Ed alla fine abbiamo assistito a questa produzione scaligera di La cena delle beffe, che qui più che altrove ancor prima della recensione vera e propria aveva suscitato interesse ed interessante polemica. L’abbiamo vista in palco con il solito gradito up grade che la dice lunga sul reale interesse del pubblico per questi titoli. E qui una prima chiosa ovvero evitarli se non si disponga di autentici ed assoluti fuori classe del canto e della recitazione. Alla prima scaligera nel 1924 si chiamavano Lazaro, Melis e Franci e solo con calibri simili si giustifica la ripresa del titolo. E aggiungiamo la necessità di una grande bacchetta. Qui alla Scala non c’era nulla di ciò che autore e spartito richiedono perché Carlo Rizzi ha condotto senza svarioni e senza perderla l’orchestra della Scala il cui suono se non sopraffino è stato almeno professionale. Questo, però, non basta perché la sonorità, l’intensità ed il colore è lo stesso che si tratti della descrizione della sete di vendetta di Giannetto Malespini verso Neri Chiaramentesi piuttosto che l’accompagnamento delle scene erotiche riservate a Ginevra. E’ pur vero che sul palcoscenico la sufficienza non è sempre raggiunta perché la Lewis, salvo quattro primi acuti sparati nell’incontro finale con Neri, non possiede né il timbro caldo e sensuale né tanto meno la chiarezza di dizione che sono irrinunciabili per la parte. Per capire come debba cantare Ginevra basta sentire i reperti della già ritirata Francis Alda. Neri Chiaramantesi affidato a Nicola Alaimo che del baritono truce da opera verista (per intenderci Franci, Viglione Borghese e il Mac Neil della seconda parte di carriera) non ha ampiezza, prosopopea vocale e neppure finezza di fraseggio, quando Neri si finge pazzo su consiglio di Lisabetta mostra volume limitato e pari ossia limitate intenzioni interpretative perché interpretare questi ruoli presuppone uno strumento vocale importante. Si può discutere se la prestazione vocale di Alaimo sia migliore di quella di Marco Berti, che da tempo ha rapporti conflittuali con il canto legato, la capacità di colorire il fraseggio e l’intonazione. Il primo problema applicato a Giannetto Malespini può anche non essere grave, ma la assoluta piattezza dell’interprete e la difficoltà di intonazione nella scrittura vocale massacrante e verista nel senso più negativo del termine sono gravi handicap.
E poi la parte visiva affidata a M. Martone, con le scene di M. Palli, di cui si è tanto discusso nel post di qualche giorno fa.
Vista e meditata l’opera, e soprattutto rimeditata la questione dell’ambientazione, mi pare che si possano aggiungere alcuni elementi al dibattito che si è svolto sin qui.
Martone ha voluto una trasposizione della Cena agli anni ’20, apertamente ispirata al C’era una volta in America di S. Leone ( la scena del ristorante coi pilastrini di ghisa, assai simile al retrolocale ove la giovane protagonista del film danza una lentissima versione jazz di Amapola ….), la scena su due livelli, come nell’immortale Bohéme di Zeffirelli, o forse più semplicemente, nel dittico verista ultimo scorso di Salzburg, tanto per non andar troppo lontani, i costumi alla De Filippo, un po’ di verismo iperrealista nella protagonista in pose esplicite con Giannetto e con Neri, ed un finale da colpo di scena, cioè la strage compiuta da Lisabetta con una bella sventagliata di mitra, contraria alla scrittura ed all’dea stessa di Benelli, ma che così giustifica l’ambientazione tra i gangster. Un bel colpo di gran cassa finale fa teatro e successo! Così è la produzione del furbo Martone, che funziona certamente, ma nulla di speciale contiene, soprattutto nessuna domanda risolve sul perché l’ambientazione scelta da Benelli sia il Rinascimento fiorentino del Magnifico. Martone sa farsi applaudire, perché sa ammiccare senza disgusto a ciò che il pubblico conosce e già ama, e questo basta ai ventriloqui del teatro per inneggiare.
