Questo pezzo prende spunto dalle recenti rappresentazioni del capolavoro di Berg a Bolzano: non è, però, la recensione dello spettacolo (che non ho visto), ma una generale riflessione su Lulu e altre “incompiute”. Il fascino dell’opera incompiuta ha sempre conquistato l’immaginario dell’uomo moderno, forse per il suo carattere aperto che esprime potenzialità infinite o forse perché dà la possibilità di entrare nella “bottega” del compositore, di confrontarsi con le sue idee e di partecipare alla loro maturazione e definizione. Di fronte alle opere incompiute vi sono due possibili atteggiamenti: lasciare intatti i moncherini contemplandoli con timore reverenziale oppure svilupparli e, dove possibile, completarli per farli rivivere. Ovviamente non tutte le incompiute sono uguali e ciascuna ha la sua storia da cui deriva, tra le altre cose, la possibilità o meno di un “completamento”. Oggi nessuno si scandalizza nell’ascoltare il Requiem di Mozart completato – con alterne fortune – da alcuni suoi allievi, nonostante quanto scritto dal compositore sia poco più di un torso sul quale hanno lavorato almeno una decina di mani tra discepoli e revisori negli ultimi due secoli. Al contrario si guarda tuttora con sospetto al completamento della Decima di Mahler o della Nona di Bruckner, nonostante – in entrambi i casi – i compositori avessero lasciato spartiti virtualmente completi o quasi e la mano dei revisori postumi sia stata infinitamente meno pesante rispetto a quanto hanno fatto con Mozart, Offenbach o Meyerbeer. Mahler oltre al celebre Adagio (quasi ultimato), lasciò due movimenti (Scherzo e Purgatorio) in gran parte orchestrati e il rimanente (Scherzo e Finale) redatti in partitura ridotta; Bruckner – dopo aver ultimato i primi tre movimenti e indicato, in caso di morte, di concludere la sinfonia col suo Te Deum – concepì interamente l’ultimo movimento, in parte orchestrato e in parte abbozzato con chiare indicazioni. Ma in entrambi i casi – proprio per il particolare modus compositivo dei due autori – le “ricostruzioni”, o meglio la redazione di versioni eseguibili, furono allo stesso tempo facili e difficili: forse per questo siamo meno disposti ad accettare il lavoro di Cooke o di Carragan rispetto ai più sciatti completamenti di Süssmayr o Guiraud. In altri casi i completamenti sono vere e proprie opere autonome per via della frammentarietà o dell’inesistenza del materiale superstite o per la traboccante creatività di chi vi ha messo mano: dai finali di Turandot all’orchestrazione di Kovancina, dal Principe Igor al Duca d’Alba. E’ chiaro che in questi casi non si tratta della redazione di una mera revisione e sistemazione di materiale esistente, ma di vera e propria opera d’ingegno e come tale libera nell’essenza, ma altrettanto liberamente sottoposta a giudizio critico. Ci sono però casi in cui il completamento è così strettamente legato all’opera principale – per motivi storici o per affinità ideale – ovvero così impossibile da realizzare, che il buon senso consiglierebbe di lasciar perdere e non esporsi al rischio del confronto con Schubert, ad esempio, o con Beethoven (li cito perché negli anni ci sono pure stati stravaganti tentativi di “ri-creazione” del Terzo e Quarto movimento dell’Incompiuta o di una Decima Sinfonia successia alla Corale…sulla scorta di poca o nulla documentazione: del resto anche il mondo dell’opera ha visto la redazione di un fantomatico Gustavo III verdiano). Tra questi vi è sicuramente il caso della Lulu di Alban Berg. Com’è noto il compositore lavorò all’opera dal 1929 sino al 1935, in un periodo di profonda frustrazione morale e fisica a causa della proibizione della sua musica da parte del regime Nazionalsocialista ed il conseguente tracollo finanziario: tra rallentamenti e pause – tra cui, nell’agosto del ’35, la composizione del Concerto