anche la risposta del pubblico (scarso, come a dicembre) e più ancora l’assoluta ignoranza non solo della musica (sarebbe il meno), ma delle regole della convivenza civile, da parte di una buona fetta dei presenti: colpi di tosse (con risonanze stereofoniche da un capo all’altro della sala) assestati quasi sempre in coincidenza con una pausa (quasi che le pause non costituissero un momento fondamentale nella costruzione del discorso musicale), borbottii e insofferenza diffusa per la scelta del programma (ma non si vedevano le catene che legavano questi signori…) e più ancora per la scelta di eseguire, nella prima parte, Brahms e Bach senza soluzione di continuità, e infine – gemma della serata – l’auspicio, espresso a voce neppure tanto bassa, che il bis che il pianista si apprestava a concedere (la Sarabande della terza Suite inglese) “non fosse troppo lungo”. Ci sembra improbabile, per le ragioni sopra esposte, che Schuch possa a breve approdare al più prestigioso degli scenari milanesi (salvo che, come accaduto il mese scorso a Cagliari, non venga convocato all’ultimo istante per “tamponare” il forfait di un divo della tastiera). Siamo però convinti che, se mai ciò dovesse accadere, questo medesimo pubblico lo ascolterebbe con minor degnazione (se non con maggiore attenzione) ed eviterebbe di esprimersi, a fine concerto, con le seguenti parole (udite da Duprez, che era presente assieme a me e a Donzelli): “ma sì, bravo, poverino”. Pierre Boulez si era espresso sarcasticamente sulla soppressione dei teatri d’opera. Non pare, oggi come oggi, che, almeno da queste parti, le sale da concerto godano di miglior salute.
9 pensieri su “Soirée Schuch, parte seconda: un insolito Beethoven, la solita Milano.”
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Piccolo esempio sulla avvenuta Unita’ d’Italia .
Qualche anno fa il grande Schiff , dopo una straordinaria e concentratissima esecuzione delle Goldberg ( Associazione Scarlatti a Napoli ) letteralmente invei’ contro il pubblico che aveva applaudito mentre ancora risuonava nella sala l’ultimo accordo ed insistentemente chiese un bis ( dopo le Variazioni Goldberg !) .
Purtroppo il livello del pubblico è sempre più scadente: è ormai disabituato a mantenere un contegno rispettoso per il luogo, per l’artista e per la musica eseguita. Gli applausi fuori luogo sono una triste costante dei concerti sinfonici o solistici: pare che davvero non entri nella zucca della maggior parte degli ascoltatori che si applaude al termine di una sinfonia o di un concerto e non dopo il singolo movimento (così come non è detto che una sinfonia abbia sempre e comunque 4 movimenti ed un concerto 3: molti fanno il conto e scattano dopo il 4° o il 3°). Altrettanto impossibile è far capire che anche le pause sono musica e non un momento di svago dove poter liberamente (e nel modo più rumoroso possibile) espettorare. Non si contano poi le maledette suonerie dei maledetti cellulari, quasi che si debba essere sempre e comunque raggiungibili (lo stesso vale per gli odiosi schermi che illuminano a giorno). Incomprensibili sono poi le personali considerazioni circa il gradimento del concerto: cioè francamente non me ne poteva fregare di meno della noia provata dal signore alle mie spalle che ogni 10 minuti circa ci teneva a far conoscere agli astanti che si stava annoiando. La sensazione generale è di profonda ignoranza e di incapacità di concentrarsi per più di un’ora senza dar segni di sofferenza. La freddezza e il disinteresse nei confronti di Schuch e delle Diabelli o l’esuberanza ansiogena dell’applauso a sproposito per Schiff, sono facce della medesima medaglia che è l’incapacità di apprezzare la musica. L’incapacità di capirla. La forte impreparazione figlia del generale decadimento culturale del nostro paese. I pochi presenti al concerto di Schuch neppure sono stati sfiorati dalla complessità del capolavoro pianistico di Beethoven (le Diabelli sono una vera è propria summa del pensiero pianistico in generale), tanto che l’unico segno di vita intelligente (più o meno) l’han data alla Variazione 22 che declina il tema – attraverso un procedimento musicale di arditezza estrema – nel “notte e giorno faticar” dal Don Giovanni di Mozart: in quel punto un brusio si è sentito per la sala. Il giorno successivo a Schuch, nello stesso luogo si è esibito il sommo Schiff con le 6 Partite di Bach, ossia un’opera capitale nella storia della musica, offerta integralmente ad un pubblico immagino ancora disattento ed annoiato. Forse l’italiano medio che frequenta le sale da concerto, davvero si merita programmi ridotti, pezzi brevi e solisti che più che suonare recitano la parte sulla tastiera in contorcimenti degni di più alti scopi. Oppure il nome che, a prescindere dal resto, fa sempre gridare al miracolo…
Tutto vero. Non si riesce a sentire in pace la musica e pare che taluni facciano gara a chi è più bestia.