Personalmente posso accettare il regista ma non il ventriloquo, perché il principio che occorre modernizzare ad ogni costo e che occorra farlo per forza col cinema, si fonda solo sul fatto che il regista quello ha fatto, mentre, al contrario, l’affermazione non possiede alcuna ontologia, anzi ! La riproposta scaligera, invece, ci ha imposto proprio di interrogarci sul significato di questo Rinascimento, che non per caso è quello dell’ultima stagione prima del tramonto dell’età aurea di Firenze, quello del senso del tempo trascorrente e del domani che non ha certezza, come poetava il magnifico Lorenzo. Appartiene proprio al mondo fiorentino di Benelli e del Modernismo toscano, quello di Galileo Chini e del ridondante Coppedè, la conoscenza e la trasfigurazione anche di quel preciso Rinascimento, quello dell’estetizzante Botticelli, con le sue dee bellissime e sensuali, la ricchezza dei tessuti e dei panneggi, delle ambientazioni, della lussureggiante natura su cui il Floreale fondava la propria estetica linearista nella produzione anche degli oggetti che riccamente ornavano le case dei moderni esteti come Benelli. Il Rinascimento dello scrittore è un fondale teatrale che appartiene al quel breve lasso di tempo in cui l’architettura tardo eclettica si trasforma in Liberty, come nelle architetture decorate o nelle ceramiche policrome di Chini oppure in un’opera ornamentale o di illustrazione di Aristide Sartorio.
Il nostro Modernismo è profondamente innestato nella cultura rinascimentale, baricentro della formazione artistica di intere generazioni, divenuto, ad inizio secolo, un altro dei tanti esotismi capaci alimentare la creazione artistica, da quelli geografici come il giapponismo a quelli cronologici eredità dal background ottocentesco eclettico e che possiamo ancora oggi “visitare” nelle pagine dell’Arte italiana decorativa e industriale. Benelli e Giordano oscillano tra il verismo in senso stretto della vicenda, quello di una storia quasi grottesca che sfocia nel delitto, vero acme drammaturgico della vicenda ( e non la strage finale innestata da Martone e che nulla c’entra ) e l’ambientazione della Firenze del Magnifico trasfigurata dall’estetica déco, forse addirittura venata di simbolismo. I personaggi sono crudi, realistici e la vicenda a tinte forti: il dramma vive di questa tensione contraddittoria tra la loro vicenda e le suggestioni innescate dell’ambientazione, che non può essere considerata casuale o marginale nell’impianto generale dell’opera. In questa ottica anche i personaggi si trovano ad oscillare tra la vicenda e l’ambientazione, in particolare Ginevra, dal nome non casuale, donna bellissima come le Veneri quattrocentesche ma corrotta come la donna di strada, tanto per esemplificare…Si potrebbe continuare a seguire col pensiero le mille eterogenee, talora contraddittorie suggestioni di Benelli, del suo tempo e dei suoi contemporanei, non per caso riuniti in quella toscanissima Torre del Lago di inizio secolo ( G. Puccini, ma anche il Nomellini appena reduce proprio dalla sua fase maggiormente influenzata dalla pittura rinascimentale, il D’Annunzio ispiratore del linguaggio ricercato di Benelli etc etc ) per dimostrare che forse la scelta di Martone e della Palli è stata solo quella della prima osteria, ossia della routine che tanto basta se ben gestita, ma che di quanto è contenuto nella Cena delle beffe ci hanno restituito ben poco fuor dal solito deja vùe teatrale corrente oggi, limitandone dunque la comprensione al pubblico. Tutta l’opera musicale di questo periodo è profondamente connessa con il lato visuale della rappresentazione, una concezione d’opera d’arte totale sempre presente nel verismo, in cui si fondono scenografia ma anche pittura, grafica, teatro di prosa, costume etc etc. Tutte componenti ben note alla tradizione del teatro ma che i ventriloqui oggi improvvisamente dimenticano per strombazzare la traslazione temporale dell’opera solo perché Martone così ha gestito l’operazione. Dimenticano o non sanno costoro che Benelli non ha messo in scena una Firenze oleografica storicista, ma un‘altra, figlia del SUO tempo e del suo modo di guardare il passato PER il presente, assai più complessa e suggestiva della prima e che deve essere colta e restituita, se si vuole parlare di operazioni di natura culturale. Per questo non possiamo accettare siffatte asserzioni, degne del cestino chiamato “Marketting”, contrarie al tentativo di riscoperta della musica verista che la Scala ha voluto mettere in campo.