per Violino – la morte colse Berg prima che potesse ultimare il Terzo atto. Ma non lasciò né un moncherino né una serie di schizzi indecifrabili: Berg, infatti, compose tutta la musica dell’ultimo atto di Lulu in partitura ridotta con chiare indicazioni sulla strumentazione definitiva per la maggior parte di essa, oltre ad alcune parti orchestrate interamente (le prime 238 misure, l’interludio strumentale tra Prima e Seconda Scena ed il finale dell’opera a partire dal monologo della Contessa Geshwitz). La vedova Berg in un primo tempo offrì a Schönberg l’incarico di completare il capolavoro del collega, ma dopo aver visto il materiale esistente ritenne il lavoro troppo impegnativo e declinò l’invito. Da allora – era il 1937 – la vedova Berg rifiutò a chiunque non solo di mettere mano al manoscritto del marito, ma pure di visionare o studiare il materiale esistente. E per 40 anni di Lulu andarono in scena i primi due atti soltanto con l’aggiunta di alcuni brani della Lulu Suite (composta nel ’34 e comprensiva di parte del materiale del Terzo atto). Ma il tempo è galantuomo e ciò che non riesce alla ragionevolezza riesce alla natura: nel 1976 Helene Berg morì e il manoscritto del Terzo atto di Lulu divenne nuovamente accessibile. Il resto è storia: il compositore austriaco Friedrich Cerha pubblicò nel 1979 l’orchestrazione del Terzo atto, fedele alle indicazioni di Berg e al suo manoscritto e lo stesso anno Pierre Boulez eseguì per la prima volta Lulu così come concepita e scritta dal compositore (la produzione, nata a Parigi, arrivò anche a Milano che, allora, non era ancora il desolante terzo mondo musicale divenuto negli ultimi 15 anni). L’opera, quindi, si riappropriava del suo ultimo atto, virtualmente completo, ma lasciato chiuso in un cassetto per più di 40 anni per motivi futili o per ignoranza e finalmente si chiudeva il triste capitolo delle Lulu in due atti. Almeno così si sperava. Infatti – nonostante il completamento – non mancarono ritorni al passato nel nome di una mal compresa idea di tradizione. Episodi isolati, battaglie di retroguardia culturale, passatismo fine a sé stesso: sicuramente, ma nulla in confronto a quanto è accaduto negli ultimi anni, in cui per ragioni che sfuggono ai più, del capolavoro di Berg si sono occupati almeno due più o meno ignoti musicisti che hanno voluto legare la propria evidente pochezza musicale all’opera di Berg, trattata come un canovaccio qualunque nella convinzione di poter mettere mano là dove la mise Cerha ignorandone tuttavia il valore, l’impegno e l’onestà intellettuale, con l’arroganza di compiere in una manciata di settimane ciò che fu il traguardo di anni di impegno ed amore. Parlo ovviamente della versione firmata da Barenboim per la Staatsoper di Berlino nel 2012 e la recente produzione di Bolzano. A Berlino andò in scena quella che, con evidente intento truffaldino, è stata presentata come “Berlin version” di Lulu, per dargli una certa qual dignità e ingannare chi, ingenuamente, potesse pensare che effettivamente esistesse una fantomatica versione berlinese dell’opera. In realtà si tratta di una nuova versione commissionata dal teatro a tale David Robert Coleman che non solo riorchestra l’intero Terzo atto in modo del tutto incoerente allo stile di Berg (con un’insistita atmosfera da bistrot parigino tanto volgare quanto stucchevole), ma pure ignora i brani orchestrati dal compositore prima di morire e taglia senza riguardo il testo, eliminando il Prologo (importantissimo per l’autore e qui sostituito con un inutile monologo recitato su brani di Kierkegaard) e la prima scena del Terzo atto: il tutto con l’intento millantato di “ripristinare le autentiche intenzioni di Berg”, come se questo Coleman disponesse della sfera di cristallo per sapere che in realtà il compositore scriveva una cosa ma in realtà voleva