Fritz Busch:
Arturo Toscanini:
Il confronto di oggi riguarda due grandi direttori che hanno condiviso la medesima sorte di esuli. Le vicende sono note: Arturo Toscanini, dopo il famigerato schiaffo ricevuto a Bologna per essersi rifiutato di eseguire prima di una rappresentazione teatrale, “Giovinezza” e la Marcia Reale, decise di non dirigere più in Italia e nel 1939, abbandonò l’Europa per gli Stati Uniti. Allo stesso modo Fritz Busch, allora direttore della Staatskapelle di Dresda, fu costretto ad abbandonare il podio prima di un Rigoletto nel marzo del 1933 a causa delle violente contestazioni organizzate contro di lui (amico di ebrei e oppositore di Hitler) per non risalirvi più, in Germania, costretto ad un esilio tra la Gran Bretagna, il Sudamerica e gli Stati Uniti, per l’unica “colpa” di non appoggiare il nuovo Cancelliere e di aver molte amicizie ebraiche. Come sempre le tragedie della Storia si riflettono e si intrecciano con le storie personali dei singoli: e così mentre Toscanini trovava nell’esilio statunitense un rifugio dorato (ricco di stima, successi e onori), Busch si barcamenò alla guida di compagini non proprio eccellenti tra vecchio e nuovo continente, la direzione del Festival di Glyndebourne e il suo ritorno in Germania nel 1951 con un Ballo in Maschera storico. A parte l’esilio. nulla hanno in comune i due direttori: e questo confronto ne è la dimostrazione. Lasciando da parte la mia personale disistima per Toscanini ed il disprezzo nei confronti delle sue interpretazioni, è innegabile che il direttore italiano sia ben poco “italiano” nell’esecuzione del celebre preludio di Tannhäuser: il tempo lento, la scansione metronomica, la scarsa agilità, le sonorità possenti (tutti elementi caratteristici del modus direttoriale di Toscanini: per gli estimatori i suoi pregi, per me difetti gravi), enfatizzano la compattezza del brano, l’alta retorica germanica, la visione mitica a discapito della cantabilità e della sfumatura. Un Wagner non privo di efficacia, totalmente immerso nella tradizione un po’ effettistica della vecchia scuola (quella omaggiata da Woody Allen che farebbe venir voglia di “invadere la Polonia”), ma che – a mio giudizio – procede con monotonia dall’inizio alla fine col passo cadenzato del metronomo. Tutt’altro mondo si apre con l’ascolto di Busch – anche lui opta per la versione di Dresda, senza il Baccanale e con la chiusura originale – tutto un altro respiro. Colpisce lo splendore del legato (di quel magnifico strumento che era ed è la Staatskapelle), l’estrema mobilità agogica, la morbidezza del suono e il suo pulsare continuo con libertà senza compromettere la compattezza e la coerenza del brano. E poi la cantabilità: quello di Busch è un Wagner cantato e ricchissimo di sfumature. Un Wagner che sorprende ad ogni passo, che coinvolge. Basti il confronto tra i due incipit laddove Toscanini enuncia con solennità e lentezza la prima frase, Busch sembra aprire un vecchio libro di storie. Così come la conclusione dove Toscanini dipana tutto il potenziale sonoro della sua orchestra come fosse una macchina da guerra che procede su un binario ferrato, Busch procede con lunghi crescendo, come ondate che fanno trattenere il fiato. Non si può parlare, qui, di esecuzioni giuste o sbagliate, o di errori, o di brutture – aldilà delle opinioni personali non si può negare di trovarci di fronte a due grandi direttori – tuttavia la lettura di Busch è, secondo me, un capolavoro tale da lasciar perdenti anche i più rinomati interpreti del brano (Furtwangler compreso). Buon ascolto.