Ora vi propongo una Francis Alda già ritirata nel monologo di Ginevra perchè possiate confrontare ciò che abbiamo udito in teatro e ciò che andrebbe eseguito….e qui non c’è slogan che tenga!
23 pensieri su “La cena delle beffe alla Scala”
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Eccellente recensione che condivido per la gran parte. Indubbiamente, senza andare ai fasti ineguagliati di Lazaro & C. , l’interpretazione Dessì Cupido Zancanaro Bartoletti mi parve molto più convincente: la reazione del pubblico fu infatti ben più calorosa che non quella di questi giorni alla Scala. Anch’io giudico negativamente la regia : trovo tra l’altro che l’ambientazione in quella sorta di (già visto) spaccato di edificio, con più piani e più stanze a ingolfare la scena, sia di un realismo banale e asfissiante, opprimente, brutto da vedere e simile a un plastico di quelli ostentati da Bruno Vespa quando si picca di cronaca nera. E in effetti sembrava voler incoraggiare il medesimo spicciolo voyeurismo. L’impressionante finale – uno dei momenti più alti dell’opera e di tutto Giordano – viene massacrata da Martone, che rinuncia al registro cupo, raggelato, rarefatto, essenziale imposto dall’autore per stravolgere atmosfera, trama, significato ed efficacia con l’irruzione di Lisabetta e sue complici che mitragliano, con disturbante fragore,, facendo una carneficina. Quando si dice fraintendere e tradire il testo: imperdonabile. L’ennesima dimostrazione di come, di norma, i registi d’opera siano dotati – e notevolmente – di minor talento e intelligenza drammaturgica degli autori. Trovo poi che l’orchestra non abbia suonato male: l’interpretazione è stata però anodina, in particolar modo nelle pagine che richiedevano quella sensualità morbosa e amorale che è una cifra distintiva dell’opera. Infine vorrei aggiungere che il particolare tipo di canto, specie quello esasperato e quasi impossibile di Giannetto ma non solo, sia un lampante esempio di quanto intendesse Fedele D’Amico per canto verista come Urschrei all’italiana, sottintendendo dunque – in modi assolutamente propri e originali – una qualche parentela con l’espressionismo.
Sì perché Lisetta più che un personaggio è un simbolo, purezza e dolcezza….non può essere una.mafiosa che mitraglia…..tutto è gratuito in Martone, figlio non di un vero pensiero sul testo ma un collage di cose che possono essere gradite e suscitare l’applauso. Non offende il pubblico ma non ti da nulla, non rende i ontenuti del testo
Inoltre il finale che vede Neri uscire barcollando lentamente dalla camera di Ginevra con in mano il mantello rosso del fratello che ha appena ucciso e Giannetto che ne scruta raggelato i movimenti ( un epilogo ” cupo e autodistruttivo”, come è stato giustamente osservato ) è condotto da Giordano magistralmente, con strumenti misurati ed efficacissimi: l’intervento del clarinetto su tappeto di archi suggella splendidamente la scena. Qui è la musica crea la sceneggiatura: come se l’inquadratura venisse concentrata sui due personaggi, il contrasto delle loro espressioni: l’una vaneggiante e persa nella follia, l’altra pervasa da un febbrile timore. L’irruzione di Lisabetta e socie coi mitra, la sparatoria e la strage devasta irreparabilmente quel mirabile equilibrio.
Esatto…..dai diciamolo, o non hanno avuto la preparazione o non ci hanno lavorato…e han fatto una cosa che non dice nulla.