tutt’altro. Tant’è. Ma smaltita l’operazione berlinese di Coleman e Barenboim nella pattumiera della storia musicale, ci ha pensato Bolzano a riproporre la questione. Questa volta affidandosi a tale Eberhard Kloke, sconosciuto compositore amburghese che ha all’attivo la riorchestrazione di una sfilza di capolavori altrui (Kovancina, Boris Godunov, i Ruckert-Lieder e i Kindertoten-Lieder di Mahler, i Wesendonck-Lieder, Parsifal, il Ring, il Castello del Duca Barbablu di Bartok, La Vie Parisienne di Offenbach, Wozzeck e, appunto Lulu, nonché versioni orchestrali di sonate e brani per pianoforte di Schubert, Schumann, Liszt, Brahms) in un evidente disturbo patologico che dovrebbe essere oggetto di specifica indagine e conseguente trattamento. Kloke ovviamente non si limita a riorchestrare il Terzo atto, ma interviene pesantemente su tutta l’opera. Le ragioni? Velleità di protagonismo, arroganza smisurata, ma anche dabbenaggine di chi dà credito a certi progetti. Si dice che Bolzano ha optato per la versione di Kloke perché meno impegnativa strumentalmente (e infatti richiede un’orchestra meno densa e numerosa, semplificando molti passaggi), ma, mi chiedo, che senso ha imbarcarsi nella produzione di una Lulu se già in partenza si sa di non avere i mezzi necessari? Sarebbe come presentare una stagione dedicata al concerto per pianoforte e orchestra non avendo a disposizione un pianoforte. Assurdo! Oppure – cosa ancora più grave – si è preferito investire i fondi non sulla realizzazione musicale, ma su altri fattori, non ultima la scrittura del celebre e celebrato regista David Pountney. Non conosco l’esito delle rappresentazioni bolzanine né la qualità dell’esecuzione, per cui – viste le premesse – non nutro alcun tipo di interesse, e nulla voglio togliere alla genialità dell’uomo di teatro britannico, ma davvero era necessario sacrificare Berg per avere Pountney?
Gli ascolti:
“Lulu Suite” – Eugene Ormandy
Concerto per violino e orchestra “alla memoria di un angelo” – Seiji Ozawa/Itzach Perlman
“Lulu” – opera completa in tre atti – Pierre Boulez
grazie mille duprez di questo pezzo interessantissimo. berg è un compositore che amo molto, ma devo ammettere che nell’ascolto del suo repertorio sono stato respinto dalle difficoltà di “Lulu” già due volte… mi rimetterò d’impegno!
mi ero comunque fatto una idea precisa dell’ambiente culturale di questa opera, leggere cosa ha combinato baremboim con coleman mi fa un po’ trasecolare – a chi avrà giovato quella operazione? misteri berlinesi/baremboiniani…
Ed è un peccato perché l’esecuzione è molto bella, soprattutto dal punto di vista orchestrale. Pare che le ragioni di questo scempio derivino – guarda caso – dalle scelte della regista che ha imposto il taglio del prologo e di parte del Terzo atto: a questo punto la Universal che detiene i diritti del lavoro di Cerha non ha dato il consenso a tale operazione imponendo l’esecuzione integrale, così – per non scontentare la Breth – si è deciso di affidarsi ad un “utile idiota” che riorchestrasse il terzo atto e, a questo punto, lo affidasse alle forbici registiche. Uno schifo, lo so. Stupisce che Barenboim abbia accettato tutto questo, anche se bisognerebbe conoscere i vincoli imposti dal teatro (che, magari, avrebbe pure cacciato il direttore pur di contentare la regista).
Tutto ciò è semplicemente vergognoso. Piuttosto si sarebbe dovuto tagliare il regista. Credo che tutti siano stufi delle sopraffazioni che questi emeriti coglioni idioti imbecilli prepotenti, che Celletti paragonava a delle mosche cocchiere, si prendono sulla musica. Stavolta su Berg, la cui musica vale mille volte le loro fregnacce, altre volte su Rossini, Wagner o Puccini.
Se io vado a sentire la Lulu ci vado per la musica di Berg non per le cazzate e le masturbazioni mentali del solito registucolo teutonico di turno. Stop.
