Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 9 in re minore, Op. 125 “Corale”:
Christian Thielemann – Wiener Philharmoniker
Paavo Järvi – Deutsche Kammerphilharmonie Bremen
Anche il confronto di oggi – dedicato all’ultimo capolavoro sinfonico di Beethoven – vede due direttori praticamente coetanei ed in piena carriera: il tedesco Christian Thielemann e l’estone Paavo Järvi. Le affinità, tuttavia, si limitano quasi al solo dato anagrafico, poiché si tratta di musicisti diversissimi tra loro e distanti anni luce nel rapporto con la materia musicale. Thielemann è un personaggio discusso e discutibile: una specie di versione tedesca di Muti nel rifarsi alle glorie passate assumendosi l’onore e l’onere di esserne l’erede. Così come il suo collega italiano si pone come erede di Toscanini, infatti, lui viene salutato da certa stampa come reincarnazione di Furtwangler: entrambi giocano nel personaggio e si prendono sul serio nelle vesti di “custodi” delle tradizioni delle rispettive patrie. Anche nella scelta del repertorio. A rafforzare l’idea di una sorta di corrispondenza tra il figlio “del sole e dell’olio” e quello “del freddo e della sugna” – per rifarmi ad un’infelice metafora mutiana – è anche il fatto che le stesse testate che celebrano le magnifiche sorti di Muti “l’italiano”, smaccatamente “tifano” per Thielemann ogni volta che si occupano di musica tedesca. Del resto il buon Christian non fa nulla per ridimensionare questo parossismo e, anzi, ne stimola la crescita attraverso comportamenti da padre padrone di certo repertorio (da Bayreuth a Dresda sino a Salisburgo). Personalmente lo apprezzo assai poco, proprio per questo suo continuo rifarsi ad un passato riprodotto in ogni suo vezzo, come una fotocopia necessariamente sbiadita, così da rendere scontata ogni sua interpretazione in un senso di noioso deja vu. Senza contare che se devo ascoltare la riproduzione in scala di Walter preferisco rivolgermi all’originale. Certo non si ascoltano quasi mai sgradevolezze, ma – a determinati livelli – la correttezza non basta. Se poi si aggiungono pesantezze, ipertrofie sonore, dinamiche da “invasione della Polonia” allora, come Muti, diventa un direttore per nulla interessante da ascoltare. Ne è testimonianza questa brutta, bruttissima Nona di Beethoven: mal suonata e mal diretta, piena di superficialità ed enfasi in una visione che fa un calderone unico di sfumature, leggerezze, fraseggi…affogando la linea musicale in una mare di archi melensi e ruffiani in cui tutto si confonde in un’interpretazione che si limita a rallentare quando si suona piano e accelerare quando si suona forte. L’orchestra, poi, neppure è particolarmente precisa. Ma ciò che urta maggiormente l’orecchio è la totale impermeabilità all’evoluzione interpretativa: pare che Thielemann sia rimasto chiuso in una stanza dopo il 1930 e da lì sia uscito per propinarci un Beethoven che pare la brutta copia di Bruckner. Taccio poi dell’uso disinvolto del testo, dell’omissione di alcuni “da capo”, dell’utilizzo delle vecchie edizioni Peters (nonostante siano disponibili da tempo testi più corretti), dell’orribile pausa ripristinata come da tradizione (?) nell’ultima parte del Quarto movimento. Insomma un’edizione della Nona che non pare degna della storia dell’orchestra viennese e che nello sbandierato intento di porsi in chiave reazionaria e passatista rispetto agli anni che viviamo, risulta un’operazione di sterile retroguardia. Diversissimo l’approccio di Jaarvi, fin dalla durata (circa 15 minuti in meno). Il direttore estone naturalizzato statunitense ha intrapreso una rilettura del repertorio sinfonico classico (Beethoven, Schumann, Bruckner etc.) tenendo conto della storia e del tempo che passa, degli stimoli dati dai nuovi approcci interpretativi, dei testi critici apparsi negli ultimi anni, offrendoci – in questo caso – un Beethoven diverso, teso, più asciutto nel rapporto tra archi e fiati, così da permettere il risalto dell’architettura melodica, alleggerito da