Chissà se Perry Perry se ne è accorto
Ho riascoltato la registrazione,musica molto mediocre,oltre ai cantanti ,specie le voci maschili che devono cantare in quel modo…
Premessa: ho sempre trovato il testo di Benelli e il film di Blasetti francamente divertenti; non penso siano capolavori, tuttavia mi divertono molto e proprio perché eccessivi, senza misura. Non si può vivere di sola ambrosia…
Non conoscevo l’opera di Giordano e l’ho ascoltata nella versione De Fabritiis/Annaloro/Franzoni/Colzani. Devo dire che non la trovo un’opera bellissima, come Gianmario; di sicuro, però, un’opera di grande interesse, con momenti efficacissimi (concordo in pieno con Gianmario riguardo al finale). Certo, la vocalità è asperrima e se bene fa Donna Giulia a ricordare i primi interpreti, meglio ancora fa Gianmario a ricordare l’allestimento diretto da Bartoletti. Perché? Perché sia quell’allestimento, sia la versione ascoltata da me stanno a dimostrare che, in presenza di professionisti, anche un’opera non bellissima e di certo impervia può comunque regalare un ascolto, per me, molto piacevole. Né Colzani né Zancanaro sono Franci: ma entrambi cantavano bene e cantavano sempre, con acuti bene emessi e una gestione del passaggio tale da permettere loro di fraseggiare in zona scomoda e dar senso al testo. Annaloro, poi, è una vera sorpresa: viene a capo della parte forse più impervia dell’opera non solo con acuti sempre centrati e squillanti, ma anche con belle mezze tinte, sfumature, dizione insinuante (ho ascoltato intenzionalmente senza libretto e non ho perso una sillaba!). De Fabritiis dimostra che un concertatore di mestiere sa servire anche una partitura per mio gusto discontinua, garantendo un esito di qualità. Posso solo immaginare cosa sia riuscito a fare un musicista grandissimo come Bartoletti. E cosa abbia invece fatto Rizzi, di cui ho avuto la sventura di ascoltare la tremendissima Traviata salisburghese (correre! correre!).
Insomma, la morale è la solita: in presenza di professionisti si può mettere in scena qualsiasi cosa, facendo anche scoprire all’ascoltatore che, come me, non è molto orientato verso questo repertorio, che in ogni caso c’è sempre musica da ascoltare.
Infine, mi accodo a chi auspicherebbe maggiore varietà nei cartelloni: non solo il verismo italiano, ma anche il repertorio russo (sembra che esista solo Boris – amatissimo in tutte le versioni, eh – e poco altro); certo romanticismo tedesco; più Britten, chessò magari Mercadante, Pacini… E non mi pare che qualcuno abbia invocato una ripresa di “Palla de’ Mozzi” di De Sabata (che io, comunque, correrei a sentire).
Buona giornata a tutti.
Naturalmente “Frazzoni”, non “Franzoni”… la politica ammorba…
Piccolo errore veniale: “Palla de’ Mozzi” è di Marinuzzi. De Sabata ha scritto “il macigno”
Che poi intitolare due opere “Palla” e “Macigno” non è che inviti all’ascolto…
Oh, ma certo! Marinuzzi. Ho fatto una piccola confusione di grandissime bacchette. Grazie per la segnalazione.
de sabata dalla ripresa di palla de mozzi ne uscirebbe male. Temo. De Sabata direttore sommo, ma il compositore…… e lo stesso temo per altri a partire da Mancinelli per seguire con Panizza e Marinuzzi
Ho ascoltato Jacquerie di Marinuzzi e alcuni poemi sinfonici di De Sabata (Juventus, La notte di Platon e Gethsemani)…e la loro modestia mi fa concordare pienamente con Domenico…
Incuriosito ho sentito stasera Juventus su Youtube. Senza essere un pezzo memorabile non mi pare peggiore di molta musica che si sente spesso nelle nostre sale da concerto. Piuttosto sarebbe interessante che qualcuno ripigliasse fuori il balletto di De Sabata Le mille ed una notte di cui avevo letto un gran bene, senza aver mai sentito nulla (vedo che sul tubo ce ne è una suite). Dovrebbe essere interessante la storia con il monaca orientale a New York (così almeno mi pare); potrebbe essere una cosa diversa dal solito per le programmazione dei nostri teatri in materia di balletto (o i soliti classici o delle cose moderne spesso da dimenticare).
In ogni caso speriamo si eseguia in suon festivo ed alla grande Juventus il prossimo 15 maggio (ma questa è una notazione più calcistica che musicale…..).
