Uno spettacolo di trucchetti casalinghi e illusioni (più o meno) bene orchestrate, allestito a beneficio di un pubblico distratto e turistico. Questa l’idea registica, o come si dice oggi, il concept (cui non sembra estranea una sottile ironia nei confronti del mondo dell’opera…) proposto da Pietro Babina per la Carmen al Comunale di Bologna, teatro che poco più di cinque anni fa aveva mandato in scena altro e diverso allestimento del medesimo titolo. All’esordiente (nel teatro lirico) regista va riconosciuto il merito di avere tentato una strada diversa tanto dall’oleografia quanto dalla solita ambientazione franchista e/o barricadera, ovvero quelle che sembrano, oggi come oggi, le sole strade possibile per mettere in scena il capolavoro di Bizet. A metà via tra il vaudeville e il musical, con scenografie “letterali” (le lettere dell’alfabeto costruiscono, come in un abbecedario, i diversi ambienti della vicenda), l’allestimento letteralmente rigurgita di idee (non tutte felici o perfettamente risolte, come i bambini-diavoli, le caricaturali carte da gioco, Zuniga inspiegabilmente in borghese e i contrabbandieri mutati in profughi), ma l’insieme funziona, soprattutto nell’ultimo atto, in cui l’ultimo scontro tra Carmen e Don José avviene letteralmente sotto gli occhi di tutti, come una recita (neppure così convinta e convincente) che sigilla definitivamente una passione giù morta alla fine del terzo atto, il vero congedo degli ex amanti. Archiviata la componente visiva, resta davvero poco sotto il profilo meramente musicale (viene eseguita la versione con i parlati, resi per lo più con uno spiccato accento italiano, ma i tagli di tradizione, quasi scomparsi nelle più recenti produzioni, sono tutti presenti all’appello, dalla “riduzione” dei cori alla scena che precede l’ingresso di Carmen, alla sezione centrale del duetto Micaela-Don José, alla parte finale di quello tra Don José ed Escamillo). La direzione di Frédéric Chaslin è tendenzialmente pesante e fracassona, con occasionali leggerezze parsimoniosamente dispensate solo nei momenti più prettamente opéra-comique (marcia dei bambini al primo atto, quintetto al secondo, preludio e morceau d’ensemble al terzo), nei quali però coro e, anche più spesso, orchestra non hanno la precisione e la brillantezza che sarebbe lecito attendersi in queste pagine. Del resto non è da ieri che le compagini stabili del teatro sembrano abbandonate al proprio destino, e questa Carmen non è certo la peggiore tra le loro prove recenti, anche se il coro femminile (entrata delle sigaraie) permane l’anello più debole della catena felsinea. Quanto alla compagnia di canto, provinciale è l’aggettivo che meglio può descriverla, a partire dalle prove dei comprimari fino a quelle del quartetto protagonista. Simone Alberghini (un Escamillo che la regia tratteggia come assolutamente comune nell’apparenza, ben lontana da quella del bel tenebroso idolo delle folle, e tendenzialmente vigliacco nel comportamento – tanto da fuggire letteralmente di fronte a Don Josè) non ha la cavata e, di conseguenza, l’arroganza guascona e fascinosa richiesta dalla parte, oltre ad accusare le solite difficoltà in acuto. L’unico del cast dotato di una voce notevole (almeno in un teatro bomboniera come quello felsineo), Roberto Aronica dà però prova di un registro medio-acuto usurato e sforzato, con sporadici tentativi di smorzatura (aria del fiore) che si risolvono in suoni spoggiati e d’incerta intonazione e una vera e propria “sbraiata” (per usare un termine vernacolare, adeguato all’exploit) al finale terzo. Elegante e misurata al paragone del suo don José, in effetti piuttosto inerte sotto il profilo espressivo, Veronica Simeoni si conferma, al pari della cyberdiva Joyce Di Donato e della nostrana Sonia Ganassi, non già una voce ibrida o di mezzosoprano acuto, ma un soprano lirico che, non avendo una corretta impostazione in prima ottava, esibisce suoni soffocati in basso (specialmente nella zona in cui dovrebbe cadere il primo passaggio di registro), maldestramente gonfiati al centro e per conseguenza acuti fibrosi quanto incerti. La prova sembra lasciare perplesso persino un pubblico di facile contentatura come quello bolognese: la sola habanera viene accolta da un applauso a scena aperta, mentre la séguédille e la scena delle carte passano sotto silenzio. Peraltro, se la Simeoni cantasse con un centro correttamente impostato, potrebbe affrontare Butterfly, Manon di Massenet, Margherita del Faust e del repertorio verdiano Violetta, Alice Ford, con prudenza Luisa Miller e poco altro, nonostante la vittoria conseguita, ovviamente in corda di mezzosoprano, al concorso Voci Verdiane di Busseto. E visti gli ultimi prodotti innestati dal vivaio parmigiano nei teatri del circuito internazionale (che l’innesto sia destinato a buon fine ci pare però tutto da dimostrare), stupisce e desta meraviglia come nessuno abbia ancora pensato a proporre nei ruoli che furono di una Gencer Maria Katzarava, che al pari di colleghe (inspiegabilmente) blasonate conosce solo due modalità di emissione: il pigolio (al centro) e l’urlo (appena la tessitura si alza anche solo di poco, come nell’aria del terzo atto). Le premesse per una carriera verdiana (ma anche donizettiana) a base di “sussurri e grida” paiono davvero esserci tutte.
Un pensiero su “Carmen a Bologna: venghino signori venghino!”
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Ho sentito sia la prima rappresentazione che la pomeridiana, sperimentando così i due cast: uno peggiore dell’altro. Condivido in pieno le ossrevazioni di Tamburini. Non ho invece l’ indulgenza di Tamburini per la regia e le scene, e mi associo a quella gran parte del pubblico che alla prima ha sonoramente “buato” il regista. Alla pomeridiana di sabato 27 marzo, alla comparsa del mago o prestigiatore in apertura di sipario un signore dal palco di proscenio ha commentato in modo ben udibile :” mo di bein sò, fantèsma”, richiamando un saporito anneddoto bolognese e suscitando un mormorio di risate, degno commento alle trovatine registiche. La taverna di Lilas Pastia sembrava una famosa gelateria bolognese , altro che tenebroso ritrovo di malavitosi; e via dicendo. L’ orchestra era uno strazio : chiassosa, priva di sfumature, con accompagnamenti (merito del maestro ) che ricordavano lo zum-pap-pa cui si riduceva ( a torto) il primo Verdi tanti anni fa. Dopo la Carmen castrista ( dove si richiamavano i “bastion di Siviglia”) stanto a Cuba) credevo si fosse toccato il fondo; con questa Carmen devo dire che si è cominciato a scavare.