Sorella radio: Cavalleria e Pagliacci da Londra.

Ruggero-LeoncavalloDopo un’arrancata siciliana, un elegante e raffinato preludio e un coro sussurrato e raffinato, forse un po’ troppo salotto umbertino bastano le prime battute del dialogo Santuzza–Mamma Lucia (Eva Maria Westbroek versus Elena Zilio) per essere davanti a suoni duri ed urla scomposte in un canto che, nonostante una certa tensione fra le due donne, è e resta di conversazione. Quando arriva compare Alfio sentiamo portamenti abusivi ed acuti duri e fissi e stonati nell’aria di compare Alfio sostenuta da un bellissimo ritmo e con l’orchestra e coro condotti e tenuti a meraviglia. “E’ Pasqua ed io son qua” fa spavento.
La voce di Santuzza è malferma e mal messa all’attacco dell’“Inneggiamo”, quando sale si sfibra diviene dura e stonata e si ha l’impressione di una furente Elettra malcantata, che non di una Santuzza disperata per amore ed onore perduti. E che il coro sia solenne nobile ed inspirato serve a poco se non a coprire, nel corso della ripresa radiofonica, gli strilli di tanto indegna protagonista femminile. E per dirla tutta il coro ricorda più la sontuosa processione del corpus Domini, ideata da San Carlo Borromeo, che non la piccola pratica devozionale d’un paesino siciliano. Al racconto abbiamo una Santuzza sgangherata vocalmente, che non dà senso alle parole; appena la scrittura accenna a salire i suoni sono bianchi e malfermi e gli acuti estremi gridati. Si intuisce il volume di chi stia gridando e forzando la voce. Inoltre l’accompagnamento da ”del suo sposo dimentica” piuttosto teso e concitato aiuta la principiante, ma non basta affatto. E che sia una dilettante basta l’attacco di “Priva dell’onor mio”. In zona grave la cantante è vuota ed afona vedi “io piango” che fa preferire le trombonata veriste e gli ostentati suoni di petto di molte Santuzze anche del recente passato. In compenso nello scontro con Turiddu un vero improvvisato del canto di nome Antonenko sbraita a pieni polmoni (ma il concertatore ha mai sentito la maschilista indifferenza di un Gigli all’incipit del duetto) e la Wesbroek si lascia anche andare a malmessi e “grattugiati” suoni di petto. L’esecuzione ed il decoro canoro, per Santuzza, sembra andare un po’ meglio dopo l’uscita di Lola anche perché tempi piuttosto sostenuti e sonorità attutite giovano.
Arrivati al duetto Alfio Santuzza i due cantanti gridano, ma non si sentono. Per essere spinti e volgari nella Cavalleria rusticana si deve disporre del mezzo strepitoso di un Guelfi, di una Obraztsova, non solo voci brade e volgari, tali solo per limiti di tecnica.
Pesante il brindisi anche perché con un cantante che dal mi acuto in su sale solo con suoni spinti e contratti in gola non si può fare molto; tralascio le urla che accolgono l’ingresso del cornuto compar Alfio.
Il punto infimo è l’addio alla madre dove Antonenko non emette un suono che sia decente. Siamo, anzi, davanti al florilegio dei suoni brutti, che possono essere ballanti se coincidenti con note di media altezza da tenere per una minima durata, ghermiti e gridati se acuti estremi, fissi e afflitti da un portamento di pessimo gusto se all’inizio della frase musicale.
Arriva poi il grido liberatore del compiuto omicidio e dell’onore ritrovato di compare Alfio. L’orchestra suona bene, ma non esplode.
Se un tenore annaspa clamorosamente nel ruolo di Turiddu è facile immaginare quello che può accadere in quello assai più complesso e sotto il profilo vocale e sotto quello interpretativo di Canio.
Men che in Cavalleria potrà operare soccorso la direzione d’orchestra e la qualità del suono levigato e preciso, sempre. Notevole anche se ad esempio il preludio suonato magnificamente manca di quella crudezza e di quel sapore di ‘900, che connotavano l’esecuzione di Harding in Scala. I berci di compare Alfio (Platanias) si trasformano nella carenza di colori e nei suoni prossimi al canto parlato (nell’attacco in piano di “un nido di memorie”) egualmente inefficaci e quando arrivano gli acuti guai in Cavalleria, guai in Pagliacci. Vedi la puntatura di “al pari di voi” sol acuto afono e spinto.
L’incipit dell’opera, ovvero l’arrivo del carrozzone dei guitti, è un poco pesante e squadrato. Il bozzetto perché di questo si tratta ha una forza ed un vigore, che in Cavalleria possono non esserci ed un direttore di limitato slancio e vigore si trova meglio nel lirismo di Cavalleria che non nel vigoroso ingresso dei commedianti. Poi arriva Canio dotato di una autentica vociaccia sgraziata, per nulla ampia e vigorosa al centro dove il focoso protagonista deve esprimersi e lo spettacolo a “ventitre ore” diviene una serie di suoni mal fermi e mal messi. E siccome la puntatura al si nat è un optional non si vede per quale motivo eseguirla per emettere un suono indegno.
Meglio il coro “Don, din don”, senza che sia particolarmente efficace l’accompagnamento della ballatella di Nedda (Carmen Giannattasio), afflitta da qualche durezza in alto e certamente carente della carnalità che il personaggio impone. Insignificante in palcoscenico ed in orchestra lo scontro con Tonio e quando arriva il duetto con Silvio (Dionysios Sourbis) questi è solenne e sussiegoso, canta bene o almeno è corretto e siccome l’elegia piace al direttore il duetto è ben condotto anche se la Giannattasio spinge un po’ in alto e grida. Peccato venialissimo, tanto che il duetto d’amore resta il momento migliore della serata perché è quello che meno mette in rilievo i limite dei cantanti e trova la miglior vena del direttore.
Finale atto deve fare i conti con un tenore che non ha vero slancio e vero ripiegamento cioè meno di un principiante e con un direttore cui gli umori veristi sono un po’ (tanto!) estranei. Anche i bagliori novecenteschi, per altro.
Intermezzo suonato splendidamente , ma quell’allucinazione ovvero quel qualche cosa di nuovo che Harding ci ha fatto sentire forse gettando nelle braccia del ‘900 il passo non ci sono. Siamo nel solco di una buona od ottima tradizione.
Lo stesso clima di precisione, ma senza nessun sinistro presagio di come andrà a finire lo spettacolo di quei poveri guitti accompagna l’inizio della recita ed anche quando entra in scena il geloso e vendicativo Canio-Pagliaccio manca qualche cosa anche se il “No, Pagliaccio” è staccato all’impazzata perché altrimenti sarebbe un guaio grosso per il tenore, che manca di scansione accento ovvero di controllo del fiato sì che arranca miseramente e tocca a stendo il si bem di “meretrice abbietta” che dovrebbe essere il culmine della tragedia prima del doppio omicidio. Anche qui dopo la frase “la commedia è finita” esplode poco in orchestra. Niente dramma, niente meridionalità niente ‘900 ed espressionismo. Ottima consolidata routine. Ovvero l’evento non c’è perché oggi per quel feticcio “l’evento” si spasima, non certo per uno spettacolo di qualità!
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12 pensieri su “Sorella radio: Cavalleria e Pagliacci da Londra.