Mi ricordo che anni fa – lo avevo letto in una rivista musicale – il solito “genio” della regia, che si credeva forse un novello Felsenstein, anche se verosimilmente c’era più genio registico in un pelo di Felsenstein che in tutto lui, aveva messo come elemento fondamentale della sua regia della Clemenza di Tito un cesso, di quelli che c’erano un tempo in campagna, sì proprio un casottino di legno con dentro il water o la turca! E un altro genio aveva deciso che La cenerentola doveva essere in parte cantata in tedesco in parte in italiano, ma a casaccio, sì che nel bel mezzo di un’aria si passava da una lingua all’altra!
Secondo le buone norme un direttore d’orchestra dovrebbe avere il diritto di protestare cantanti e registi…
A parte ciò non posso che unirmi pure io agli elogi sull’articolo, veramente interessante, da cui ho appreso anche cose che non conoscevo (sulla decima di Mahler). Personalmente preferisco Wozzeck a Lulu, però non posso che inorridire pensando agli scempi perpetrati: il taglio del prologo (brano straordinario in Berg), già fondamentale in Wedekind, con il domatore che presenta gli animali del serraglio e alla fine Lulu= il serpente, così enunciando sin da subito tutto il tema della rappresentazione.
E poi che bisogno c’era di streumentare una cosa già strumentata? Inorridisco pensando alle ristrumentazioni di Parsifal e del Ring fatte da ‘sto tizio amburghese che evidentemente vuole competere con Wagner nell’arte di trattare l’orchestra. Non gli si può, piuttosto, che inviare un augurio con le parole di Alberto Sordi nei Vitelloni: Prrrrrrrrrr!
Bolzano è la capitale del niente, un paesello di zappatori di mele, che credono di essere il centro del mondo. Forse la più provinciale delle province italiane, ma colle smanie di una grande capitale. Non sorprende la scelta fatta dal teatro, affidato da quest anno alle “cure” del coglione austriaco di turno. E dire che la passata stagione avevamo assistito a un ottimo don Giovanni e a un altrettanto buono faust. Ma nossignore, bisognava cambiare tutto. Risultato? Si va a monaco alla Bayerische, dove quantomeno non sono dei provincialotti. Saluti.
Splendido post! Col mio nickname potete ben immaginare quanto io ami Berg; sentire che qualcuno ne fa scempio mi fa ribollire il sangue!
Permettetemi un fuori tema, però. Il 28 gennaio ero alla scala (il minuscolo è voluto) ho assistito allo scempio handeliano coronato da grande successo. Un’orchestra scordata (e suonavano con arco moderno impugnato alla moderna, solo senza vibrato), un direttore che altre volte ho apprezzato (non me ne vogliate) ma che non sapeva che pesci e che tempi pigliare, un soprano stonacchiante, un soprano senza fiato e che ha compitato come l’elenco del telefono una delle più belle arie di Handel, un tenore che era costantemente fuori tempo e ha addirittura sbagliato un finale d’aria e Sara Mingardo che sembrava, al confronto degli altri una rediviva Horne o Callas. Per finire… Una regia inutile, incomprensibile e pure un po’lugubre… (Ma a suo tempo considerata a Zurigo un capolavoro…mah!).
Il pubblico applaudiva (poco)…
Cambio scena: Venezia 31 gennaio: 2 operine del’900: un piccolo capolavoro – “Il segreto di Susanna” e un’opera di un musicista che quando ero giovane e in preda a i fuochi dell’avanguardia (che non rinnego) snobbavo senza ascoltare: Roberto Hazon -Agenzia Matrimoniale,
Regia geniale, fatta col niente e col genio (Bepi Morassi) Cantanti – attori in parte (e se qualche piccola manchevolezza c’è stata è stata bilanciata dalla verve di interpreti). Direttore giovane e bravo (Enrico Calesso). Risultato: pubblico divertito, attento e soddisfatto su una proposta non banale. Quando se ne accorgerà la scala?
