La parola revisionismo è da oltre mezzo secolo una brutta parola, utilizzata, a torto, solo per designare un fenomeno davvero censurabile. A distanza di cinquant’anni anche nell’opera si può utilizzare utilmente questo termine senza paura o in corretta accezione. Il primo “oggetto” della nostra revisione è Elvira Casazza (1887-1965) celebre per essere stata il mezzo soprano di Toscanini ed ancor più per una voce poderosa e contralteggiante, dedita sin dalla prima parte della carriera a ruoli dove quel tipo di voce è utilizzata in chiave realistica e comica, come accade con la Quickly di Falstaff. Il tutto perché il mezzo soprano ferrarese non sarebbe stata dotata di una solida tecnica, ma di una strepitosa natura e le parti di cosiddetta caratterista, come era già avvenuto per la Fabbri sarebbero state il “refugium peccatorum”. A questa immagine della Casazza molto ha contribuito quanto scritto da Lauri Volpi in Voci parallele:” Elvira Casazza fu una delle voci predilette da Toscanini. Azucena nel Trovatore non poteva essere che lei. Per comprendere i motivi, bisogna aver presenti i caratteri di quella voce. Il menzionato dualismo (Lauri Volpi confronta la voce della Casazza con quella di Blanco Sadun) era evidente in essa, fino a dividerla in due parti nette, in due emissioni diverse. Le due parti non si saldavano, e ne risultavano due voci: una usciva grave e rugginosa dai precordi, l’altra della cassa cranica”. Tradotto la Casazza era una cagnaccia che svaccava in basso distribuendo suonacci aperti e di petto in prima ottava, non sapeva eseguire il passaggio di registro tanto è che sopra emetteva suoni bianchi e falsettanti. Insomma il modello della peggior Barbieri, della Obraztsova che cantava con l’utero e di tanti soprani di oggi che si propongono e ci vengono propinati quali mezzo soprano. L’elenco di queste ultime comprende in pratica tutte le voci di mezzo oggi in carriera o quasi. Ma sul punto taccio.
Come taccio sul fatto che i giudizi di Lauri Volpi riferiti alle colleghe, specie quelle di voce sontuosa ed opulenta vadano presi con le pinze o meglio tenendo conto delle caratteristiche della voce di Lauri Volpi. Poi anche Lauri Volpi deve essere tenuto in alta considerazione, al di là della tara da applicare a taluni giudizi dettati dalla “umana fragilità”. La voce, rotta in due tronconi che per il tenore italiano, allievo di Cotogni e poi di sua moglie, proveniente dalla scuola di Garcia era un gravissimo difetto perché intaccava la possibilità di cantare e di legare il suono nella zona più importante della voce il centro. Cantanti di poco successive alla Casazza quali Irene Minghini Cattaneo, Maria Capuana sino alla Stignani erano ritenute grandi cantanti proprio l’omogeneità ed eguaglianza di tutti i registri.
Oggi, invece, ci tocca sentire e leggere in un testo intitolato mi pare “l’ermafrodite armonica” l’esatto contrario ovvero che la voce di mezzo soprano o più in generale la voce grave femminile deve essere rotta in due tronconi, emesso il primo di petto ed il secondo di testa. Dubito che chi scrive sappia cosa sia un suono di petto o peggio ancora sappia discernere la differenza fra un suono di petto ed un suono ingolato e privo di sostegno, che può suonare cavernoso o rugginoso per utilizzare la terminologia di Lauri Volpi, ma di questa facezia rimando ogni ulteriore riscontro e ritorno ad Elvira Casazza, ingiustamente accusata.
Mi permetto di ricordare che Madga Olivero, che fu la damigella in una produzione dell’Incoronazione di Poppea, dove la Casazza cantava Arnalta ebbe a dire che voci di quel genere non si sentono più e riporto alcune registrazioni di recente pubblicate per fare appunto un po’ di revisionismo.
La prima registrazione è la scena Amneris Radames con Ettore Bergamaschi, registrazione del 1923-1924.
Tutti sanno che la principessa egizia è parte di mezzo soprano acuto, che impone facilità in zona acuta e squillo. Ora la salita al la nat nella frase “ah tu dei vivere” senza avere l’insuperato squillo della Stignani o della Minghini Cattaneo è sicura e sonora. Non per nulla una delle parti in cui la Casazza ebbe grande fama proprio in Scala fu Ortruda del Lohengrin, noto “condominio” fra soprani e mezzi ed ancora negli anni ’30 la cantante ebbe occasione di scrivere che non abbassava l’invocazione agli dei inferi. Quando canta Azucena sia nel racconto dell’uccisione del figlio che nel precedente “stride la vampa” la cantante non brillerà per eleganza e raffinatezza, ma è assolutamente sobria nella discesa nella zona grave della voce non si rinviene alcuna delle caratteristiche negative della cantanti di impostazione e gusto verista. Si sente invece, nonostante la registrazione primordiale, che penalizzava voci ricche di armonici e vibrazioni che la cantante nel cantabile non eccede neppure nei suoni di petto, che sono molto più contenuti e misurati rispetto a quelli di cantanti coeve o di poco precedenti come Giuseppina Zinetti o Armida Parsi Pettinella.
E lo stesso accade nella scena del quarto atto “ai nostri monti” dove la scrittura centrale, la situazione scenica sono risolte con suoni rotondi, morbidi e raccolti, che per nulla evocano cadute di gusto o peggio ancora il cosiddetto scalino, oggi a torto celebrata peculiarità delle voci gravi femminili. Preciso che la Casazza incise due volte la scena del carcere: con Ettore Bergamaschi nel 1924 e con Bernardo de Muro nel 1917. Il metodo di registrazione, forse migliorato nel breve lasso di tempo, rende giustizia alla Casazza ed alla straordinarietà del mezzo opulento in basso svettante in alto.
Basta sentire nel primo duetto Manrico-Azucena inciso con De Muro la frasetta “son io che parlo a te” dove il cattivo gusto la fa da padrone per rendersi conto del reale gusto (e del reale controllo tecnico) della cantante, ben diverso dalla fama e dalla vulgata.
Fama e vulgata che il racconto di Santuzza dove la cantante, oltre tutto alle prese con un tessitura acuta, è controllata sotto il profilo interpretativo e misuratissima come vocalista scendono con un suono esemplare al mi “di io piango”, generalmente luogo prediletto per le più becere trombonate veriste, trattandosi di una nota scomoda.