Nei teatri d’opera è forse peggio. Durante la recita di Cenerentola che ho sentito lo scorso mese a Torino, ben 2 volte ci sono stati degli idioti, imbecilli, inconsulti, incomprensbili applausi nel bel mezzo di un pezzo musicale (!), di cui è stata spezzata la continuità, cioè durante l’aria di Alidoro e nel sestetto dell’ultimo atto del nodo avviluppato. Manco ci fossero delle pause, ma solo il termine di una frase musicale compiuta.
Nelle 2 precedenti esecuzioni dell’opera cui avevo assistito ciò non era avvenuto.
Al massimo qualche tempo fa c’erano gli applausi anticipati in modo poco opportuno al momento della chiusura del sipario prima che l’orchestra cessasse o che coprivano l’orchestra al momento dell’acuto spavaldo di un tenore nel “Vittoria, vittoria” di Tosca, ma adesso le cose vanno peggio. E non si può dire che siano le nuove generazioni ad essere meno preparate, perchè fra gli applauditori folli o i fanatici del cellulare acceso con lo schermo luminoso si trovano in abbondanza soggetti che hanno ben abbondantemente superato gli anta. Forse Alzheimer precoce? O demenza senile?
Paradossalmente – fatte le debite proporzioni, trattandosi di un pubblico che dovrebbe essere poco preparato e non conscio degli usi dei concerti – ho visto un comportamento più composto e rispettoso durante dei concerti d’organo (o di altri strumenti) organizzati in chiese parrocchiali di provincia da qualche parroco musicofilo per l’edificazione non solo religiosa, ma pure musicale, dei suoi fedeli.
Poi dopo certi brani (ricordo un concerto di Cognazzo che eseguiva, fra l’altro, trascrizioni di Donizetti, fra cui la sinfonia del Don Pasquale, su uno splendido organo italiano del primo ottocento) ovviamente scoppiava l’applauso, anche se in teoria non si dovrebbe applaudire durante i concerti in chiesa. Ovviamente, a contrario, in Germania ciò non accade. O almeno non accadeva 22 o 23 anni fa, quando avevo sentito eseguire il Requiem di Mozart in una cattedrale tedesca, con i complessi della locale Kapelle del duomo (!!! qui ce lo sogniamo!!!). Ma credo che ciò capiti ancora. Le cose obbrobriose la Germania le riserva sui palcoscenici lirici, sia per certe voci sia, soprattutto, per certe regie.
Piccolo episodio accaduto non più tardi di venerdì scorso al concerto dell’Orchestra di Padova e del Veneto: in programma le musiche di scena per Pelleas et Melisande di Sibelius. All’inizio il direttore sta per attaccare, ma si blocca perché (nonostante si veda benissimo che l’orchestra è pronta) il brusio del pubblico è ancora molto forte. Inoltre, segnalo un tentativo di applauso dopo l’Intermezzo e prima della Morte di Melisande (e dire che nel programma di sala erano riportati tutti I movimenti della suite…in questo caso davvero bastava contare…e fra l’altro pare abbastanza improbabile confondere una musica gioiosa come quella dell’Intermezzo con quella tristissima che accompagna la morte di una ragazza…boh!). Ancora più spettacolare l’incidente occorso nella seconda parte: in programma la splendida Prima sinfonia di Ciaikovski. Se avete presente, poco prima che attacchi l’Allegro dell’ultimo movimento c”è un’introduzione lenta piuttosto importante, dove (come scrive sopra Duprez) le pause hanno un ruolo decisivo. Ebbene…nel bel mezzo di una di quelle pause squilla un telefonino A TUTTO VOLUME ! L’orchestra va avanti, ma il primo violoncello che in quell momento non suona, si volta e fa con la mano l’eloquente gesto del “ma che c…o…”…magari non correttissimo, ma ci stava eccome.
Sono appena tornato dal Concertgebouw dove ho ascoltato il Magnificat di Bach e la Prima di Brahms in una intensa interpretazione del troppo poco lodato Ivan Fischer . Esemplare la reazione del pubblico che sembrava non respirasse neppure, tale era il raccolto silenzio che regnava nella sala . Alla fine dei due capolavori , dopo una pausa lunghissima , i primi tiepidi applausi che sono poi diventati ” standing ovation “.
Come la Nona di Mahler che sentii qualche anno fa all’Auditorium di Milano, quando il lungo finale – sospeso in un lento spegnersi fatto di note tenute in pianissimo – è stato rovinato dai continui colpi di tosse, zip di giubbotti che si richiudevano (già il pubblico si stava rivestendo per uscire) e una borsa caduta a terra con tutto il suo carico di inutili cianfrusaglie… Uno schifo.
ADHD come sintomo del collasso culturale?
U
No: piuttosto la continua maledizione e disinteresse. Francamente chi ha definito le Diabelli come un lavoro minore e noioso (come pure ho sentito) è sintomo di grave decadenza. Ma poi è la mancanza di rispetto intollerabile
Un’altra considerazione. Ma poi, se ad uno il programma di un concerto non interessa, perchè va a sentirlo?