Per continuare il discorso di cui sopra, frenando il ribrezzo causato dalla manomissione delle opere d’arte che sono le composizioni musicali, vorrei segnalare che all’opera di Lione, nell’ambito di uno dei usuali (e pretenziosissimi ed inutili) festival che da qualche tempo si tengono all’interno della stagione lirica, sempre con titoli altisonanti, sarà eseguita – dopo chissà quanto tempo di assenza dal palcoscenico lionese – un’opera di assoluta importanza storica come La juive di Halévy. Il che è cosa bella, buona e giusta e – se l’esecuzione musicale fosse decente – ci potrebbe far tappare il naso e chiudere gli occhi di fronte alla pretenziosità del festival Pour l’Humanité (http://www.opera-lyon.com/content/festival-pour-lhumanite) e forse farci sopportare persino la messa in scena di Olivier Py (che nella stesa città ambientò carmen in una caberet parigino di infimo livello con Damcairo e Remendato in calze a rete! e si guadagno la nome adi genio da parte dei critici francesci…. ma sono francesi!), ma ciò che è difficile sopportare è che l’intero spettacolo, stando al sito del teatro, duri solo (intervalli compresi) 3 ore e 20, quando La juive è notoriamente un grand-opéra di proporzioni grandiose e notevole durata. Se non erro l’edizione discografica diretta da De Almeida, pur già tagliata, è sulle 3 ore. Ora, cosa si sarà tagliato? Un grand-opèra non può sopportare troppi tagli senza essere snaturato. La sua essenza è la grandiosità, forse anche la prolissità e l’inutilità di alcuni punti messi lì solo a fini spettacolari. Se non lo si presenta per quel che è, perchè lo si mette in scena? percheè fa bello? Per far vedere che ci si ricorda di Halévy, dopo che lui e tanti altri compositori francesi del suo tipo (Meyerbeer, Auber, Boieldieu, ma anche Gounod o Massenet, di cui negli ultimi anni mi pare sia stato presentato solo il Werther, fra l’altro con una orrenda regia di Rolando Villazon) sono negletti dai programmi lionesi, dove si preferisce “fare i fighetti”, magari presentando certe terrificanti opere contemporanee in prima assoluta che nasceranno e morranno lì (mi hanno raccontato di una certa opera a dir poco terrificante rappresentata colà, mentre, invece, quando venne data L’upupa di Henze vi fu successo di critica e pubblica, ci credo, ma quello era Henze, uno che sapeva scrivere la musica!), ma dimenticandosi del repertorio nazionale o – il che forse è peggio – presentandolo in modo inadeguato, con regie “moderne” e “dissacranti”.
Lasciando perdere tale divagazione, la sostanza della domanda è sempre la sessa: perchè rappresentare La Juive tagliata? Se l’opera è troppo lunga o troppo difficile, allora non la si faccia (e lo dico a malincuore, dato che io adoro il grand-opèra). Se la si fa, la si faccia nel modo giusto, il che non significa presentarla necessariamente in modo integrale, dato che i tagli vi sono sempre statai fatti (non so quante esecuzioni integrali del capolavoro di Halévy siano state fatte negli ultimi 100 anni, penso o poche o nessuna), ma se si deve tagliare, tagliare in modo intelligente, preservando la sostanza dell’opera. Si criticavano tanto Serafin o Gavazzeni per i loro tagli, ma, a ben vedere, i tagli di Serafin in Norma sono intelligenti; purtroppo non ci sono le ripetizioni delle cabalette, ma l’opera non è snaturata. In altri casi, poi, mi pare i due suddetti maestri erano stati loro a riaprire dei tagli di tradizione su alcune opere (lo fece Serafin nella sua incisione dei Puritani con delle frasi del tenore, che Di Stefano non conosceva, non aveva voglia di studiare e che, quindi, cantò Mercuriali). Tagli fatti con l’accetta potevano andare bene quando si trattava di fare conoscere a un pubblico senza granade preparazione musicale un’opera da molto tempo sconosciuta. Non mi pare che dovremmo trovarci in queste condizioni. Tanto più che pare (ho sentito dire da altri appassionati) i tagli a Lione siano stati imposti a direttore e regista da alto loco, per contenere la durata dell’opera! Allora cosa fare se dovessero dare Il crepuscolo degli dei?
Woody Allen…citazione: “Ho fatto un corso di lettura veloce. Ho letto Guerra e Pace: parla della Russia.”
E, dello stesso, una nota battuta adatta ad un sito in cui si parla di opera: “Quando ascolto troppo Wagner mi viene voglia di invadere la Polonia”