Una ripresa di Palla de’ Mozzi sarebbe davvero una grande notizia: correrei subito a sentirla anch’io ( ma dovremmo comunque sperare nella clemenza del regista… ).
su una cosa concordo in pieno con lontano dal mondo ovvero ERANO PROFESSIONISTI. Oggi questo sapere che comincia dal capire cosa chiedere e cosa non chiedere ad un cantante o ad una compagine orchestrale sino al dove si fanno i trasporti per la Rosina soprano o dove si abbassa il duetto finale id Chenier è completamente perso. eppure ci sono fior di testimonianze che ci dicono almeno in parte come e cosa fare. Ma per gli pseudo divi della bacchetta è più facile storcere il naso al nome di de Fabritiis o di Molinari Pradelli sino agli sguardi d’orrore a quello di Serafin che provare a imitare il loro mestiere
Karajan stimava Serafin. Lo si legge – me lo ricordo bene – nel libro “Conversazioni con Karajan” di cui non ricordo l’autore e che al momento non riesco a trovare nella mia biblioteca. E Karajan era uno che di direzione qualcosa capiva. Ma credo che lo stesso pensasse Richard Strauss, perchè in caso contrario non avrebbe acconsentito che Serafin dirigesse la prima italiana del “Cavaliere della rosa”, opera tutt’altro che facile per il maestro concertatore e direttore d’orchestra. Su questi maestri poi consiglio la lettura dei simpatici aneddoti e giudizi di Enzo Dara nel suo primo libro “Anche il buffo nel suo piccolo”.
Ho avuto modo di ascoltare questa famigerata Cena delle Beffe seguendo il così tanto disprezzato libretto.
L’opera non mi è parsa un capolavoro, ma è interessante e ci sono diversi bei momenti di musica, specie il finale, ma non solo. Ovviamente dovrò riascoltarla, ma il primo approccio è stato positivo e la voglia di risentirla c’è.
Sul libretto, sarà certamente un mio limite, ma non ci ho trovato nulla di scandaloso, anzi, è un onesto prodotto adatto linguisticamente alla trama grottesca sempre in bilico tra scherno e dramma truculento. Tra l’altro tutte queste affinità con D’Annunzio non le trovo… Il Vate come drammaturgo era ben altro. Probabilmente sono pochi ad apprezzare certa estetica italiana fine ‘800 e primi del ‘900 e mi sta bene, ma almeno un po’ di rispetto se lo meritano questi autori e questi musicisti. Magari leggere e ascoltare di più scordando certi pregiudizi e stereotipo farebbe persino cambiare idea a molti.
Devo concordare con lontanodalmondo sull’edizione di De Fabritiis che è quella che ho ascoltato anch’io: direzione precisa e al servizio della musica, cantanti davvero bravi nelle rispettive parti, specie gli uomini. Oggi questi ruoli sono ritenuti incantabili, eppure i professionisti di un tempo (neanche troppo lontano) vincono a mani basse e ne escono assai bene. Discorso detto e ridetto, ma eccone l’ennesima conferma.
Scordare i pregiudizi, leggere e ascoltare di più. Ninia92 – che se ho ben capito è di giovane età – ha dato ottimi e saggi consigli ( fortunatamente qui il tasso di luoghi comuni intorno al cosiddetto “verismo ” è significativamente più basso che altrove ). Vorrei aggiungere qualcosa rispetto alla drammaturgia della Cena delle Beffe. Il personaggio di Giannetto è a mio parere di grande interesse e con forti tratti di novità. Un tenore protagonista che nulla ha a che vedere con i tenori romantici e anche “veristi” della tradizione italiana. Un personaggio memorabile : pavido, crudele, audace e perverso allo stesso tempo. La paura che lo assale va ad accrescere la propria eccitazione erotica. E anche Ginevra ha tratti notevoli: fosse stata un eroina ottocentesca una volta saputo di essere stata posseduta da Giannetto in virtù di un sotterfugio avrebbe deciso o di ucciderlo o suicidarsi. Dimostra invece di gradire e anche che siamo ormai lontani anni luce dall’ethos romantico. Concordo con lontanodalmondo: testo divertente, eccessivo e godibilissimo ( non è un caso che abbia interessato Carmelo Bene ). Nel programma di sala scaligero Antonio Rostagno, studioso valente, scrive un saggio di ammirevole erudizione e grande interesse . Tra le altre cose sostiene però una tesi che non mi trova d’accordo: la Cena delle Beffe, scrive Rostagno, contiene pagine di musica “bella e anche bellissima” ma è opera che ha il torto di proporre una drammaturgia in cui ancora c’è una storia con un inizio e una fine, ci sono personaggi con caratteri definiti. Non c’è l’antiteatro, come ad esempio nelle Sette Canzoni di Malipiero. Io credo che l’antiteatro abbia portato a poco ( Berg o Britten, per fare due esempi vincenti, non lo praticavano di certo ): merito di Giordano è stato quello di riuscire ancora a raccontare una storia però con tratti – soprattutto il taglio cinematografico imposto dalla serrata costruzione musicale – tutt’altro che legati al passato.
