Anni fa, al momento di annunciare la sua prima proposizione della cosiddetta trilogia Tudor di Donizetti, il Metropolitan di New York aveva espresso, neppure troppo velatamente, il desiderio di affidare le tre Regine (o aspiranti tali) d’Inghilterra alla medesima protagonista. Doveva essere, inizialmente, la divina Netrebko (all’epoca ancora digiuna delle tre e che, a oggi, ha affrontato, coi “bei” risultati che sappiamo, la sola Bolena), poi il progetto subì un prudente ridimensionamento e le sventurate protagoniste vennero ripartite fra vari soprani. Nella presente stagione il massimo teatro americano sembra inverare il progetto iniziale convocando per la première di Devereux e per la ripresa degli altri due titoli Sondra Radvanovsky. Di tutte le cantanti, che in anni recenti si sono succedute in questi ruoli sulle tavole del Met, la signora Radvanovsky risulta la più solida, o per meglio dire la meno precaria e improvvisata, anche per essere riuscita a oltrepassare (che oggi significa, molto banalmente, arrivare sino in fondo alla recita) scogli non da poco quali Ballo in maschera, Aida e Norma. Peraltro in questi stessi giorni, nel medesimo teatro, una già tristemente famosa Aida, a suo tempo in predicato per una Norma scaligera, non riesce a venire a capo di una parte di più limitate difficoltà, quale Santuzza, mentre un’altra Aida (esclusivamente virtuale) malamente si barcamena nei panni di Nedda. Il vero e più grave limite della Stuarda della Radvanovksy, al di là degli acuti gridati (una costante del soprano americano) e dei gravi malmessi con conseguenti sgangherate discese di petto (scontro con Elisabetta – e che cosa dobbiamo attenderci per il Devereux primaverile?), è il fraseggio, che in un personaggio come questo assume un peso fondamentale. Qui tutto scorre nella più totale indifferenza, all’insegna di un generico accento lamentoso (il timbro, tutt’altro che affascinante, fa il resto), indifferente alla regalità offesa come al ravvedimento della peccatrice, mentre i fremiti del pudico amore per Leicester, il rimorso per le colpe passate e lo slancio del martirio trovano la cantante ben poco propensa a così varie sollecitazioni. Solo un’esecuzione vocalmente inappuntabile potrebbe rendere sopportabile una lettura così generica, e purtroppo non è questo il caso. C’è però da dire che, rispetto ai compagni di viaggio, questa Stuarda sembra un modello di canto professionale, oltre che una vera interpretazione. Tralasciando le voci gravi maschili, intercambiabili nella loro modestia, archiviato il Leicester di Celso Albelo, che come sempre dà di naso (con i risultati che abbiamo imparato ad attenderci quanto a tenuta dell’intonazione sul passaggio superiore – duetto con Talbot e scena della condanna a morte), quella che dovrebbe essere l’antagonista, Elza van den Heever, è un soprano a malapena lirico che con voce ispessita al centro, stridula in alto, malferma in tutti i registri offre una caricatura del personaggio, nonché dell’approccio allo stesso che proponeva una cantante, ben altrimenti dotata di ferri del mestiere e senso del teatro e che al paragone risulta davvero una Grande, senza distinguo di sorta: Marisa Galvany. E proprio la Galvany proponiamo, a conforto e sostegno di chi abbia avuto, come noi, la sventura di imbattersi in questa disgraziata produzione di Stuarda, appesantita dalla bacchetta, indifferente alle ragioni del dramma come a quelle della concertazione, di Riccardo Frizza.
Donizetti – Maria Stuarda
Atto III
Vanne, indegno: t’appare sul volto – Marisa Galvany, Kenneth Riegel e J. B. Davis, dir. Charles Wilson (1972)
Buonasera,
ecco invece la signora Radvanovsky e i colleghi alle prese con le prove del finale primo della Bolena. Mai vista una professionalità simile.
https://www.youtube.com/watch?v=S07RDfzvJgk
Eh Donizetti un precursore per la discoteca…che ritmo
Sì sono sconvolto da una simile professionalità. Chi vusa püsé la vaca l’è sua.
l’ho ascoltata con cura questa stuarda e devo dire che la protagonista (che non è certo il mio soprano preferito) ha i soliti difetti di voce imbottigliata per simulare un colore di cui in natura non dispone, dizione per conseguenza pasticciata ed approssimativa (scrivevano che Giuseppina Ronzi prima Stuarda esibisse una maniacale attenzione alla parola) e gli estremi della voce in basso non ci sono ed in alto sono spinti (anche se la cantante vanta un’estensione considerevole) però almeno esibisce canto professionale, cerca di legare, esprime è vero poco salvo generico lamento, ma ALMENO è una cantante non un’improvvisata. Certo gli spartiti si preparano e si fanno propri in ben altro modo. Mi domando che cosa tirerebbe fuori con un vero preparatore e con un vero concertatore. Ovvio sono reduce dai Foscari come in campo avversario è stato già raccontato con offensivi particolari!
Sottoscrivo e penso di averlo espresso con chiarezza: la Radvanovsky è una signora cantante – e anche qualcosa di più – davanti a certi fenomeni provinciali, proposti (con protervia pari all’ignoranza testimoniata dai reclutatori e, in alcuni casi, sconsideratamente rivendicata quale diritto da parte del pubblico) su palcoscenici in ogni senso sproporzionati alle loro effettive possibilità.
E come erano ‘sti Foscari?
Ad ora di pranzo ho avuto un fugace ascolto a La barcaccia di un Doge Francesco (cioè…. Nasesco) Foscari senescente propinato da un Topone Domingo che cantava con voce da tenore ormai in tempo di pensione. terrific.
Ma se alla Scala volevano propinare un Doge Foscari con l’età anagrafica (più o mneo…) del personaggio, facendo approfonare la parte da un cantante anziano, ormai al di là dell’età migliore, fuori tempo massimo e un po’ malridotto, perchè non hanno preso Nucci che per lo meno è un vero baritono e canta tuttora con voce di baritono e non di tenore senza acuti?
Nucci già lo propinarono: con strazio dell’uditorio. Non credo avrebbe fatto figura migliore…
ma ‘terrific’ che lingua è? spero non inglese, perché significherebbe il contrario di quanto mi pare tu voglia dire.
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