  1. Se la Westbroek urla così tanto, cosa combinerà a maggio alla Scala? La parte di Minnie già di per sé si presta al grido (vedi passaggi come “Anch’io vorrei trovare un uomo”, “Su, su, su come le stelle”, “Addio mia California”, ecc.)… Stai a vedere che rimpiangeremo la Stemme nella produzione della Wiener Staatsoper…

    • se devo rimpiangere le minnie che ho sentito mi ricordo solo della ghena e di giovanna casolla. quanto alla prescelta scaligera sarà quel che sarà ovvero modesta perché la parte non scherza (santuzza è semplice in confronto) ma tanto le decreteranno il successo perché cavalca bene o maneggia bene le pistole

      • Non so proprio se con Carsen regista si può ipotizzare che in scena vi siano i cavalli, le miniere, i boschi della California e le pistole Colt…
        Anch’io avevo sentito, nella mia unica Fanciulla, un quarto di secolo fa (ah come passa il tempo!) la Casolla. Lei sì che sapeva cantare ed anche stare in scena. Non aveva problemi in Fanciulla, come non ne aveva nella Forza del destino in cui l’avevo sentita 2 anni prima.

        • Carsen fa cose molto particolari ma almeno con grande intelligenza (mi riferisco alla Traviata veneziana). La Casolla immagino fosse eccellente, aveva una voce proprio adatta per Minnie. Io ho sentito nel ruolo Andrea Gruber (così così) e Daniela Dessì (sicuramente fuori ruolo ma almeno molto espressiva). Non deve essere stata male Carol Neblett.

          • Giovanna quando alla Scala chiudeva il finale secondo con quest’uomo è mio che è una sorta di crisi isterica dopo la tensione della partita soverchiava l’orchestra immensa di Maazel e la Scala (che aveva riprovato la Zampieri) esplodeva. Per la cronaca si narra che Domingo non avesse voluto Giovanna…….ma la Zampieri.

          • Quando la dessi cantava minnie all opera di Roma tremavano i cristalli dei lampadari….la voce era bellissima e potente. E l allestimento di del monaco era veramente azzeccato.

  2. Donzelli, caro Donzelli, mi spiace che tu possa ancora pensare che cantanti così fatti, abbiano studiato su uno spartito, ma non ti accorgi che oramai il pubblico si è assuefatto agli strilli, ai grattamenti di gola, a tutto quello che ha sapore di “nuovo” per la vita disordinata di oggi….
    Non mi resta che dirti: se la godano tutta questa giungla.
    Hanno solo premura di arrivare in teatri che pagano bene,
    se potessero studierebbero (si fa per dire) su spartiti alla
    Bignami…..

    • Pochi non direi proprio perché la Zampieri ha pure inciso l’opera con Domingo (possiedo il CD). Sul fatto che non fosse proprio da ricordare, posso essere d’accordo perché effettivamente la sua voce è stata sempre molto intubata con acuti di una fissità impressionante (seppure con gran volume). Poi, certo, per la Lady (mi riferisco allo spettacolo fatto a Berlino con Sinopoli) poteva anche andare, se non altro suppliva con la recitazione.

  3. Antonenko in cavalleria lo ricordo come interprete di una siciliana di grande impatto e bellezza. Non ero al covent garden ne ho ascoltato la radio quindi non giudico. Certo spiace se si è scassato la voce tanto in fretta.

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