Bellissima, argomentata recensione Giulia. Mi piacerebbe avere delucidazioni rispetto ai ventriloqui. Sono curioso. Sono, infatti, convinto che il problema dell’Opera sia proprio annidato nel cuore degli addetti e del pubblico più ‘acculturato’. Il pubblico occasionale, generalista è innocente. Quello sedicente colto no: evidentemente cultura, anni di ascolto, militanza teatrale eccetera non bastano. L’Opera necessita di una profonda, selvaggia, entusiastica felicità interiore. Difficile? Basterebbe un po’ di umiltà invece che la solita cornucopia di ottusa arroganza. Settimana prossima vedrò lo ‘spettacolo’. Saluti.
Cosa vuoi che ti risponda??…..basta leggere la cronologia dei premiati e dei premiandi del premio Abbiati. …la storia della fine di tutto un sistema su cui la musica che ci interessa si fondava.
Reduce dalla recita di domenica di questo discusso spettacolo, posso aggiungere poco a quanto già scritto. Nessuna suggestione quattrocentesca c’è nella partitura di Giordano e quindi non ho trovato particolari attriti tra il testo e l’ambientazione anni ’20 voluta dal regista. Martone confeziona uno spettacolo di buon artigianato, la parte visiva non disturba lo spettacolo scorre curato, funzionale e basta a se stesso, ma anche non aggiunge nulla, non emoziona, non sorprende mai. Non è una rilettura del testo e forse non è neanche una lettura molto approfondita del testo, se così fosse il regista avrebbe evitato la sciocchezza che vede Lisabetta farsi capoclan in sostituzione del suo uomo e sterminare tutti sul finale, rovinando per altro uno dei momenti musicali migliori dell’opera. A mio parere l’esecuzione musicale ha avuto i suoi momenti più deboli proprio nella protagonista e nella direzione. La Lewis canta con un suono indietro e ovattato (sarei curioso di sentirla dal vivo in parti di ben altro impegno vocale, vedo dalla sua biografia che canta spesso Aida e Leonora…) mentre trovo che Rizzi abbia computato a dovere la partitura ma senza un fraseggio vero, uno slancio che potesse vivificare una partitura che stenta sempre di prendere il volo anche nei momenti in cui la scrittura si fa più autenticamente tardoromantica.
Berti canta forte sempre con fraseggio e legato limitati. Canta con suoni che da proscenio magari soverchiano l’orchestra ma che spesso risultano poco gradevoli (in alcuni passaggi mi ha ricordato il Cecchele fine carriera), meglio nelle intenzioni e nella correttezza vocale Alaimo. Certo, non è MacNeil ma del cast mi è sembrato il migliore, sia da un punto di vista vocale che come interprete. Serata piacevole, teatro abbastanza pieno, pubblico attento ma mai coinvolto e che alla fine ha decretato discreti applausi apprezzando, come ho fatto io, più la possibilità di ascoltare una curiosità che la sua fattiva messa in scena…
Io in Aida l’ho sentita (per modo di dire), purtroppo! Aida inaugurale della stagione del Regio di Torino di quest’anno, a fianco di Berti (forse la si può ancora peccate in internet, sul sito del teatro c’erano – almeno qualche mese fa – le indicazioni) ed il fatto di averi sentiti tutti e 2 mi ha fatto passare ogni voglia di venire a Milano per ascoltare La cena delle beffe.
Vocina piccola piccola di quelle che in tempi più saggi cantavano Despina e non Aida (ma a quei tempi a cantar Despina c’erano fior di cantanti tipo la Sciutti).
A proposito di Aida, qualcuno ha visto i cast che si annunciano per quest’estate all’Arena di Verona. Da far paura. Mi pare si possano salvare Maestri, la D’Intino e pochissimi altri, da cui, bene o male, ci si può aspettare di udire qualcosa… ma gli altri!