certa enfasi tardo romantica, dai tempi più agili (e coerenti ai metronomi beethoveniani) e con un uso intelligente ed espressivo del vibrato. Un Beethoven che racchiude il meglio delle nuove correnti esecutive, che parla alla modernità senza l’arroganza di sostituirsi alla storia passata, ma sviluppando un linguaggio differente. Non ci sono scelte polemiche o rivendicazioni ideologiche in Jaarvi, al contrario di Thielemann che tra le bordate sonore e i rubati da Concerto di Capodanno sembra voler riportare indietro l’orologio. Il primo movimento di Jaarvi è subito drammatico e teso, laddove Thielemann sbrodola retorica ed effetti fini a sé stessi. Ma è nell’adagio dove si colgono meglio le distanze: quello di Jaarvi è leggero come un sospiro, agilissimo e ricco nella dinamica di archi e fiati che si rincorrono nelle sfumature; Thielemann allunga e tira le linee musicali sino a snaturarle, con passo lento e pesante, più proteso alle atmosfere tristaniane che al disincanto settecentesco a cui si rivolgeva Beethoven. Ma poi basta guardare anche il numero di orchestrali per rendersi conto delle differenti visioni. Certamente ognuno poi avrà le sue preferenze e non pretendo che il mio giudizio sia condiviso: tuttavia mi piace sottolineare che un conto è porsi con libertà di fronte all’esecuzione musicale, consapevole di una storia passata, ma portando nuove esperienze e freschezza di linguaggio, in un’ottica dunque inclusiva e aperta alle tante possibilità che ci dona la musica; altra cosa è rifugiarsi in una propria idea di tradizione e negare legittimità a qualunque cosa si distacchi da ciò che si è abituati ad ascoltare, rifiutando pure l’esistenza di una diversa visione, ridotta a moda, impostura o fesseria.
Splendido intervento ,considero Jarvi uno dei massimi direttori viventi, il migliore della sua generazione.
Thielemann lo ricordo da giovane (ha un anno meno di me). Un bel piglio, apertura verso i moderni, un po’ di imitazione di Kleiber (mio figlio, non me) forse più nel gesto che in altro. Lo sentii anche in beethoven a Santa Cecilia dove eseguì molto bene il ciclo sinfonico. Poi una sera alla Scala presentò Metamorphosen di Strauss in una versione con gli archi triplicati o più. Era stato sedotto dal lato oscuro della forza! Quando annunciarono la pubblicazione delle sinfonie beethoveniane in blue ray le ordinai direttamente ai Wiener; quando arrivarono, cominciai dalla nona e… mi sembrò di essere alla rievocazione storica di un’adunada del NSDAP, mancava solo il tragico imitatore di Charlot. L’esecuzione della nona e di tutte le altre sinfonie è di una banalità imbarazzante ma il pubblico va in delirio. Thielemann, non è erede della tradizione, è semplicemente un direttore che scimmiotta quello che il volgo pensa sia la tradizione. Se andate sul tubo trovate un esempio illuminante: Alla fine dell’ottava di Bruckner – uno dei classici finali tira applausi – Thielemann chiede il silenzio come se fossimo al termine dell’incompiuta nona, e resta in silenzio con l’espressione plateale che ha qualche prete che mostra di essere in meditazione ma pensa a che cosa gli ha prparato la perpetua per pranzo. Sempre sul tubo cercate la settima di bruckner con Jochum (direttore di cui, ahimè si parla sempre troppo poco). Siamo in Giappone e il pubblico al termine esplode in un’ovazione tellurica. Il vecchio Jochum, seduto, guarda l’orchestra con un sorriso paterno e… fa una linguaccia, come a voler dire: “ragazzi, siamo stati proprio bravi”! Questa è la tradizione!
Su Jaervi poco da dire: il suo beethoven è perfetto (ascoltate tutte le sinfonie e scoprirete delle vere meraviglie), così come quasi tutto quello che tocca. Sono d’accordo: è il più interessante direttore della sua generazione, così come suo fratello minore Krystian lo è della sua e il loro padre Neeme è quel monumento che tutti sanno. De hoc satis
Concordo: interessantissima l’interpretazione di Jaarvi, tra l’altro con un orchestra davvero cameristica. Grazie per averla segnalata.